RITO Fornero SI’ – RITO FORNERO NO.

Come noto nel corso degli anni il nostro legislatore è più volte intervenuto creando nuove disposizioni processuali civili. Nel processo del lavoro, alcune norme sono state anche altalenanti, viene qui in mente il tentativo obbligatorio, poi facoltativo di conciliazione.
Con la Legge 92 del 28 giugno 2012 si è anche introdotto, e per la prima volta, un nuovo rito speciale per il licenziamento assistito dall’apparato sanzionatorio della reintegrazione forte o attenuata prevista al novellato art. 18 L. 300/70.
Orbene, a distanza di quasi 4 anni dall’entrata in vigore delle “nuove” disposizioni è stata proposta in sede di commissione parlamentare l’abrogazione delle norme processuali relative al contenzioso sui licenziamenti, come sopra introdotta.
Il punto focale in discussione attiene adesso alla valutazione circa l’opportunità o meno di abrogare quella parte della legge relativa al rito speciale.
E’ ben vero che in fase di prima applicazione, in ragione di diversi orientamenti, si sono rese necessarie le pronunce della Suprema Corte e della Corte Costituzionale che, ora, hanno reso stabile l’impianto.
E’ altresì vero che l’entrata in vigore del “Rito Fornero” ha richiesto uno sforzo organizzativo agli organi di giustizia deputati alla gestione dei procedimenti.
Va anche detto che tra questi ultimi, alcune sedi più sensibili e attente alla problematica della perdita del posto di lavoro ed ai tempi del decidere, già avevano creato un canale “preferenziale” per i licenziamenti per cui la “Fornero” altro non ha fatto che procedimentarne per legge e non solo per disposizione interna la regola.
Ora a 4 anni di distanza, ottenuta una stabilizzazione interpretativa, si vuole abolire il rito che ha razionalizzato, nel senso di cui sopra, il lavoro degli operatori di giustizia, abolizione che però prevede che debba esservi la creazione di un calendario di udienze ad hoc per le cause di licenziamento, regola sacrosanta, ma già in essere.
Mi chiedo, in ultima analisi, cosa si voglia apportare di utile al sistema giustizia civile? Quale vantaggio si ricavi regolando il contenzioso licenziamenti rigidamente col sistema preclusivo degli artt. 414 e ss. c.p.c.? E’ così necessario? Tengo a mente anche che la disposizione abrogativa prevedendo l’introduzione di giornate di udienza ad hoc precluderebbe, anch’essa come la Fornero, l’utilizzo dell’azione cautelare per difetto di periculum.
Dunque l’abrogazione determinerebbe solo la cancellazione dei principi consolidatisi in questi 4 anni senza innovare nulla: serve?

Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze.

Il 21 maggio 2016 è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la legge 20 maggio 2016, N. 76, intitolata «Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze».
Dell’argomento abbiamo già parlato[1], ma in considerazione della recente pubblicazione del nuovo testo di legge in Gazzetta Ufficiale, il tema merita ancora alcune considerazioni.
Prima fra tutte, le disposizioni della nuova legge entreranno in vigore il 5 giugno 2016. La nuova disciplina interessa le “unioni civili”, tra persone dello stesso sesso, e le “convivenze di fatto”, ovvero “(…) due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolante da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”.
Al fine di fornire una disciplina più dettagliata, il legislatore, nello stesso testo di legge, delega il Governo ad adottare, entro il 5 dicembre 2016 (cioè 6 mesi dopo l’entrata in vigore), uno o più decreti legislativi in materia di unione civile tra persone dello stesso sesso, nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi:

  1. adeguamento alle nuove previsioni legislative delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni;
  2. modifica e riordino delle norme in materia di diritto internazionale privato, prevedendo l’applicazione della disciplina dell’unione civile tra persone dello stesso sesso regolata dalle leggi italiane alle coppie formate da persone dello stesso sesso che abbiano contratto all’estero matrimonio, unione civile o altro istituto analogo;
  3. modificazioni ed integrazioni normative per il necessario coordinamento con la presente legge delle disposizioni contenute nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti e nei decreti.

Per tutto quello che rimane fuori dalla normativa e che non è espressamente vietato dalla legge, l’estensione di più ampi diritti alle parti di un’unione civile o ai conviventi di fatto in ambito giuslavoristico potrà comunque avvenire tramite l’adozione di policy aziendali, a livello di contrattazione individuale, oppure, a livello di contrattazione integrativa aziendale o, ancora, nel più ampio ambito della contrattazione collettiva nazionale.
[1] https://lexellent.it/wp-content/uploads/2016/05/La-legge-sulle-unioni-civili-6.pdf

CHE COSA PREVEDE LA LEGGE SULLE UNIONI CIVILI IN AMBITO GIUSLAVORISTICO E LE CONSEGUENZE PER I DATORI DI LAVORO.

A seguito dell’incontro organizzato da Parks in collaborazione con Deutsche Bank, in occasione della giornata IDAHOT – 17 maggio, l’avv. G. Bergamaschi mette a disposizione dei partecipanti le slide del proprio intervento.
Per scaricare le slide cliccare qui.

È POSSIBILE FARE “DECADERE” I DIRIGENTI DAL DIRITTO ALLA MONETIZZAZIONE DELLE FERIE MATURATE E NON GODUTE NEL CORSO DEL RAPPORTO?

La risposta è affermativa e ce lo conferma la giurisprudenza.
I dirigenti apicali, quelli che hanno il potere di attribuirsi le ferie, non hanno il diritto, che è invece riconosciuto per legge agli altri dipendenti, di vedersi corrispondere l’indennità sostitutiva delle ferie non godute in occasione della cessazione del rapporto.
La Corte di Cassazione, con orientamento praticamente costante, ritiene che “Il dirigente che, pur avendo il potere di attribuirsi il periodo di ferie senza alcuna ingerenza del datore di lavoro, non eserciti il potere medesimo e non usufruisca quindi del periodo di riposo annuale, non ha il diritto all’indennità sostitutiva delle ferie non godute, a meno che non provi la ricorrenza di necessità aziendali assolutamente eccezionali ed obiettive ostative alla suddetta fruizione” (Cass. civ. Sez. lavoro, 07.06.2005, n. 11786).
La ragione di tale orientamento risiede nella ratio della norma di riferimento: l’art. 10 del Decreto Legislativo n. 66/2003, che ha dato attuazione nel nostro paese alle direttive europee 93/104/CE e 2000/34/CE, rubricato “Ferie annuali”, detta come regola generale quella della impossibilità di monetizzare le ferie non godute.
Posto che il principio cardine, in tema di ferie, è l’irrinunciabilità del periodo di riposo garantito per legge, la ratio della norma sopra riportata è quella di garantire al lavoratore il riposo necessario al ripristino delle energie fisiche e intellettive per poter adempiere alla propria attività lavorativa. La disposizione, quindi, impedisce la monetizzazione delle ferie non godute, non perché i prestatori di lavoro possano “decadere” dal diritto alle ferie (o alla relativa indennità), bensì per obbligare il datore di lavoro a far fruire il lavoratore di un periodo di ristoro.
Il dirigente che, pur essendo titolato ad auto-attribuirsi le ferie, non lo faccia, essendo lui stesso e non il datore di lavoro a determinare la possibilità di accedere al ristoro delle energie previsto per legge, non avrà diritto a vedersi liquidare l’indennità per le ferie non godute in occasione della cessazione del rapporto, a meno che – dice la giurisprudenza della Suprema Corte – non sia in grado di dimostrare la sussistenza di eccezionali ed obiettive necessità aziendali ostative alla fruizione delle ferie.
Quello che la giurisprudenza tende a fare è dunque un ribaltamento dell’onere probatorio: fin tanto che è il datore di lavoro che deve autorizzare le ferie o che deve/può imporre la fruizione di un periodo di ferie al lavoratore, allora le eventuali ferie non godute saranno monetizzabili al momento della cessazione del rapporto, in un’ottica compensativo-risarcitoria per la mancata fruizione del periodo di riposo garantito dalla legge e dal contratto. Quando, al contrario, è il dirigente medesimo ad avere la facoltà e il potere di attribuirsi le ferie, allora sarà suo onere fruirle o, in caso di mancata fruizione per un’inadempienza solo a lui attribuibile, non avrà diritto all’indennità sostitutiva, salvo riuscire a dimostrare che sono nuovamente esigenze solo riferibili al datore di lavoro che gli hanno impedito di godere del periodo di ferie.

Discriminazione per disabilità sopravvenuta e tutela della salute dei lavoratori.

