Rigopiano, spunti di riflessione sul cambio di mansioni.

Una telefonata di allarme che non è stata presa sul serio, come rivelato dalle indagini, sembra essere uno degli elementi che ha aggravato il disastro dell’hotel Rigopiano. Ma che valore ha avuto quella telefonata sotto il profilo della responsabilità del lavoratore e dell’azienda? Gli eventi drammatici della cronaca ci danno lo spunto per ragionare su un tema particolarmente delicato, alla luce delle ancora recenti novità del Jobs Act, e per trarre alcune importanti indicazioni in caso di mutamento delle mansioni del lavoratore.
Dalle informazioni raccolte sui quotidiani emergerebbe che la persona che ha ricevuto quella telefonata di allarme non fosse, normalmente, addetta alla gestione delle emergenze ma che si trattasse di un’impiegata amministrativa del settore finanziario della prefettura, trasferita al centralino per accogliere le chiamate di soccorso in via provvisoria a fronte dell’eccezionalità della situazione. L’averla adibita a mansioni diverse ha portato a conseguenze che potrebbero essere gravi.
Il primo aspetto che emerge è quello della responsabilità verso terzi dell’impresa (in questo caso la prefettura) per avere assegnato un lavoratore non idoneo a svolgere mansioni potenzialmente pericolose o, produttrici di gravi danni. La questione assume rilevanza anche sotto il profilo assicurativo. La polizza in vigore dovrebbe coprire i danni verso terzi provocati da dipendenti che svolgono mansioni completamente al di fuori di quelle per i quali sono stati formati. Dunque un veloce controllo sulle polizze assicurative in essere in azienda vale certamente la pena di farlo.
Un altro problema è quello del rapporto fra azienda e lavoratore. Fino a oggi la Cassazione ha affermato che il diritto del lavoratore di astenersi della prestazione lavorativa in caso di dimensionamento è legittimo solo quando lo svolgimento delle nuove mansioni possa provocare gravi conseguenze per la salute e la sicurezza lavoratore stesso (per tutte la recente sentenza di Cassazione civile, sez. lav., 5 maggio 2016, n. 9060). Ma quanto avvenuto nella sala emergenze della prefettura di Pescara fa sorgere immediatamente il quesito se il lavoratore possa rifiutarsi di svolgere una mansione quando, per effetto della propria incompetenza, potrebbero derivarne conseguenze nei confronti di terzi, siano essi colleghi di lavoro o estranei all’azienda. La risposta a nostro avviso non può che essere positiva.
Peraltro con l’assegnazione di lavori potenzialmente pericolosi si sposta anche la responsabilità verso terzi su chi ha provveduto a dare l’ordine. Si potrebbe perfino ipotizzare che la responsabilità ricada interamente su quest’ultimo, essendo il lavoratore subordinato tenuto ad eseguire l’ordine impartitogli. E ciò è particolarmente vero ogni qualvolta dovesse emergere la difficoltà per il lavoratore di fare una precisa analisi dei potenziali rischi connessi al nuovo compito che gli viene affidato.
Ulteriore aspetto da valutare è quello dei costi che il lavoratore, adibito a mansioni non proprie e per le quali non è stato correttamente formato, dovrà sostenere a seguito dell’indagine penale. In un caso come quello dell’albergo abruzzese le indagini penali si annunciano particolarmente difficili e costose. Pensiamo soltanto le perizie che saranno necessariamente richieste sia dai PM, sia dalla Corte qualora si dovesse arrivare al dibattimento. Un processo complesso è inevitabilmente costoso. Chi rimborserà il lavoratore dei costi legali che dovrà affrontare per difendersi correttamente? E sotto il profilo della sofferenza psicofisica, inevitabilmente connessa con un processo di una tale importanza e visibilità mediatica, potrà l’azienda essere chiamata a risponderne? Anche in questo caso la risposta negativa non è affatto scontata.
È pur vero che la situazione della sala emergenze della prefettura di Pescara non è la condizione tipica in cui operano le aziende e che una simile complessità e pericolosità dell’attività è in qualche modo anomala, ma la vicenda insegna che in caso di cambio di mansioni e di assegnazione del lavoratore a compiti non propri e per i quali non è stato correttamente formato è necessario prendere in considerazione tutti gli aspetti e i rischi connessi con la decisione, e non limitarsi a una visione strettamente giuslavorista.