La maggior parte degli ordinamenti europei, così come il nostro, ha riservato ai disabili forme specifiche di “protezione sociale” (i.e. quote riservate nelle assunzioni, sostegni monetari, servizi di assistenza e cura) sul presupposto che la condizione di disabilità/diversità non fosse superabile.
Il nuovo diritto antidiscriminatorio europeo in materia di occupazione e condizioni di lavoro oggetto della Direttiva 2000/78/CE si è posto, invece, in termini di discontinuità con questo filone legislativo, introducendo l’obbligo per il datore di lavoro di adottare “soluzioni ragionevoli” che modifichino il luogo, l’organizzazione e le condizioni di lavoro delle persone disabili allo scopo di includerli nell’ambiente lavorativo e di consentire loro di partecipare pienamente alla vita della comunità aziendale.
Il recepimento della Direttiva con il D.lgs. n. 216/2003, inizialmente incompleto per omessa inclusione proprio della disposizione in tema di “soluzioni ragionevoli per i disabili” (art. 5), ha portato, nel 2013, la Corte di Giustizia UE a condannare il nostro Paese per non corretta “trasposizione” sulla base del presupposto che la legislazione nazionale “non impone all’insieme dei datori di lavoro l’obbligo di adottare, ove ne sia la necessità, provvedimenti efficaci e pratici, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, a favore di tutti i disabili, che riguardino i diversi aspetti dell’occupazione e delle condizioni di lavoro, al fine di consentire a tali persone di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione” (CGUE, IV Sez., 04/07/2013, C-312/11).
Al fine di ottemperare alla sentenza della CGUE il legislatore nazionale ha introdotto il co. 3-bis all’art. 3 del D.lgs. n. 216/2003, attraverso il D.L. n. 78/2013 conv. in L. n. 99/2013, con cui si prevede che: “Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori (…)”.
Sul punto, del resto, anche la giurisprudenza di legittimità, relativamente a fatti anteriori alla detta integrazione, affermava già che il corretto inserimento della persona disabile nella struttura aziendale fosse possibile grazie ad un’interpretazione della normativa applicabile costituzionalmente orientata all’art. 3 Cost., finalizzato ad assicurare alle categorie a rischio discriminazione “uno statuto effettivo di pari opportunità di inserimento sociale, economico e politico” (Cass. civ., Sez. lav., 09/07/2015, n. 14348 ).
Alla luce del precetto di cui al co. 3-bis dell’art. 3 del D.lgs. n. 216/2003, sembra, pertanto, possibile affermare che, a fronte della disabilità (di lunga durata) sopravvenuta per motivi di salute (non derivanti dall’inadempimento degli obblighi di prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali) tale da ostacolare la piena ed effettiva partecipazione alla vita lavorativa della persona su basi di eguaglianza con gli altri prestatori, il datore risulti vincolato ad attuare “accomodamenti ragionevoli” sia di tipo organizzativo (es. la modificazione delle mansioni o dell’orario) che tecnico (es. il superamento delle barriere architettoniche o l’uso di determinati mezzi o strumenti di lavoro). L’unico limite che si rinviene rispetto a tale obbligo è la comprovata sproporzione degli oneri finanziari necessari per realizzare gli accomodamenti (ir)ragionevoli (secondo la Direttiva 78/2000/CE la soluzione non è sproporzionata allorché l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili).
Si vedano, in tale contesto, alcune interessanti sentenze di merito – nella specie, Trib. Milano, sent. 11/02/2013 e Trib. Bologna ord. 18/06/2013 – secondo cui la malattia di lunga durata e non transitoria con attitudine ad incidere ed ostacolare la vita professionale per un lungo periodo deve ritenersi rientrare nella nozione di handicap ovvero di disabilità (cfr. anche CGUE, II Sez., 11/04/2013, C-335/11 e C-337/11).
In quest’ottica risulta, pertanto, fondamentale una lettura combinata del nuovo art. 2103 c.c. e dell’art. 42 del D.lgs. n. 81/2008, in particolare per quanto riguarda i giudizi di inidoneità permanente alla mansione di lavoro precedentemente svolta, formulati dal medico competente, in relazione sia alla disciplina del trasferimento a mansioni diverse, anche inferiori, che a modalità diverse di svolgimento della stessa mansione, siccome compatibili con l’accertata disabilità.
L’adempimento dell’obbligo di predisporre ragionevoli adattamenti condiziona, infatti, il potere di recesso del datore di lavoro, il quale potrà legittimamente licenziare il lavoratore a fronte della comprovata inidoneità sopravvenuta alla mansione per motivi di salute (i.e. condizione patologica di carattere duraturo e non temporaneo che determini una limitazione, un ostacolo alla piena ed effettiva partecipazione alla vita professionale in condizione di eguaglianza con gli altri lavoratori) solo dopo aver adottato tutte le soluzioni possibili, vale a dire tutti gli “accomodamenti ragionevoli” prescritti dall’art. 3, co. 3-bis, del D.lgs. n. 216/2003, oppure dopo aver dimostrato l’inesistenza o l’irragionevolezza (se esistenti) degli adattamenti per comprovata sproporzione degli oneri finanziari necessari per realizzarli.
A conferma di tale lettura si veda Trib. Pisa, 16/04/2015 nella quale il giudice di prime cure afferma che, qualora il datore di lavoro non provi di aver adottato ragionevoli accorgimenti per garantire alle persone con disabilità di conservare la propria posizione lavorativa, è da ritenere ingiustificato per violazione del principio di non discriminazione il licenziamento irrogato ad una lavoratrice disabile per sopravvenuta inidoneità psico-fisica allo svolgimento delle mansioni (vedi anche CGUE, Grande Sez., 11/07/2006, C-13/05).
E’, infatti, nullo il licenziamento per ragione esclusiva di discriminazione da handicap sulla scorta dell’affermazione apodittica che la condizione d’invalidità del lavoratore abbia impedito di rendere proficuamente la prestazione, senza alcun accertamento medico al riguardo e senza la prova di effettive disfunzioni nello svolgimento dei compiti di pertinenza (Cass. civ., Sez. lav., 26/04/2016, n. 8248).

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premi di produttività e welfare aziendale.

La Legge di Stabilità 2016 ha reintrodotto, seppur con criteri diversi rispetto al passato, la detassazione delle somme erogate a titolo di premio di risultato (la cui corresponsione è legata ad incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione, misurabili e verificabili sulla base di criteri definiti con il Decreto interministeriale Lavoro Finanze del 25 marzo 2016).
Il precedente provvedimento emanato in materia riguardava redditi da lavoro dipendente non superiore a € 40.000 ed operava per premi corrisposti entro un massimale di € 3.000.
In virtù dell’attuale provvedimento, gli emolumenti erogati ai lavoratori dipendenti del settore privato nel limite di € 2.000 lordi annui sono soggetti ad un imposta sostitutiva pari al 10% in luogo della ordinaria tassazione IRPEF e delle addizionali regionali e comunali.
Possono beneficiare di tale agevolazione i lavoratori dipendenti del settore privato, titolari di contratto di lavoro subordinato che abbiano percepito nell’anno precedente a quello di riferimento un reddito lordo non superiore ad € 50.000 (per espressa previsione normativa tale limite deve essere considerato al lordo delle somme assoggettate nel medesimo anno all’imposta sostitutiva del 10% in esame).
Il comma 187 dell’art. 1 della nuova legge di Stabilità prevede che ai fini dell’applicazione delle disposizioni in esame tali premi devono essere erogati in esecuzione di contratti aziendali o territoriali di cui all’art. 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015 n. 81 (richiamando, così, l’attenzione dell’imprenditore anche sulla necessità di dotarsi di una contrattazione di secondo livello).
Tuttavia, si evidenzia che al vantaggio fiscale non si unisce quello contributivo. Infatti, da quest’anno non è più prevista la decontribuzione previdenziale per tali premi.
Per ottimizzare il costo del lavoro, garantendo la massima soddisfazione dei propri dipendenti, i datori di lavoro potrebbero riflettere sulla opportunità di sfruttare le misure di welfare aziendale che, a differenza dei premi di produttività standard, sono anche decontribuibili.
La nuova legge di Stabilità prevede infatti che i premi di produttività possano essere fruiti, in tutto o in parte,  sotto forma di contributi versati direttamente dal datore di lavoro ad Enti o casse aventi esclusivamente fine assistenziale oppure sotto forma di contributi versati al fondo di previdenza complementare.
La normativa include anche i servizi di utilità sociale ex art. 100 TUIR, comprendendo i servizi di educazione ed istruzione non solo del dipendenti ma anche dei suoi familiari, nonché tutti i servizi di assistenza ai familiari anziani o non autosufficienti.
In tal modo, l’importo corrisposto mediante servizi sostitutivi agevolati verrebbe detassato e decontribuito, riducendo di gran lunga il costo del lavoro.

il lavoro agile.