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Quel che c’è da sapere sulle novità 2017 del diritto del lavoro in Europa.

Nuovo anno e nuove leggi per i lavoratori europei. Molte hanno lo scopo di incentivare le imprese e stimolare il mercato del lavoro locale, altre, invece, tendono a rendere ancora più complessa la gestione delle risorse umane.
La newsletter del network Ellint fornisce all’azienda un’istantanea delle novità che possono influenzare la gestione, anche strategica, delle risorse umane nei prossimi mesi in Belgio, Francia, Italia, Olanda, Spagna, Svizzera e Regno Unito.
Per leggere o stampare la Newsletter nella versione .pdf, oppure proseguire la lettura del testo.
BELGIUM
SALARY INCREASES:
Belgium is one of the few countries in Europe where in almost every industry employees’ salaries are automatically adjusted to the cost of living through automatic indexation mechanisms. This means that as of January 1st,  2017 salaries will automatically increase by approximately 1.15%.  However, local trade unions and the employer’s federations are expected to start bi-annual negotiations to set the framework for the evolution of the salaries for the years 2017-2018. In order to protect Belgium’s competitive position in terms of wage cost (compared to neighboring countries) it is expected that the margin for salary increases will most likely be capped at around 1% for the next two years.
BACK TO WORK?
The Belgian government has introduced new measures for employees who would like to  return back to work after a long term illness.  As of January 1st, 2017 any employee on long term sick leave may request their old job back, or another role within the company – with adjusted employment conditions.  When such a request is made, an occupational doctor must confirm that the employee is fit enough to return to the workplace. If they are, then the employer must either make an individual detailed proposal to the employee – or technically or factually justify why it is not possible, or reasonable, for the company to accept the employee back.
The dismissal of an employee with a permanent medical health condition will only be allowed if the occupational doctor confirms that the employee will never be able to perform any job within the company, or if no suitable alternative or adjusted job can be proposed – or is accepted by the employee.
LABOR REFORMS:
The Belgian government has announced a great number of labor law reforms to increase the flexibility of the organization of work. For example  the creation of a holiday savings account system, more flexible working time schedules and voluntary over-time work.  However, it is uncertain whether these announced reforms will be implemented as negotiations with the local trade unions will be required before they can be put into practice.
Sotra: www.sotra.be
ITALY
OLD WORKERS:
The Italian government is looking to create more space for young workers by providing incentives for older workers to leave the workforce earlier.  The current retirement age in Italy is 66 years and 7 months for those who have contributed to the pension system for at least 20 years.  The recent Stability Law will allow those who have 63 years of age, and who have contributed to the Italian pension system for at least 20 years, to leave work instead 3 years and 7 months before their official retirement age and receive a ‘bridge salary’ (reddito ponte)  from the government up until their official old age pension would take over.  However, employers should note that female employees who have reached 57 years of age, and have contributed to the Italian national pension system for 35 years as of December 31st, 2015, will also be entitled to take early retirement under similar conditions as to those above.
NEW WORKERS:
Always seeking ways to stimulate the labour market and youth employment the Italian government has introduced a financial incentive from January 1st (up until December 31st, 2019) for businesses to hire new employees and apprentices for  permanent work roles.  The incentive is in the form of waiving €3,250 of social security contributions for a period of up to 36 months.  For employers hiring in Southern Italy the incentives become even greater with €8,060 of waived social security contributions for  12 months. for taking new employees and apprentices on work-study programs.
LEXELLENT www.lexellent.it