Torniamo brevemente sul tema del lavoro agile. La legge che ne prevede l’introduzione nell’ordinamento giuridico italiano non è ancora stata approvata (i tre disegni di legge sul tema sono ancora all’esame delle commissioni competenti del Senato); tuttavia, l’attenzione su questa modalità di prestazione dell’attività lavorativa non è venuta meno. Molte pagine sono state scritte sul numero limitato di imprese che per il momento hanno attuato progetti di lavoro agile, con particolare attenzione al fatto che sarebbero le ragioni culturali proprie del nostro paese a impedire di fondare sulla fiducia il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore. Perché il lavoro agile abbia successo bisogna però porre l’attenzione anche sul punto di vista dei lavoratori, senza dare per scontato che accolgano con entusiasmo la proposta del datore di lavoro di prestare attività lavorativa in modo flessibile. Considerato che la prestazione di lavoro agile si attuerà, per quanto sembra, su base volontaria, perché la legge abbia successo occorrerà che l’offerta del datore di lavoro di lavorare fuori dall’azienda incontri l’esigenza di flessibilità dei lavoratori. Ciascun datore dovrà, quindi, porre particolare attenzione alle diverse istanze di flessibilità dei quali i suoi lavoratori si diranno portatori, in modo da dare loro risposte adeguate e concrete. Diversamente, se all’offerta di flessibilità non corrisponderà un’idonea domanda, la legge sarà destinata a risultati non soddisfacenti. Le esigenze dei lavoratori nei confronti del datore di lavoro mutano in ragione delle stagioni della vita. Da uno studio effettuato da www.smartworking.srl in occasione dell’ultima giornata del lavoro agile del 18 febbraio 2016, è risultato che l’età media dei lavoratori che usufruiscono degli spazi di coworking è di 38 anni. Questo potrebbe significare che i lavoratori più giovani, da poco inseriti nel mondo del lavoro, preferiscono recarsi in ufficio anziché godere della flessibilità. E ciò può anche significare che laddove non ci sia il bisogno, lo strumento messo a disposizione dal datore di lavoro rimane poco utilizzato. Attenzione, quindi, a non perdere di vista le esigenze dei lavoratori, una delle chiavi attraverso le quali le aziende potranno davvero lavorare con maggiore impegno sugli obiettivi, con benefici in termini di competitività.

MODELLI DI BUSINESS E PROPRIETA’ intellettuale.

A seguito del workshop tenuto presso lo studio Lexellent, socio di Réseau-Entreprendre, l’avv. R. D’Andrea, of counsel Lexellent, mette a disposizione i contenuti del proprio intervento.
Per scaricare il materiale cliccare qui.

Operativa la detassazione dei premi di risultato.

Nella Gazzetta Ufficiale – Serie Generale n. 112 del 14 maggio 2016 è stato pubblicato il Comunicato relativo all’adozione, in data 25 marzo 2016, del Decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze, che – in attuazione dell’art. 1, commi 182-191, della Legge n. 208/2015 (Legge di Stabilità  2016) – disciplina l’erogazione dei premi di risultato e la partecipazione agli utili di impresa con tassazione agevolata.
Il D.M. è stato, quindi, pubblicato in data 16 maggio 2016 sul sito web del MLPS – Sezione Documenti e Norme – Pubblicità Legale: la detassazione dei premi di risultato è, quindi, oramai operativa.
Dal 16 maggio 2016, pertanto, le aziende che vogliano usufruire della detassazione prevista dovranno depositare, esclusivamente in modalità telematica, i contratti collettivi di secondo livello in formato pdf entro 30 giorni dalla loro sottoscrizione unitamente al modello allegato al D.M. compilato con l’indicazione dei dati del datore di lavoro, del numero dei lavoratori coinvolti e degli indicatori dei parametri prefissati relativi agli incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione: in questo modo il modello perverrà automaticamente alla Direzione Territoriale del Lavoro competente con la dichiarazione del datore di lavoro attestante la conformità del contratto depositato ai principi fissati nella Legge di Stabilità 2016 e alle disposizioni del D.M. 25 marzo 2016.
Per i premi di risultato contratti, a livello aziendale o territoriale, nel 2015 (conformi alle previsioni) il termine per effettuare l’invio è il 15 giugno 2016 (vale a dire entro 30 giorni dalla data di pubblicazione del D.M.).
L’obiettivo dichiarato dal MLPS è quello di monitorare le prassi attuate dalle singole imprese o a livello locale verificandone la conformità alle norme di legge.

employer’s control on employee’s activity: reform of article 4 italian workers’ statute of rights.

Il contributo dell’avv. Bargellini sul tema del Controllo a distanza.
Under Italian employment law, the control over the employee’s activity has been forbidden for years. This means that the employer could not implement any technical, mechanical, audiovisual system that – even if implemented for other reasons – allowed the control on the employees’ working activity.
Article 4 of the Italian Workers’ Statute of Rights (Law no. 300/1970) prevented the use of any technical or mechanical control over the employee’s activity: the employers could not use any video cameras, mechanical systems, software, and any other device that could let the employer acknowledge if and how the employees were working during the working time.
The employer could use this kind of systems only for technical, organisational reasons and for reasons linked to the safety at work, but only after having reached an agreement with Unions. These kind of systems were usually allowed to protect the Company’s properties (like video cameras filming the cash registers for avoiding thefts).
Last September 2015, the Italian Jobs Act amended Article 4 of the Italian Worker’s Statute of Rights, and some significant changes were introduced. Pursuant to the new legislation, the regulation of the use of audiovisual systems and any other device through which the employer can control the employee’s activity remained unchanged: these systems can be implemented only for productive and organisation reasons and for protection of the Company’s properties with the green light of Unions representatives.
Moreover, the new Article 4 Law 300/1970 allows the employers to process and use all information obtained from devices given to employees for performing the working activity such as GPS in company’s car, the mobile’s app used for working reasons, the security pass, the laptop, the iPad or similar IT equipment used by the employees for working reasons.
The big revolution of this new regime consists in the fact that the employer can use the information obtained from these devices for any purpose linked to the employment relationship, and this means that the companies can use the information, for example, for evaluating the employee’s performance and for disciplinary issues.
This is a strong reform under Italian law: what previously was absolutely forbidden, like checking the employee’s activity through the work equipment, is now allowed. The employer can keep under control the employees’ mobile phones, GPS, personal computers and laptops and all information obtained are valid and useful for evaluating the employees’ performance, also from the poor performances process point of view, as well as for disciplinary procedures.
The only employers’ obligation is to inform in advance the employees about the use of the equipment they are going to implement. Therefore the companies should draft new internal policies, duly published and delivered to the employees, in which they clearly and fully explain how the work equipment will be used and which information the employer will obtain from it and the aim of such control.
This new regime has not been universally adopted by Italian companies yet, because employers are perhaps still waiting for the first Judge’s interpretation, which will clarify some interpretative doubts still existing, with reference for example to what can be considered as work equipment, and how to implement any control on equipment used for private purposes after the working time.
At this time, no Italian Judge has had the opportunity to pronounce on this matter, therefore the employers are now slowly and reluctantly implementing this discipline, from one side with the desire to change the rules, but on the other side with the fear of the Judges’ contrary decisions, that could lead to convictions of paying damages to the employees.

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LE MODIFICHE APPORTATE DAL REGOLAMENTO 1215/2012 IN TEMA DI GIURISDIZIONE SUI CONTRATTI DI LAVORO AEREO.

Nel gennaio 2015 è entrato in vigore il regolamento UE 1215/2012, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, che ha sostituito il precedente regolamento CE 44/2001 (c.d. Bruxelles I).
Le modifiche apportate al sistema europeo di riconoscimento ed esecuzione delle sentenze civili è stato importante ed ha avuto enorme risalto tra i commentatori.
In tema di determinazione dei criteri di collegamento per l’individuazione della giurisdizione competente sulle varie materie, invece, il regolamento non ha apportato significative modifiche rispetto al precedente regolamento (CE) 44/2001, tanto che si potrebbe quasi sostenere che nella maggior parte dei casi i criteri sono rimasti pressoché invariati.
La giurisdizione in tema di contratti di lavoro, in particolare, parrebbe a primo avviso immutata rispetto al precedente regolamento Bruxelles I, ma, andando nel profondo della nuova lettera della legge europea, non è così.
C’è una grande fetta dell’imprenditoria che opera nel mondo dei trasporti che è stata particolarmente impattata dalla riforma dei criteri per la determinazione dei giudici competenti.
Il criterio base per determinare la giurisdizione in tema di contratti di lavoro è rimasto il medesimo, ovvero il domicilio del convenuto – regola base dell’intero impianto europeo di individuazione dei giudici competenti.
In particolare, il Reg. UE 1215/2012, in linea con il precedente Reg. CE 44/2001, stabilisce all’art. 21 che “Il datore di lavoro domiciliato in uno Stato membro può essere convenuto a) avanti alle autorità giurisdizionali dello Stato in cui è domiciliato”. Ciò significa che se un’impresa opera in uno stato dove, però, non è domiciliata, in quanto per esempio non ha in quello Stato alcuna sede legale, secondaria o stabile organizzazione, non potrà essere convenuta davanti ai giudici di tale Stato.
La novità introdotta dal Regolamento UE 1215/2012 sta nel prosieguo della disposizione che deroga al precedente criterio generale stabilendo che, in ogni caso, “Il datore di lavoro domiciliato in uno Stato membro può essere convenuto b) davanti all’autorità giurisdizionale del luogo in cui o da cui il lavoratore svolge abitualmente la propria attività o a quello dell’ultimo luogo in cui o da cui la svolgeva abitualmente”. Il criterio del luogo di svolgimento abituale dell’attività lavorativa era presente anche nella regolamentazione precedente (Bruxelles I),  ma nella nuova versione vi è una piccolissima modifica che, però, ha grande impatto sulle società di navigazione aerea.
La nuova norma, infatti, prevede che il datore di lavoro possa essere convenuto non solo davanti all’autorità giurisdizionale del luogo in cui il dipendente svolge o svolgeva la propria attività lavorativa, ma – a partire dal 2015 – può essere convenuto anche davanti ai giudici del luogo “da cui” il lavoratore svolge la propria attività.
Questo significa che le imprese che effettuano trasporto aereo possono adesso essere convenute anche di fronte ai giudici dei paesi a partire dai quali i propri dipendenti si imbarcano a bordo degli aerei. I dipendenti delle compagnie aeree, che prestano attività lavorativa a bordo degli aeromobili, infatti, svolgono la propria attività nel paese di immatricolazione dell’aereo, posto che gli aeromobili sono territorio del paese di cui battono bandiera, così come stabilito dalla Convenzione di Chicago del 1944.
Pertanto, fino al gennaio 2015, le società di trasporto aereo che non avevano nel paese, sul quale operavano come vettore, alcuna sede legale o di rappresentanza, non potevano essere convenute dai propri dipendenti dinnanzi ai giudici di tale paese. Successivamente all’entrata in vigore del Regolamento UE 1215/2012, invece, la storia è cambiata.
Pur non avendo alcuna sede nel paese sul quale volano, i datori di lavoro del mondo aereo potranno essere convenuti in giudizio nel paese dove i propri dipendenti si imbarcano, anche se poi prestano l’intera attività lavorativa a bordo di aerei battenti bandiera straniera, e quindi in territorio straniero.