THE NETHERLANDS
LONG TERM ILLNESS:
In the Netherlands employers are obligated to continue to pay 70% of the (daily maximum) wage during the first two years of an employee’s long term illness. In addition, employers are obligated to pay a mandatory severance payment (transitievergoeding) if the employment contract is terminated after two years of illness. Criticism against this double ‘punishment’ has led to a legislative proposal where employers will be compensated for the payment of the mandatory severance payment in such circumstances. This proposal still has to be approved by the  Parliament but the expectation is that it will be approved in the coming months.
INDEPENDENT CONTRACTORS:
The government has recently decided to postpone the enforcement of the Deregulation Assessment Employment Relationship Act (“WDBA”), originally introduced on May 1st, 2016 until January 1st, 2018. The WDBA was originally meant to protect independent contractors against false self-employment. However, in practice companies became less willing to hire independent contractors because of the uncertainty whether the relationship could be considered to be an employment contract – leading to a lot of criticism against the WDBA.  Hence the decision to postpone the enforcement of the Act until 2018.
ELECTIONS:
There will be new government elections held in The Netherlands in March 2017.  We expect, regardless of which party wins, there will be new proposals and regulations introduced to help stimulate the national labor market in the coming months.
ARBOR www.arboradvocaten.nl
UNITED KINGDOM
IMMIGRATION SKILLS CHARGE:
In April 2017 an Immigration Skills Charge will be introduced which is effectively a new Government fee for hiring non-EEA nationals to work in the UK. The Charge will cost employers an additional £1,000 per year for each non-EEA national employee that they sponsor to work in the UK. Employers would be best advised
to bring in any new overseas sponsored staff before April 2017 to avoid this additional cost.
GENDER PAY REPORTING:
As of April 2017 employers with 250+ employees in the UK will be required to take a snapshot of pay data within their organisations which must be published on their websites within the following 12 months. Employers must divide their employees into 4 pay quartiles and publish data relating to the proportion of men and women in each. Other data must include the differences in average and median pay earned by the men and women and the difference in average bonuses paid to men and women within the preceding year. This new regulation intends to highlight discrepancies between male and female pay within organisations.
Affected employers are advised to implement systems and processes without delay to capture the information. It would also be helpful to carry out test runs to identify any particular pay discrepancies which might be addressed before taking the first snapshot of publishable data in April 2017. Once the data has been published it could possibly lead to an increase in the number of equal pay claims in the private sector, as well as lobbying by groups interested in pay matters within various industry and professional sectors. Employers with 250+ employees will be required to publish this data on an annual basis.
Doyle Clayton www.doyleclayton.co.uk
SWITZERLAND
FOREIGN WORKERS:
Employers in Switzerland who intend to hire foreign nationals from beyond the EU/EFTA (European Free Trade Area) countries and service providers from EU/EFTA countries who will provide services in Switzerland for more than 90 days are encouraged to make their applications for work visas as soon as possible due to the limited number of work permits which will be available this year.
In particular only 250 long term ‘B’ work permits (assignment period in Switzerland of more than 120 days) and 2000 short term ‘L’ work permits (assignment period in Switzerland of more than 90 days) will be available for service providers from EU/EFTA countries in 2017.
In terms of foreign nationals being hired by Swiss employers from beyond the European Union and EFTA there will only be 3000 long term ‘B’ and 4500 short term ‘L’ work permits available from the government.
Once these quotas are used up no new foreign national workers from non-EU/EFTA counties can be hired in Switzerland until 2018.
Graf & Partner www.grafundpartner.ch
FRANCE