La legge sulle unioni civili.

Un commento a seguito all’approvazione di ieri della legge sulle Unioni Civili e i risvolti giuslavoristici.
L’11 maggio 2016 la Camera ha approvato il disegno di legge sulle unioni civili, nel testo così come validato in commissione Affari costituzionali e già votato al Senato. Da oggi anche il nostro Paese ha una legge sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso e sulle convivenze anche tra persone di sesso diverso. Disciplinare la pluralità di forme della convivenza significa dare attuazione al dovere dello Stato di tutelare la libertà di realizzazione della persona nei suoi rapporti con gli altri (art. 2 Cost.). In attuazione del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), alcuni diritti e doveri spettanti al nucleo familiare costituito da coniugi vengono estesi anche alle parti dell’unione civile, pur rimanendo quest’ultima e il matrimonio istituti distinti. L’attuale testo è il frutto di diverse riformulazioni della disciplina delle unioni civili e assorbe al suo interno ben tredici disegni di legge, in precedenza presentati al Senato. Nel testo approvato, la disciplina sull’impresa familiare (di cui all’art. 230 bis c.c.) viene estesa anche alle unioni civili e alla coppia convivente, per cui il partner che abbia prestato attività lavorativa continuativa nell’impresa di cui sia titolare l’altra parte si vede riconosciuto il diritto di rivolgersi al giudice per richiedere il riconoscimento della partecipazione agli utili. Risvolti ancor più dirompenti assume l’estensione alle parti dell’unione civile dei diritti e degli obblighi derivanti dalle disposizioni che si riferiscono al matrimonio e riguardanti i coniugi ovunque ricorrano “nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi” (art. 1 comma 20 del testo appena approvato). Tradotto in altri termini, questo significa che, in caso di morte di un partner lavoratore dell’unione civile, al superstite spetteranno la pensione di reversibilità e il versamento del Tfr da parte del datore di lavoro. In caso di convivenza registrata (coppie di persone di identico sesso o di sesso diverso), invece, al partner superstite la pensione non spetterà, mentre il Tfr si ma solo se previsto nel testamento; il testo di legge, infatti, estende espressamente i diritti sopra citati soltanto alle parti di un’unione civile. Da una prima interpretazione, alle parti di un’unione civile spetterà anche il congedo matrimoniale, istituto disciplinato dal RDL n. 1334/1937 che rinvia alla contrattazione collettiva le modalità di fruizione del congedo retribuito, generalmente della durata di quindici giorni (non computabili né nel periodo di ferie annuali né nel preavviso). Studio Legale Lexellent Via Borghetto, n. 3 – 20122 Milano | Via dei Gracchi 128 – 00192 Roma Tel. 02 8725171 – Fax 02 87251740 | P.IVA 07411510964 lexellent@creativeconnection.it – www.lexellent.it | www.ellint.net Quello che sembrava rimasto fuori dall’attuale testo di legge, sempre in ambito giuslavoristico, potrebbe rientrarvi grazie alla sopra citata clausola di carattere generale: ad esempio, le disposizioni che prevedevano l’estensione alle parti dell’unione civile dei diritti derivanti dall’inserimento in graduatorie occupazionali o in categorie privilegiate, ove l’appartenenza ad un nucleo familiare sia requisito di preferenza e l’estensione dei diritti derivanti dal rapporto di lavoro. In ogni caso, rimane facoltà del datore di lavoro operare unilateralmente, attraverso policy o inserendo nel contratto individuale di lavoro l’estensione del riconoscimento di diritti, così come di benefit e strumenti di welfare, anche alle coppie conviventi e alle unioni civili omossessuali ed eterosessuali. Peraltro, questa estensione può essere prevista anche dalla contrattazione collettiva nazionale o di secondo livello.

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A seguito del seminario odierno, segue la relazione dell’intervento a cura dell’avv. S. Barozzi, managing partner – Lexellent e dell’avv. H. Bisonni, Associate – Lexellent
Per scaricare il materiale relativo al seminario cliccare qui.

Reati nella gestione del personale.

A seguito di un’importante sentenza della Corte di Cassazione Link, ecco alcune considerazioni.
EFFETTO ESPANSIVO DEL DIRITTO PENALE: L’ESTORSIONE NEL RAPPORTO DI LAVORO
Il 25 marzo dello scorso anno Lexellent organizzava un convegno dal titolo “ I reati nella gestione del lavoro”.  A commento e presentazione del seminario scrivevamo “Lo scopo del seminario è quello di analizzare gli aspetti problematici della “supplenza penale” a tutela delle condizioni di lavoro…….verranno analizzati quei comportamenti che sin d’ora hanno avuto conseguenze quasi esclusivamente in ambito lavoristico, ma che d’ora in avanti potrebbero essere maggiormente perseguiti anche a livello penale; solo per citare alcuni esempi, l’estorsione nei rapporti di lavoro, l’interferenza illecita nella vita privata e la diffamazione attraverso l’utilizzo indiscriminato dei social network.”. Volevamo infatti segnalare ai nostri clienti un fenomeno del quale ci eravamo accorti, e di particolare rilevanza.
Fino al marzo dello scorso anno il sistema del diritto del lavoro nel nostro Paese era incardinato su un impianto normativo nato oltre 40 anni prima incentrato su garanzie rigide, con una ampia tutela accordata al lavoratore in caso di violazione delle norme da parte del datore di lavoro ed in cui,a differenza di quanto si possa pensare, il lavoratore in quanto “individuo” passava per certi versi in secondo piano, perché in realtà al centro di tutto il sistema c’era il “posto di lavoro”, la sua tutela, la sua protezione, ma soprattutto la sua intangibilità: la reintegra, il divieto di modifica delle mansioni. Era un sistema che rispondeva alle esigenze del tempo e dei valori esistenti quando era nato, un sistema oggi non più adeguato al nuovo sentire collettivo.
La rigidità del sistema ha, però, prodotto anche degli effetti collaterali. Non ha consentito che potessero esprimersi forme diverse di tutela: lo Statuto dei Lavoratori bastava e avanzava e non c’era assolutamente bisogno di dare spazio a forme alternative di protezione dei lavoratori i quali, da parte loro, si vedevano costretti, o erano ben felici, di rinunciare all’affermazione di diritti diversi ed individuali in favore di una tutela, magari un pò fanè, ma certamente assai efficace ed a fronte della quale si poteva ben facilmente rinunciare a domande e bisogni il cui accoglimento appariva molto più incerto. E, dal canto loro, anche gli stessi giudici erano restii a dare ingresso a temi quali quello della parità, della discriminazione, dei danni morali a fronte di un sistema che proteggeva in modo forse meccanicistico ma certamente adeguato il lavoratore.
Il sistema di pesi e contrappesi aveva, come sempre, una sua logica. E così, in un ordinamento particolarmente rigido potevano trovare spazio e comprensione fenomeni ed atteggiamenti che, pur considerati disdicevoli venivano sostanzialmente sopportati. E ci chiedevamo se oggi che il sistema è completamente cambiato l’approccio a quei comportamenti resterà immutato? Saranno ancora sostanzialmente tollerate situazioni che si pongono oltre il confine del lecito? Cosa succederà nelle aule di giustizia? Le molestie nei confronti dei lavoratori, linguaggi non appropriati, esclusioni motivate solo dalla antipatia personale, trattamenti economici e normativi non giustificati dalla competenza professionale, saranno ancora valutati con sufficienza, come una risposta forse un pò eccessiva, ma tutto sommato ineludibile in un sistema bloccato che non offriva alternative legalmente percorribili e che apriva ampi spazi per furbetti e lavativi.
La risposta era negativa ed oggi le prime conferme di quello che dicevamo giungono dalla Corte di Cassazione. Con la sentenza 18727/16 è stato condannato per estorsione un imprenditore che aveva costretto i candidati all’assunzione ad sottoscrivere un contratto simulato part time, pur già sapendo che l’orario di lavoro effettivo stato a tempo pieno e che gli aveva poi costretti a firmare una lettera di dimissioni in bianco, e imponeva loro di dichiarare il falso in occasione di una visita ispettiva intervenuta nel corso del rapporto.
Secondo la Cassazione può esserci estorsione anche quando “ il potere di autodeterminazione della vittima non è completamente annullato, ma è, tuttavia, limitato in maniera considerevole: in altri termini, il soggetto passivo dell’estorsione è posto nell’alternativa di far conseguire all’agente il vantaggio economico voluto ovvero di subire un pregiudizio diretto e immediato” e conseguentemente “ in questa prospettiva, anche lo strumentale uso di mezzi leciti e di azioni astrattamente consentite può assumere un significato ricattatorio e genericamente estorsivo, quando lo scopo mediato sia quello di coartare l’altrui volontà; in tal caso, l’ingiustizia del proposito rende necessariamente ingiusta la minaccia di danno rivolta alla vittima e il male minacciato, giusto obiettivamente, diventa ingiusto per il fine cui è diretto”
vo dell’irrilevanza del formale ricorso al contratto, allorchè questo risulta strumentalizzato al perseguimento di un ingiusto profitto.
Invero, nella sentenza impugnata (la cui lettura va integrata con quella della sentenza di primo grado in presenza di una c.d. “doppia conforme” in punto affermazione della penale responsabilità con riferimento ai reati di estorsione) viene tracciato, in maniera logica ed esaustiva, un quadro globale di timore dei dipendenti, in ragione della particolare situazione del mercato del lavoro (in cui l’offerta superava di gran lunga la domanda) e in presenza di comportamenti certamente prevaricatori del datore di lavoro, sì da rendere evidente che, anche nel caso in cui sin dal momento di instaurazione del rapporto il lavoratore avesse “accettato” di non rivendicare i propri diritti, siffatta accettazione non era libera, ma condizionata dall’assenza di possibilità alternative di lavoro” Ricorda poi la Corte che la giurisprudenza “ è costante nel ritenere che un accordo contrattuale tra datore di lavoro e dipendente, nel senso dell’accettazione da parte di quest’ultimo di percepire una paga inferiore ai minimi retributivi o non parametrata alle effettive ore lavorative, non esclude, di per sè, la sussistenza dei presupposti dell’estorsione mediante minaccia, in quanto anche uno strumento teoricamente legittimo, può essere usato per scopi diversi da quelli per cui è apprestato e può integrare, al di là della mera apparenza, una minaccia, ingiusta, perchè è ingiusto il fine a cui tende, e idonea a condizionare la volontà del soggetto passivo, interessato ad assicurarsi comunque una possibilità di lavoro, altrimenti esclusa per le generali condizioni ambientali o per le specifiche caratteristiche di un particolare settore di impiego della manodopera”