RIGHT TO DISCONNECT
On January 1st, 2017 the French government introduced a new law (Law Number 2016-1088), the first of its kind in Europe, requiring employers to put in writing that they cannot disturb their employees outside of working hours. More importantly they are required where trade unions are present to negotiate in order to establish a new collective agreement on this point. Where trade unions are not present then employers must establish a unilateral work charter outlining their legal obligations in terms of this new law – which will also require authorization from the local Works Council.
Of particular note, this new ‘Droit à la Déconnexion’ regulation will  require businesses with more than 50 employees in France to negotiate this obligations with either a trade union or Works Council annually.  Here employers are encouraged to prepare and create a human resources policy addressing the issue – also taking into account executives and employees who may be required to work with colleagues, clients, and contacts based in different time zones.
To date, it is not clear which government imposed sanctions an employer will face if they fail to respect this new law.  More immediate though is the risk that an employee could take their employer to court claiming a breach in their Health & Safety for having to answer work related phone calls or emails outside of their established working hours.  Again, a well written and defined human resource policy on this subject would be a positive defensive move against potential claims.
MGG LEGAL www.mgglegal.com
SPAIN

COMPENSATION FOR TERMINATION OF A TEMPORARY CONTRACT.
Under the Spanish Workers Statute, temporary replacement employees have worse termination conditions than a comparable permanent employee doing the same duties. In the first case, a replacement fixed-term employee would not be entitled to any severance compensation due to termination of contract, while a non-temporary employee would accrue a 20 days’ salary per year compensation upon contract termination.
However, such legal scheme has been recently challenged by the High Court of Madrid, by requesting a preliminary ruling from the European Court of Justice (ECJ Case – Ana de Diego Vs. Spanish Defense Ministry – Judgement of 14th September 2016), stating that Spanish national rules breach the non-discrimination principle established in Clause 4 of Directive 1999/70/EC (Framework Agreement on fixed-term work).
The ECJ has finally stated that such Spanish provisions in dispute do indeed breach the rights of fixed-term workers under Directive 1999/70 and that temporary replacement employees should not be treated less favorably than comparable permanent ones when calculating severance compensation due to termination of contract. The ECJ stated that the meaning of the term “employment conditions” under EU law includes compensations that the employer must pay to an employee on account of the termination of his/her fixed-term employment contract. The mere fact that the worker carries out his/her work on the basis of a temporary replacement contract, cannot constitute an objective ground justifying the failure to grant such compensation to that worker.
This ruling will have significant repercussions in Spain due to a significant increase of cost of severance compensations.  Not only for employers using temporary replacement contracts, but also for those using other types of fixed-term employees.
Abdón Pedrajas & Molero www.abdonpedrajas.com
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The information provided here above is in no way intended to replace legal counsel.
 This document is being provided to educate and to highlight matters which may impact business today and in the future.
We invite you to contact our specialised experts for more in-depth detail on any of the matters discussed within these pages at info@ellint.net.

Cosa insegna Rigopiano agli HR manager. Alcuni consigli operativi pre-sisma.

Quando avvengono gravi catastrofi si è sempre alla ricerca delle responsabilità, dei buchi nel sistema dei soccorsi o degli allarmi, di quello che si sarebbe potuto fare, e non è stato fatto, per prevenire il disastro.
Ovviamente incide molto l’effetto mediatico. Un fatto tragico qual è quello di Rigopiano con decine con decine di persone coinvolte, ha molta più rilevanza dello stillicidio di vittime sul lavoro che ogni anno il nostro paese deve contare, e quindi serve il “Colpevole”, che in qualche modo aiuta anche a scaricarsi la coscienza che, tanto, se non fosse stato per le sue negligenze non sarebbe successo niente. E a non pensare a tutte le piccole omissioni nella catena della sicurezza che ci vedono responsabili.
Mentre chiunque si occupi di sicurezza sa che la sicurezza è processo quotidiano, continuo e fatto anche di piccole cose, che spesso sono più efficaci di grandi interventi. La sicurezza è un mix di interventi tecnici e di cultura, di prevenzione e formazione, di controllo e di personale presa di coscienza del problema
Proprio il caso del terremoto di questi giorni può servire da lezione, una lezione di cui anche avremmo volentieri fatto a meno, per migliorare la sicurezza sui luoghi di lavoro.

Per esempio quante aziende hanno valutato nel proprio DVR il rischio sismico?

Quante aziende hanno individuato un luogo sicuro dove far concentrare i propri dipendenti in caso di terremoto? Nei paesi ad alto rischio sismico (un esempio per tutti in Perù) tutti i locali pubblici, gli uffici, i luoghi dove comunque vi è concentramento di persone hanno indicato in modo chiaro il “luogo sicuro in caso di sisma”. Si tratta di una trave particolarmente solida, di una colonna portante in cemento armato, qualsiasi zona strutturalmente resistente che ogni costruzione al suo interno. Si tratta di un piccolo accorgimento però molto utile in caso di danni, anche gravi, all’edificio, che non lascia chi si trova coinvolto in un terremoto, e quindi già in stato di stress se non di shock, alla ricerca del luogo dove ripararsi con il rischio di commettere fatali errori di valutazione.
Ma Rigopiano ci insegna anche che non sapere chi è in azienda può avere conseguenze drammatiche sul piano dei soccorsi e che il controllo degli accessi assume una grande importanza nella eventuale fase di recupero dei dispersi, come accaduto con il cameriere senegalese dell’albergo abruzzese che nessuno cercava. Moltissime aziende registrano gli accessi e le uscite dei visitatori, ma quanti di quei registri sarebbero accessibili ai soccorritori in caso di crollo dell’immobile? Non dovrebbero forse essere salvati in cloud in modo da consentire un rapido monitoraggio delle potenziali vittime del crollo?
E ancora, quante aziende hanno lasciato in luogo sicuro ed accessibile (il consulente del lavoro, l’avvocato, il responsabile esterno della sicurezza) una piantina dettagliata dell’immobile con le postazioni di lavoro, i luoghi sicuri, le strutture? Anche questo è un piccolo accorgimento che può fare la differenza tra una azione di soccorso efficace e una perdita di tempo dalle conseguenze drammatiche.
Nel mondo dei social network 7/7-H24 è stata aperta una chat di Whats’up con tutti i dipendenti da utilizzare solo in caso di emergenza, anche solo per controllare immediatamente che è fuori pericolo? con precise istruzioni sul suo utilizzo?. Peraltro si tratterebbe di un strumento utile anche in caso di incendio, attacco terroristico, alluvione o altre catastrofi naturali e no.
Ovviamente altre piccole o grandi azioni possono essere intraprese in funzione della singola realtà, l’importante è che imparando anche dagli errori degli altri non ci si si limiti a imprecare contro la fatalità, ma si pongano in essere tutte le misure necessarie, anche imparando dagli errori degli altri.