tra tecnologie e cultura d’impresa arriva la legge sullo smart working.

Un confronto tra professionisti e imprese sul tema dello smart work.
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L’ultimo orientamento della Cassazione sull’obbligo di repêchage.

Come noto l’impresa può ricorrere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo anche nell’ipotesi di una gestione più economica, determinata da eventi oggettivamente sfavorevoli, di modo che le decisioni di riassetto appaiano giustificate da quell’esigenza e siano con essa in stretto nesso causale.
Come è, altresì, noto nel nostro ordinamento vige, per effetto della elaborazione giurisprudenziale, il c.d. obbligo di repechage e proprio su questo tema è intervenuta recentemente la Cassazione, sentenza n. 5592/2016, la quale ha cambiato gli equilibri sino a tal momento presenti in tema di oneri probatori.
Secondo il prevalente orientamento della Suprema Corte, sino a tale pronuncia l’onere probatorio si ripartiva tra lavoratore licenziato e datore, nel senso che il primo era onerato dalla indicazione delle posizioni che avrebbe potuto ricoprire in azienda in alternativa al licenziamento e il secondo dall’onere di provarne la copertura con l’organico esistente.
Ora, con la sentenza indicata, l’onere viene a gravare esclusivamente sul datore di lavoro, il quale dovrà provare in giudizio la completezza dell’organico tenuto conto di quanto novellato dall’art. 2103 c.c. per effetto del D.Lgs. n. 81 del giugno 2015.
Tale decisione esaminata con la nuova disciplina sulle mansioni rende ancora più gravoso l’onere datoriale poiché il suo assolvimento non potrà più limitarsi a smentire le allegazioni del lavoratore ma comporterà una comparazione dell’intero organico tra tutte le posizioni libere esistenti comprese quelle adibite a mansioni inferiori.
In una, più difficile assolvere l’onere della prova o più difficile licenziare per g.m.o.?
Direi che non è più difficile ma forse più costoso, atteso che per il mancato assolvimento dell’onere di repechage non vi è la tutela reintegratoria, ma quella risarcitoria prevista all’art. 18 L. 300/70, commi 5 e 7, quindi cessazione del rapporto si, ma con indennizzo sino a 24 mensilità.

La depenalizzazione di alcuni reati in materia di lavoro e legislazione sociale.

La delega al Governo “in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio” contenuta nella L. n. 67/2014 è stata attuata dai D.lgs. nn. 7 e 8 del 15 gennaio 2016.
Il D.lgs. n. 8, in particolare, relativo alla depenalizzazione dei reati puniti con la sola pena pecuniaria ed alla loro trasformazione in illeciti amministrativi, è intervenuto significativamente in materia di lavoro e di legislazione sociale (e il Ministero del Lavoro ha ritenuto opportuno intervenire sul punto fornendo indicazioni operative al personale ispettivo con la Circolare n. 6/2016 del 5.2.2016).
Nella specie, all’art. 1, co.1, ha previsto la depenalizzazione e la trasformazione in illecito amministrativo (pagamento di una somma di denaro) di determinati illeciti penali per i quali era prevista la sola pena della multa o dell’ammenda (la disposizione si applica anche ai reati che nelle ipotesi aggravate sono puniti con la pena detentiva sola, alternativa o congiunta a quella pecuniaria: in tale caso le ipotesi aggravate sono da ritenersi fattispecie autonome di reato).
Da tale intervento sono stati, però, espressamente esclusi – conservando la natura penale e continuando ad essere perseguiti secondo la previgente disciplina – alcuni reati in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro previsti dal D.lgs. n. 81/2008 e dalle L. nn. 257/1992 e 1045/1939.
Per determinare l’ammontare della sanzione amministrativa pecuniaria relativa all’illecito amministrativo depenalizzato (si ricorda che non potrà essere applicata detta sanzione per un importo superiore al massimo della pena originariamente inflitta per il reato e si dovrà procedere alla quantificazione della stessa assumendo come importo base la pena edittale stabilita in misura fissa per l’originario reato e su tale importo si dovrà applicare la riduzione di cui all’art. 16, L. n. 689/1981), sono state previste 3 fasce: a) da € 5.000 a € 10.000 per i reati puniti con multa o ammenda non superiore nel massimo a € 5.000; b) da € 5.000 a € 30.000 per i reati puniti con multa o ammenda non superiore nel massimo a € 20.000; c) da € 10.000 a € 50.000 per i reati puniti con multa o ammenda superiore nel massimo a € 20.000.
Premesso quanto sopra, si richiamano, qui di seguito, seppur sinteticamente, i principali illeciti depenalizzati previsti in materia di lavoro e legislazione sociale.
A. Omesse ritenute previdenziali e assistenziali da parte dei datori di lavoro a titolo di sostituti d’imposta: l’art. 3, co. 6, ha sostituito l’art. 2, co. 1-bis, del D.L. n. 463/1983 conv. con L. n. 638/1983 stabilendo che se l’importo dell’omesso versamento delle ritenute è superiore a € 10.000 annui continua ad applicarsi la fattispecie penale, mentre se non lo è si applica la sanzione da € 10.000 a € 50.000. L’autorità competente ad irrogare tale sanzione amministrativa è la sede territoriale INPS in qualità di autorità destinataria del rapporto perché titolare del potere di adottare la relativa ordinanza-ingiunzione (cfr. Circ. Min. Lav. cit. e Mess. INPS n. 590 del 10.02.2016). Sul punto si ricorda che: “Il datore di lavoro non è punibile, né assoggettabile alla sanzione amministrativa, quando provvede al versamento delle ritenute entro tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell’avvenuto accertamento della violazione”.
B. Omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali da parte del committente nei confronti dei collaboratori autonomi: nel caso non siano versate le ritenute sui compensi dei lavoratori a progetto e dei collaboratori coordinati e continuativi iscritti alla gestione separata INPS (art. 39, L. n. 183/2010) per un importo non superiore a € 10.000 annui, viene prevista la sanzione da € 10.000 a € 50.000.
C. Somministrazione di lavoro abusiva: i reati relativi all’esercizio non autorizzato dell’attività di somministrazione del lavoro (co. 1 e 2 dell’art. 18 del D.lgs. n. 276/2003) sono stati depenalizzati ed è stata prevista la sanzione di € 50 per ogni giornata e per ogni lavoratore occupato nei confronti sia del somministratore che dell’utilizzatore, non potendo in ogni caso la sanzione essere mai più bassa di € 5.000 e più alta di € 50.000.
D. Discriminazioni di genere: significativa la modifica dell’apparato sanzionatorio del D.lgs. n. 198/2006 (artt. 27, co. 1, 2 lett. a) e b) e co. 3; 28, co. 1 e 2; 29; 30 co. 1, 3 e 4) essendo prevista, nei casi di violazione dei divieti di discriminazione di cui al Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, una sanzione da € 5.000 a € 10.000.
E. Appalto e distacco illeciti: è stata modificata la sanzione relativa all’art. 29, co. 1 e 30, co. 1, contenuta all’art. 18, co. 5-bis, del D.lgs. n. 276/2003. In caso di assenza dei requisiti essenziali del contratto di appalto si introduce una sanzione di € 50 per ciascuna giornata e per ciascun lavoratore occupato da comminarsi sia all’appaltatore che al committente. In caso di distacco privo dei requisiti essenziali, la sanzione prevista è di € 50 per ogni giornata di lavoro e per ogni lavoratore da comminarsi sia nei confronti del distaccante che del distaccatario. In entrambe le ipotesi la sanzione minima non potrà mai essere inferiore a € 5.000 e superiore a € 50.000.
F. Dichiarazioni false o atti fraudolenti volti ad ottenere prestazioni previdenziali: nel caso di dichiarazioni false rese allo scopo di ottenere prestazioni previdenziali viene comminata la sanzione da € 5.000 a € 10.000; nel caso di dichiarazione false rese per ottenere prestazioni economiche per malattia e maternità non spettanti oppure spettanti in misura minore o per periodi più lunghi, viene comminata la sanzione da € 103 a € 516 per ogni soggetto cui la violazione fa riferimento.
Con riferimento al c.d. regime intermedio, sono stati disciplinati i casi che si collocano temporalmente tra la vecchia e la nuova disciplina, prevedendo un coordinamento tra l’Autorità giudiziaria e quella amministrativa.
Per le condotte illecite iniziate e cessate prima del 6.2.2016, l’art 8, co. 1, prevede la retroattività della depenalizzazione, sempre che non si sia arrivati ad un provvedimento penale irrevocabile (il co. 3 prevede, inoltre, l’applicabilità del principio del favor rei: ai fatti commessi prima della data di entrata in vigore del decreto non può essere applicata una sanzione amministrativa pecuniaria per un importo superiore al massimo della pena originariamente inflitta per il reato, tenuto conto del criterio di ragguaglio di cui all’art. 135 c.p.; a tali situazioni non si applicano le sanzioni amministrative accessorie introdotte dal decreto, salvo che le stesse sostituiscano corrispondenti pene accessorie).
L’art. 9, co. 1, stabilisce, poi, che l’autorità giudiziaria, entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore del decreto, disponga la trasmissione degli atti dei procedimenti penali pendenti relativi ai reati trasformati in illeciti amministrativi all’autorità amministrativa competente, salvo che il reato risulti prescritto o estinto per altra causa alla medesima data. Una volta ricevuti gli atti, l’autorità amministrativa avrà 90 giorni di tempo per notificare il verbale unico di contestazione.

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maternità e lavoro.

Ieri, domenica 8 maggio, è stata la Festa della Mamma, un’occasione per ricordarci di tutte le donne che fanno il lavoro più difficile al mondo. Ma quali sono, oggi, le tutele e gli aiuti che la legge e la società garantiscono a quelle donne che non vogliono rinunciare né al lavoro né alla maternità?
Innanzitutto la donna lavoratrice gode di un congedo obbligatorio di cinque mesi fruibili in maniera flessibile in base allo stato di salute, per i quali viene retribuita all’80% dall’INPS ed il restante 20% dal datore di lavoro, se previsto dalla contrattazione collettiva di settore. La maternità obbligatoria riguarda oggi un vasto numero di lavoratrici, essendo, infatti, garantita a coloro che sono disoccupate, se il congedo di maternità inizia entro 60 giorni dall’ultimo giorno di lavoro, nonché alle lavoratrici c.d. parasubordinate.
In caso di gravi complicanze nella gravidanza, che devono essere attestate dall’ASL o dalla Direzione Territoriale del Lavoro, è inoltre possibile ottenere la maternità anticipata, che precede il congedo obbligatorio di maternità.
Successivamente alla maternità obbligatoria vi è, poi, la possibilità di fruire della maternità facoltativa per un periodo di sei mesi.
Queste sono le tutele previste in riferimento all’astensione lavorativa. ma cosa succede quando la neomamma decide di tornare al lavoro?
A questo punto, benché la lavoratrice sia tutelata dai permessi per l’allattamento, dei quali può fruire fino all’anno del bambino, da un lato e dal divieto di licenziamento, nonché dall’obbligo di convalida delle dimissioni, dall’altro, la gestione quotidiana del figlio diventa più difficile. Le strutture che accudiscono i bambini sono costose e spesso hanno liste di attesa molto lunghe e l’asilo nido aziendale è una realtà ancora non molto diffusa, se non all’interno delle aziende più grandi.
Sotto questo punto di vista un grande aiuto potrebbe arrivare alle madri dall’implementazione di progetti di lavoro agile all’interno di strutture che offrono servizi focalizzati sulla cura dei figli piccoli, senza gravare ulteriormente sulle aziende.
Ad ogni modo la grave difficoltà per le donne di conciliare il lavoro e la maternità è evidente anche soltanto analizzando i dati: un recente rapporto diffuso dall’organizzazione Save the Children rileva che ancora oggi in Italia circa il 30% delle donne sceglie di abbandonare il lavoro dopo la nascita di un figlio.
Tale situazione richiede un intervento di supporto che non si limiti ad una tutela “conservativa”, certamente importante, ma che si spinga a fornire un aiuto concreto per quelle donne che scelgono di non rinunciare al lavoro più importante del mondo: essere mamme.

giornalisti e jobs act: UNA LETTURA CRITICA CON ISTRUZIONI PER L’USO.

Come consuetudine, seguono le presentazioni dei relatori intervenuti al corso di formazione rivolto ai giornalisti:

Art. 4 e il caso apple.