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Fine della globalizzazione o rinascimento della classe media? Il mondo a un bivio.

Il prossimo numero dell’Impresa, quello di febbraio, avrà come tema centrale la crisi della globalizzazione. Dalle prime dichiarazioni (e iniziative) protezionistiche di Trump alla hard Brexit con le nuove leadership populiste delle due più antiche e consolidate democrazie mondiali, gli Stati Uniti e il Regno Unito.
Ce ne parlano un politologo, Vittorio Emanuele Parsi, un giuslavorista, Sergio Barozzi, un economista, Francesco Daveri, un consulente industriale, Luca Rossi, capo europeo di A.T. Kearney.
Nel frattempo citiamo più volte anche il Forum di Davos, la riunione che si è tenuta a metà gennaio in Svizzera fra i grandi della terra e da cui emerge uno spaccato del probabile nuovo ordine mondiale e di come si svilupperà l’economia dei prossimi anni.
Al di là di quello che raccontiamo sulla rivista, questa edizione di Davos rimarrà probabilmente negli annali come quella di una presa di coscienza: la classe media dei paesi sviluppati non ci sta più a contare sempre meno, il sistema democratico nato alla fine della Seconda Guerra Mondiale o se ne rende conto o rischia di collassare, a partire dall’Unione Europea. Il fatto che l’1% della popolazione mondiale abbia a disposizione risorse pari al rimanente 99%, come ha certificato l’ONG Oxfam nel suo rapporto presentato a Davos, non è più tollerato dagli elettorati europei e nordamericani. Paradossalmente non sembra dare fastidio invece ai paesi in via di sviluppo, che negli ultimi 30 anni hanno visto il loro tenore di vita alzarsi costantemente. Non è un caso se, a Davos, l’unico alfiere della globalizzazione così come l’abbiamo conosciuta fino a oggi è stato Xi Jinping segretario del Partito comunista cinese e presidente della Repubblica popolare cinese, cioè il numero uno della nazione che, negli ultimi 30 anni, più di ogni altra ha tratto vantaggi dall’apertura dei mercati portata dalla globalizzazione.
Una crisi legata dunque solo a temi economici? No: la parola d’ordine che è emersa con urgenza e con prepotenza a Davos dagli elettorati delle grandi democrazie non è stata “dateci più soldi”, ma dateci purpose, uno scopo. Questo è quello che manca, più ancora del reddito deteriorato, alle classi medie occidentali. Prima ancora che impoverite appaiono prive di una direzione di marcia, di un obiettivo nella vita, di un ruolo che gli è stato sottratto dal lavoro che scompare e che si svaluta. La tecnologia è bella, comoda e letale. E negli ultimi 30 anni tutte le risorse create dalla modernizzazione sono andate a remunerare la finanza (compresa quella che tiene in piedi le pensioni, non solo quella di pochissimi e cattivissimi “speculatori”) non il lavoro. È anche per questo che le ipotesi di un reddito di cittadinanza agitato dai 5 Stelle (ma anche da altre forze politiche in molte altre parti del mondo) non convince: se diamo i soldi alla gente per non lavorare come facciamo a dar loro anche la dignità, un ruolo e, appunto, uno scopo? Non ci bastano segnali come i 2.000 euro all’anno spesi mediamente da ogni italiano in giochi d’azzardo (120 miliardi, l’8% del PIL!), la valanga di tempo, energie e cattive idee che tracimano da Facebook e dai social? Una società opulenta, o almeno nutrita, di persone senza nessuna “direzione di casa” (come cantava il neo premio Nobel Bob Dylan in Like a Rolling Stone già 52 anni fa) è una società improduttiva, sterile, rancorosa, senza valori e tendenzialmente instabile. Ne parleremo ancora.
Un po’dispiace che questa verità, la mancanza di uno scopo per la classe media, a Davos non sia stato un grande pensatore, un guru della società postmoderna a portarlo all’attenzione generale ma una leader conservatrice di complemento come Theresa May, arrivata al potere apparentemente quasi per caso. Ciò non toglie che abbia colto quello che il resto della leadership mondiale sembra non aver colto. Che il re è nudo…