Alcune riflessioni sul conflitto Apple – FBI nell’ottica della nuova formulazione dell’art. 4.
Il recente conflitto Apple – FBI sulla “perquisibilità” dei telefoni cellulari pone interrogativi e dà lo spunto per qualche riflessione non solo sulla legittimità della nuova formulazione dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, che consente il controllo sulla condotta del lavoratore attraverso i mezzi di lavoro forniti dall’azienda, ma soprattutto sulle modalità di creazione delle policy sulle modalità di utilizzo dei beni e quindi di controllo del lavoratore, richieste dalla nuova normativa.
La questione apertasi in America, e giunta sulle prime pagine di tutti i giornali, non è nuova nel dibattito d’oltreoceano ed è già stata affrontata dalla Suprema Corte nella sentenza Ryley vs California del Ottobre 2013. Al di là del merito specifico del caso, riguardante la necessità di un mandato per poter accedere ai dati del telefono cellulare di un arrestato, ci sono importanti passaggi della decisione che indagano sulla natura dei telefoni cellulari.
I telefoni cellulari differiscono sia in termini qualitativi che quantitativi dagli altri oggetti che possono essere rinvenuti addosso ad un arrestato. Intanto e notoriamente i telefono cellulari hanno una immensa capacità di conservare dati. Prima dei telefoni cellulari la perquisizione di una persona era limitata dalla fisicità della stessa e generalmente rappresentava una limitata intrusione nella privacy. Ma i telefoni cellulari possono contenere milioni di pagine di testo, migliaia di dati e centinaia di foto. Tutto questo comporta una serie di conseguenze, in tema di privacy, tra loro correlate “. Data la premessa i giudici americani si sono quindi correttamente posti un problema di proporzionalità tra l’interesse pubblico alla sicurezza e quella privato alla segretezza e della loro contrapposizione e conseguente contemperamento.
E’ pur vero che per quanto concerne l’art 4 dello Statuto non stiamo parlando di beni personali, ma bensì di strumenti forniti per specifici scopi professionali, e che i lavoratori dovranno essere edotti non solo sull’uso degli strumenti stessi, ma anche sulle modalità del controllo. Ma per la loro natura, come osservato dai giudici americani, questi strumenti possono fornire informazioni sulla vita privata del lavoratore anche molto sensibili e che la cui tutela può facilmente andare oltre un legittimo interesse alla sicurezza, e nel caso del datore di lavoro, all’aspettativa di una corretta prestazione lavorativa. Come osserva la sentenza “un telefono cellulare raccoglie in un solo oggetto informazioni del tipo più svariato – un indirizzo, un estratto conto, una ricetta medica, un appunto – che rivelano in combinazione fra loro molto più di quanto non dicano singolarmente”.
Un esempio molto calzante usato nella sentenza Rypley è quello dell’incrocio fra la cronologia del browser che mostra la ricerca sui sintomi di una certa malattia e la corrispondete chiamata al medico curante. Ma si pensi per esempio al caso del lavoratore in cura psichiatrica che telefona ripetutamente, anche magari solo fuori orario di lavoro, al centro presso cui è in cura; o al log delle telefonate al compagno/a dello stesso sesso.  Non parliamo poi dei social network, non necessariamente pubblici, o alle applicazioni: Lo scaricare una applicazione del Movimento 5 stelle o del PD, L’Unità o Libero, una applicazione per il gioco o per monitorare la maternità può consentire una ampia indagine sulle idee e gli orientamenti di una persona, che, lo si ricorda, restano vietate se riguardano “opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore”, “fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale” o accertamenti sanitari. Si pensi che le statistiche dicono che mediamente un cellulare contiene oltre 30 applicazioni  E’ chiaro che l’acquisizione di informazioni di questo tipo, e cioè di dati che possano consentire la profilazione del dipendente, debba essere il più possibile limitata.
In questa logica diventa decisiva per la legittimità del controllo, che non dimentichiamolo è presupposto per l’utilizzabilità dei dati in giudizio, l’introduzione di policy che siano volte a tutelare anche il diritto alla riservatezza del lavoratore. Non a caso il Garante della privacy ha parlato di “una soluzione di privacy-by-design, ovvero la progettazione degli stessi strumenti mediante i quali effettuare i controlli in modo da minimizzare, fino ad escludere, il rischio di controlli invasivi o comunque di incisive limitazioni della riservatezza di chi a quei controlli possa essere sottoposto”.
Seguendo l’orientamento tracciato dal garante le policy dovranno necessariamente essere graduate in funzione ed in proporzione all’interesse del datore di lavoro al controllo. E’ ovviamente diversa la situazione del lavoratore che opera sul territorio al di fuori del controllo dell’imprenditore e a spese di quest’ultimo e del lavoratore che invece opera quotidianamente in ufficio sotto la vigilanza diretta del proprio superiore. Non bisognerà poi dimenticare che anche la frequenza del controllo assume una sua valenza, in assenza di eventi o circostanze che giustifichino un controllo ad hoc.
In conclusione va quindi ribadito che le policy non potranno, come spesso avviene, essere una semplice copia ed incolla di articoli magari pescati su internet, ma dovranno necessariamente passare attraverso un’attenta analisi sul campo che tenga in debita considerazione tutti gli interessi in gioco.

RC medica obbligatoria? serve attenzione.

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La disciplina delle mansioni.

Alcune considerazioni sulla nuova disciplina delle mansioni.
3 cose da sapere sulla promozione automatica dei lavoratori, nell’ambito della nuova disciplina delle mansioni.
Secondo la nuova versione dell’art. 2103 del codice civile, nel caso di assegnazione a mansioni superiori, il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e l’assegnazione diviene definitiva, salvo diversa volontà del lavoratore, dopo 6 mesi continuativi, a meno che l’assegnazione non sia avvenuta per ragioni sostitutive di altro lavoratore.
Tre sono gli aspetti rilevanti e innovativi da prendere in considerazione.
Il primo riguarda l’aumento delle ipotesi di sostituzione di altro lavoratore che rendono inoperante il meccanismo della assegnazione definitiva: la nuova versione della norma fa riferimento a generiche “ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio”. Mentre, la precedente versione dell’art. 2103 c.c. richiamava la “sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto” (ossia, i lavoratori in malattia o le lavoratrici in maternità, ma non ad esempio lavoratrici e lavoratori in ferie). Dunque, oggi il lavoratore che sostituisce un collega in ferie non matura mai il diritto alla promozione automatica.
Il secondo aspetto innovativo riguarda l’estensione del periodo di tempo necessario per ottenere l’assegnazione definitiva. Si passa da tre a sei mesi continuativi. Ovviamente, è consentito alla contrattazione collettiva, anche aziendale, di allungare o ridurre il periodo di assegnazione delle mansioni superiori.
La terza novità consiste nell’inciso “salvo diversa volontà del lavoratore”. Il lavoratore adibito a mansioni superiori è libero di esprimere una volontà “diversa” rispetto alla previsione legale che gli garantisce, dopo sei mesi o il diverso periodo stabilito dai contratti collettivi, di ottenere l’assegnazione definitiva alle mansioni superiori e al corrispondente inquadramento contrattuale.
Pertanto, il lavoratore cui vengono affidate mansioni superiori può rinunciare alla promozione automatica e decidere di non acquisire la superiore qualifica, dalla quale potrebbero derivare conseguenze non sempre favorevoli. Si pensi ad esempio, alla privazione del diritto alle maggiorazioni per lavoro straordinario, non spettanti agli impiegati direttivi, ai quadri e ai dirigenti, oppure alla tutela reale contro i licenziamenti ingiustificati, non spettante ai dirigenti.
La “diversa volontà del lavoratore” non deve esprimersi per forza dopo il decorso del periodo legale o quello stabilito dalla contrattazione collettiva, ma può manifestarsi contestualmente all’assegnazione a mansioni superiori.
In questo modo, si potrebbero stipulare accordi individuali specifici, anche di durata prolungata, per la temporanea assegnazione di mansioni superiori, funzionali alla programmazione della crescita professionale e dei percorsi di carriera dei lavoratori, senza che ciò determini l’assegnazione definitiva alle mansioni superiori e al corrispondente inquadramento contrattuale.
 

Part-time agevolato.

Alcune considerazioni sul part-time agevolato.
Il part time per il dipendenti vicini alla pensione previsto dal Decreto Poletti non è solo un provvedimento “accessorio” che potrebbe riguardare pochi lavoratori, ma può essere una soluzione generalista che va gradualmente a sostituire l’istituto delle “buonuscite” perché conviene di più sia all’azienda che al lavoratore.
Abbiamo infatti effettuato alcune simulazioni da cui si deduce che, anche in assenza del bonus fiscale previsto dal Decreto Poletti per il part-time agevolato, la soluzione di ricorrere ad una riduzione dell’orario di lavoro come scivolo all’uscita può portare a vantaggi economici per entrambe le parti, al di là di quelli psicologici per il lavoratore, da una parte, e di quelli operativi, per l’azienda, dall’altra.
Bisogna infatti partire dal presupposto che la cessazione del rapporto di lavoro, per chi difficilmente ritroverà una occupazione, costituisce un problema non solo economico, ma anche psicologico.
Sotto il profilo economico peraltro con la risoluzione del rapporto si ha non solo una decurtazione diretta del reddito, ma anche la perdita di una serie di benefit che hanno sia un valore economico superiore a quello nominale, e al costo aziendale, ma contribuiscono anche allo status del dipendente. Si pensi ad esempio all’autovettura aziendale, alla polizza assicurativa o sanitaria, all’accesso allo spaccio aziendale, alla tessera priority di una linea area o di un treno, alla colonia per i figli, allo sky box allo stadio, alle stock option.
In questo senso quindi il ricorso al part-time quale scivolo per l’uscita diventa lo strumento per fare si che questi benefit non vengano persi e attraverso la loro erogazione, spesso a costo zero o quasi, il delta fra una retribuzione part time e quella full time sia sensibilmente inferiore al mero dato numerico rappresentato dallo stipendio.
In questo modo diviene antieconomica l’erogazione di un incentivo all’esodo, che comporta la perdita di questi benefit, e diventa viceversa più interessante trasformare il rapporto in un part time per accompagnare il lavoratore all’uscita in modo morbido, utilizzandone anche le competenze professionali in termini di staffetta generazionale.
Questo è ancor più vero se il piano di uscita è supportato da una terzo pilastro, rappresentato dal welfare aziendale.
Un piano articolato sulla riduzione dell’orario di lavoro, sulla salvaguardia dei benefit, e sull’introduzione di un welfare pensato specificamente quale scivolo verso il pensionamento può far si che il costo di uscita di un dipendente possa essere addirittura inferiore a quello di una normale risoluzione di un rapporto di lavoro.
Si pensi per esempio ad un dirigente con un anno di preavviso che riceva un incentivo all’esodo di un anno. Il costo del preavviso sarebbe di circa il 50% superiore alla erogazione costo ed a un netto del 65% .
Ma quel lavoratore insieme al lavoro perde auto, telefono, p.c., assistenza sanitaria, un pacchetto che vale, dal punto di vista del percepiente, moltissimo.
Ma se quel preavviso di un anno non lavorato, si trasforma di due anni di part-time, durante il quale il lavoratore continua a godere dei benefit legati al suo status e magari accede ad un welfare di 5/10.000,00 euro netti annui, si arriverebbe ad una situazione win-win. L’azienda non eroga una somma che rappresenta un puro costo senza alcun beneficio e viceversa si garantisce le competenza di un lavoratore che può sopportare i nuovi entrati, mentre dall’altra parte il lavoratore rinuncia sì ad un “gruzzoletto” in unica soluzione, però dall’altra parte se lo troverà pagato nell’arco di 2 anni, conservando anche una serie di benefit altrimenti persi, e cosa fondamentale, la contribuzione al 100% per l’intero periodo.