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Il No della Consulta al referendum sull’articolo 18.

La Consulta ha bocciato il quesito referendario sulla reintroduzione dell’articolo 18, mentre ha ammesso quelli riguardanti i voucher e la responsabilità negli appalti. Il cuore del Jobs Act non sarà dunque oggetto del referendum proposto dalla CGIL.
Il quesito referendario mirava non solo a ristabilire la versione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (quello che vietava il licenziamento dei lavoratori nelle aziende con più di 15 dipendenti se non per giusta causa) precedente la Riforma introdotta dal governo Renzi, ma si proponeva, altresì, di ampliare il suo ambito applicativo estendendolo anche alle aziende con meno di 15 ma più di 5 dipendenti. In sostanza, si chiedeva non tanto di “abolire l’abolizione” della vecchia norma ma di reintrodurre e allargare i confini della reintegrazione in caso di licenziamento illegittimo.
La CIGL ha annunciato di voler andare avanti con la sua battaglia, proponendo ricorso alla Corte Europea contro la riforma voluta dal governo Renzi: strada comunque accidentata proprio perché il quesito referendario proposto sembra avere più valore di innovazione legislativa (che un referendum non può avere, per la legislazione italiana) che abrogativo.
Nel frattempo si discute sugli effetti della riforma del lavoro sull’occupazione in base ai dati pubblicati lo scorso 9 gennaio dall’Istat sul suo sito. Secondo questi dati, nel periodo compreso tra novembre 2015 – novembre 2016 è aumentato il numero di occupati dello 0,9% (pari a + 201 mila) a causa della diminuzione del numero degli inattivi, ma è aumentata anche la disoccupazione del 5,7%, sempre a causa del calo del numero degli inattivi. La disoccupazione è aumentata in particolare nella fascia di lavoratori compresi tra i 15 ed i 49 anni (+ 6,6% nella fascia 15-24 anni; + 10.8% nella fascia 25-34 anni e + 5.2% nella fascia 35-49 anni), mentre è diminuita per i lavoratori dai 50 anni in su (- 3,4%).
Dunque se è vero, come molti hanno sostenuto, che con l’escamotage del licenziamento disciplinare (non suscettibile, secondo la riforma del Jobs Act, di reintegrazione) di fatto si sono spalancate per le aziende le possibilità di licenziare i propri dipendenti, ci si chiede come mai la fascia più colpita dalla disoccupazione sia quella dei più giovani, che dovrebbe essere la meno esposta ai licenziamenti (i giovani non lavorano perché non vengono assunti, non perché vengono licenziati). Se è vero, infatti, che il contratto a tutele crescenti consente un più facile licenziamento dei neo assunti (generalmente più giovani degli over 50), resta la possibilità per le aziende di licenziare il personale più anziano (mediamente più costoso) attraverso lo strumento della procedura disciplinare. C’è da chiedersi, dunque, se il dato della mancata discesa della disoccupazione sia veramente imputabile al Jobs act, come sembra sostenere la CGIL, e non piuttosto ad altri fattori come la fragilità della ripresa economica, la bassa produttività e oneri complessivi sul lavoro che in Italia rimangono fra i più elevati d’Europa.
Hanno passato, invece, il vaglio della Consulta i quesiti referendari riguardanti i voucher per il lavoro occasionale e sulla la responsabilità solidale appaltante-appaltatore negli appalti. Secondo la CGIL con il governo Renzi i voucher (già introdotti dal governo Monti) si sono trasformati da strumento dedicato per lo più alle imprese agricole, di pulizie e a pochi altri settori marginali, a strumento di larga diffusione, utilizzabile pressoché in qualsiasi ambito lavorativo. Inoltre, è stato innalzato il limite del compenso annuo percepibile dal singolo dipendente da 5.000 a 7.000 euro. Il Jobs Act, a prescindere dall’ambito lavorativo, definisce infatti occasionali tutte le prestazioni lavorative il cui compenso annuo (1 gennaio – 31 dicembre) non ecceda il valore di 2.000 euro netti da parte di ogni singolo committente e 7.000 netti da parte della totalità dei committenti. Ogni voucher ha un valore nominale di 10 euro dei quali 7,5 euro netti vengono riscossi dal lavoratore ed il resto confluisce nelle casse dell’INPS e dell’INAIL a titolo di contributi previdenziali e assistenziali. Secondo la CGIL, che chiede l’abolizione dello strumento voucher, questa impostazione avrebbe di fatto provocato o quanto meno incentivato il proliferare del precariato. Nei fatti, nel corso del 2016 è notevolmente aumentato il numero dei voucher venduti, passato dai 24 milioni del 2013 (per un controvalore di 240 milioni lordi pari a compensi netti di 180 milioni per i lavoratori) ai 121,5 milioni dei primi dieci mesi del 2016 (pari a un miliardo e 215 milioni lordi, di cui più di 911 milioni di compensi netti).  Secondo l’INPS (per il quale si è speso in favore dei voucher il presidente Tito Boeri, che ha anche notato come fra i principali utilizzatori dello strumento vi sia proprio la CGIL verso i suoi collaboratori) e l’INAIL in realtà i voucher non avrebbero favorito il precariato ma fatto emergere una fetta importante di lavoro nero, consentendo un notevole recupero contributivo. Tuttavia lo stesso governo (e il partito di maggioranza PD) hanno dichiarato pubblicamente che lo strumento voucher richiede una “messa a punto” per evitarne un uso improprio come forma di incentivo al precariato: se questa riforma fosse avviata entro tempi parlamentari ragionevoli (entro la prima quindicina di aprile) probabilmente verrebbe a cadere anche il referendum proposto dalla CGIL su questo tema.
Sul fronte degli appalti si vogliono abrogare le norme della legge Biagi che limitano la responsabilità solidale tra appaltante e appaltatore dei confronti del lavoratore, estendendo la tutela di quest’ultimo anche in caso di fallimento o impossibilità a provvedere ai risarcimenti economici da parte dell’appaltatore rivalendosi sull’appaltante.
La consultazione referendaria, per legge, dovrebbe svolgersi tra il 15 aprile ed il 15 giugno prossimo. Salvo che nel frattempo non vi siano interventi legislativi che modifichino le due norme di cui si propone l’abrogazione o in caso di elezioni politiche anticipate, nel qual caso le consultazioni (sempre salvo interventi legislativi in merito) potrebbero slittare al 2018.
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Perché la Consulta non poteva non bocciare il referendum sull’articolo 18.

La decisione della Corte Costituzionale di respingere il referendum sull’articolo 18 non è particolarmente sorprendente. Il tentativo della Cgil non era quello di reintrodurre le norme modificate una prima volta dalla legge Fornero e successivamente dal governo Renzi con la riforma del marzo 2015, quanto quella di arrivare ad una estensione dei diritti prima garantiti ai lavoratori impiegati delle aziende che occupavano oltre 15 dipendenti anche alle aziende con solo cinque lavoratori. Il risultato finale non sarebbe quindi stato la reintroduzione della normativa in vigore prima delle riforme Fornero – Renzi, ma una vera e propria nuova disciplina dei licenziamenti che mai era esistita nel nostro ordinamento.
La Cgil aveva infatti cercato di proporre un cosiddetto referendum manipolativo, con lo scopo non già di abrogare una norma, ma di introdurne una nuova. L’iniziativa andava palesemente contro quelli che sono i principi della nostra costituzione, la quale consente solo i referendum abrogativi e non quelli propositivi. Scopo del referendum abrogativo è però quello di reintrodurre una norma esistente o di cancellarne una non gradita ai proponenti, non quello di sostituirsi al parlamento nella funzione legislativa.
Quello che viceversa è sorprendente è il fatto che la Cgil si sia mossa in una logica di questo tipo, cercando addirittura l’estensione dell’applicazione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori alle mini aziende. Che tale tentativo avesse altissime probabilità di essere bocciato dalla Corte Costituzionale era chiaro a tutti i commentatori. Non si comprende quindi perché l’organizzazione della Camusso si sia impegnata in un’operazione complicata, costosa, e politicamente pericolosa pur essendo cosciente che le probabilità di un fallimento ancor prima di arrivare alle urne erano altissime. Viene quasi il sospetto che si sia trattato di una scelta precisa per evitare una sconfitta elettorale che avrebbe avuto conseguenze politiche ben più gravi di quelle che avrà una decisione che può essere definita tecnica e come tale non politicamente pericolosa.