GIORNATA MONDIALE PER LA SALUTE E LA SICUREZZA SUL LAVORO.

Lo studio Lexellent aderisce alla Giornata Mondiale per la Salute e la Sicurezza sul Lavoro prendendo parte alla rassegna cinematografica organizzata presso il MIC insieme a Fondazione Cineteca Italiana e Fondazione LiHS, in collaborazione con INAIL – Direzione Regionale.
Ne parla il Corriere della Sera Link

Il subfornitore è corresponsabile col committente per i contributi omessi: lo afferma il Tribunale di Rovigo.

La responsabilità solidale del committente per contributi omessi dall’appaltatore (ex art. 29, comma 2, del D.Lgs. 276/2003) è applicabile anche al rapporto di subfornitura. Lo ha affermato il 9 febbraio scorso il Tribunale del Lavoro di Rovigo.
La sentenza è stata emessa nell’ambito di un giudizio di opposizione a un decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Rovigo per omesso pagamento dei contributi di un terzista, opposizione proposta sostenendo la non riconducibilità del rapporto commerciale tra le stesse nella fattispecie dell’appalto bensì in quella della subfornitura. La società contestava anche le modalità di ripartizione dei contributi omessi utilizzate dall’ente previdenziale, che ha addebitato in misura percentuale rispetto al fatturato l’ammanco contributivo tra tutte le committenti che, nei mesi di mancato versamento dei contributi, avevano commissionato lavorazioni alla Società fallita e poi liquidata. Il principio utilizzato dall’INPS per il riparto del debito contributivo, dunque, non ha tenuto in considerazione i dipendenti della società fallita effettivamente impiegati sulla singola commessa e il tempo impiegato sulle lavorazioni di pertinenza di ciascun singolo committente, bensì ha suddiviso il debito tra tutte le società che nei mesi di scopertura avevano commissionato lavori e prodotti al datore di lavoro che ha poi mancato di versare i contributi.
Il Tribunale di Rovigo, dopo aver analizzato la natura della subfornitura ha affermato che «non si ritiene condivisibile l’esclusione dell’ambito di applicazione della norma dal rapporto di subfornitura».
Il Tribunale ha dunque deciso di seguire la tesi della dottrina che vede nel contratto di subfornitura un “tipo contrattuale generale” che si può realizzare secondo schemi contrattuali tipici, sposando quindi l’orientamento secondo cui la legge 192/1998, che disciplina la subfornitura, non avrebbe voluto introdurre un nuovo specifico tipo contrattuale bensì avrebbe previsto delle norme speciali a tutela dell’imprenditore che si può trovare in una situazione di “debolezza” nell’esecuzione di rapporti contrattuali di diversa natura (appalto, vendita, somministrazione, eccetera).
La dottrina lega questa visione al comma quarto dell’art. 5 della medesima legge, rubricato come “responsabilità del subfornitore”, che recita “eventuali contestazioni in merito all’esecuzione della subfornitura debbono essere sollevate dal committente entro i termini stabiliti nel contratto che non potranno tuttavia derogare ai più generali termini di legge”. È stato dunque ritenuto che il legislatore intendesse offrire “solo una “tutela minima”, di natura “trasversale”, «così che ai rapporti di subfornitura si applicherebbe la disciplina delle singole fattispecie contrattuali tipiche che meglio si attaglino al caso concreto, ove non derogate dalla legge 192/1998»( Gabriele Gamberini).
Secondo il Giudice di Rovigo la legge sulla subfornitura deve essere vista come normativa di supporto rispetto alle altre fattispecie contrattuali tipizzate dall’ordinamento. Non sarebbe, quindi, individuabile un “contratto di subfornitura”, come figura contrattuale tipica, bensì una disciplina sulla subfornitura a tutela dell’imprenditore che versi in condizioni di “debolezza” rispetto alle controparti contrattuali come l’appaltatore rispetto all’appaltante.
La pronuncia del Tribunale di Rovigo introduce un’interpretazione innovativa della subfornitura, affermando un principio che vede applicabile, anche al rapporto di subfornitura, la responsabilità solidale ex art. 29, comma 2, decreto legislativo 276/2003.
Bisogna precisare, però, che questa pronuncia si pone in contrasto con la giurisprudenza, che ha fino ad oggi individuato nella subofrnitura una fattispecie contrattuale tipica, caratterizzata dalla “subalternità progettuale-tecnologica dell’imprenditore”. (Tribunale di Modena, sentenza 132 del 14.02.2014). Si ricorda sul punto la pronuncia della Corte d’Appello di Brescia (sentenza 112 del 6.03.2008) in una causa previdenziale dove si discuteva sulla configurabilità del rapporto commerciale tra due società nell’alveo dell’appalto o della subfornitura, che ha chiarito come «la disciplina della subfornitura nelle attività produttive, non si riferisce a tutti i rapporti commerciali emersi nella prassi tradizionalmente qualificabili come subfornitura ma solo a quelli in cui sia ravvisabile il presupposto peculiare della necessaria conformità a progetti esecutivi, conoscenze tecniche o tecnologiche, modelli e prototipi forniti dalla committente (ossia la “lavorazione per conto” e la subfornitura di prodotti o servizi, entrambi con la ricorrenza del presupposto della strumentalità della prestazione rispetto al ciclo produttivo del committente) ed esige pertanto la sussistenza della “soggezione tecnologica” del subfornitore rispetto al committente (che non sussiste laddove costui non possedesse in ogni caso le competenze tecniche e la tecnologia necessari per la realizzazione dell’opus)». La giurisprudenza, pertanto, si divide tra chi individua nella subfornitura una tipologia contrattuale autonoma e chi, come il Tribunale di Rovigo, riconduce il rapporto di subfornitura ad una fattispecie contrattuale generale, a una sorta di normativa a tutela dell’imprenditore “debole”, che poi prende forma nella specifica normativa di riferimento. La decisione di Rovigo ha una portata innovativa rilevante: il giudice ha superato la barriera giuridica del contratto d’appalto, andando ad estendere la portata applicativa della responsabilità solidale per crediti retributivi e contributivi omessi dal contraente che svolge attività per conto del committente anche ad altre fattispecie contrattuali, come il contratto di subfornitura.
Per la aziende che si avvalgono di partner commerciali per mezzo di rapporti di subfornitura, la decisione del Tribunale di Rovigo ha una portata devastante: può significare la potenziale passività per crediti omessi nei confronti dei dipendenti del subfornitore. Ciò significa che – così come nell’appalto – in caso di contratti di subfornitura, l’azienda committente deve attentamente vigilare sulla regolarità contributiva e retributiva del subfornitore con specifico riferimento a quei soggetti che, nello svolgimento dell’attività, verranno assegnati alle specifiche commesse.
Sulle censure svolte dalla Società ricorrente in merito al criterio di ripartizione dell’onere contributivo, che non ha tenuto conto dei lavoratori effettivamente addetti alla commessa, il Giudice ha affermato la necessaria «riconducibilità dei crediti alle prestazioni rese dal lavoratore in esecuzione dello specifico appalto, fatto costitutivo della pretesa dell’istituto previdenziale, sul quale certamente incombe l’onere della relativa prova. Tuttavia, si ritiene che nel caso di specie l’I.N.P.S. abbia assolto l’onere a suo carico tramite il ricorso a presunzioni», intendendo quale meccanismo presuntivo quello di riparto del credito contributivo in misura percentuale rispetto al fatturato.
Il ricorso alle presunzioni appare forzato e manchevole dei requisiti richiesti dalla legge di gravità, precisione e concordanza, oltre che improprio, in quanto l’INPS avrebbe dovuto dimostrare il numero dei dipendenti e il tempo da essi dedicato alle commesse della Società ricorrente, sul principio in forza del quale gli enti possono chiedere al committente il versamento in loro favore dei contributi omessi dall’appaltatore solo nel limite dell’appalto medesimo, e quindi solo in relazione a quei dipendenti che a tale appalto sono stati addetti e per il periodo di tempo di effettivo lavoro in favore del committente.
Anche questo secondo passaggio della sentenza di Rovigo ha una portata rilevante nel sistema appalto/responsabilità solidale, in quanto potenzialmente estende la responsabilità in solido dell’appaltatore a tutti i dipendenti del committente, non solo a quelli che hanno effettivamente prestato attività in favore dello stesso, e si pone in contrasto con la legge e gli orientamenti della giurisprudenza di merito che hanno fino ad oggi limitato la responsabilità dell’appaltatore ai soli dipendenti effettivamente impiegati nell’appalto, aprendo così le maglie a future possibili interpretazioni estensive delle obbligazioni dell'”imprenditore forte”.

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