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Tutto quello a cui avresti dovuto pensare e a cui non hai pensato: il decesso del lavoratore.

Uno dei problemi che si pone nel caso del decesso del dipendente (ma anche in caso di invalidità totale) è quello della sorte del patto di non concorrenza. L’azienda deve pagare il corrispettivo del patto anche in caso di decesso del lavoratore o può ritenerlo risolto non potendosi più avere una concorrenza dell’ex dipendente? Può quindi evitare il pagamento agli eredi, o se già pagato addirittura richiedere il pagamento dei corrispettivi nel frattempo già pagati?
A prima vista la soluzione al quesito parrebbe positiva, il contratto è risolto per impossibilità sopravvenuta e quindi niente sarà dovuto agli eredi essendosi sciolto di diritto. In realtà la questione è assai più complessa. Infatti la limitazione della libertà del dipendete inizia nel momento stesso in cui firma il patto, da quella data infatti non potrà più muoversi liberamente nel mercato del lavoro e la sua agibilità contrattuale sarà automaticamente ridotta, con il conseguente vantaggio per il datore di lavoro di vedere sottratte le sue competenze alla concorrenza.
Il principio è stato più volte affermato dalla giurisprudenza. Si veda per tutte la sentenza della corte d’appello di Bologna del 13 gennaio 2015 ove si legge che “l’obbligo di non concorrenza, seppur operante per il periodo successivo alla fine del rapporto, si perfeziona già con la relativa pattuizione; ciò impedisce al lavoratore di progettare per questa parte il proprio futuro lavorativo e comprime la sua libertà”. Principio affermato dalla corte bolognese è peraltro stato più volte ribadito dalla Cassazione (sezione lavoro 8 gennaio 2013 numero 212)
Ma se con la sottoscrizione nasce il patto che inizia immediatamente a dispiegare i suoi effetti ed i suoi benefici per il datore di lavoro, ancorché il pagamento sia posticipato alla risoluzione del rapporto di lavoro, il decesso del lavoratore, anche solo un giorno dopo la sottoscrizione, non potrà avere effetti sul pagamento del corrispettivo, che sarà comunque dovuto. Infatti il diritto di credito del lavoratore sorge con la stipula del patto e non con la cessazione del rapporto, e ovviamente, si trasferisce agli eredi.
Ovviamente il contratto dovrà ritenersi risolto con la morte del dipendente, ma ciò non farà venire meno il diritto al compenso per il sacrificio subito tra la data della sottoscrizione a quella del decesso. Al massimo potrà ipotizzarsi una richiesta di riduzione dei compenso da parte del datore di lavoro essendo parzialmente venuta meno la prestazione del lavoratore/debitore.
Alla luce di quanto sopra diventa pertanto utile introdurre nel patto di non concorrenza una clausola che consenta una riduzione del compenso pattuito nella ipotesi, pur malaugurata, di decesso del lavoratore.

I rischi «security» vanno inseriti nel documento di valutazione obbligatorio.

Il datore di lavoro, nell’esercizio dell’impresa, ha l’obbligo di proteggere l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori valutando tutti i rischi per la loro salute e sicurezza, nonché adottando e aggiornando costantemente le relative misure di prevenzione e protezione (art 2.087 del codice civile; artt. 18 e 28 del decreto legislativo 81/2008).
Nel quadro di questo obbligo di tutela ampio e generale, sono due le specifiche tipologie di rischio che il datore di lavoro deve tenere presente: i rischi cosidetti “safety”, ovvero lavorativi in senso proprio, e i rischi cosidetti “security”, insiti nel contesto lavorativo ampiamente inteso e non derivanti dal processo produttivo e dall’attività di impresa in senso stretto ma da una fonte esterna.
Proprio con riferimento a questo ultimo aspetto è stata avanzata istanza alla Commissione per gli Interpelli in materia di salute e sicurezza del Ministero del Lavoro relativamente alla valutazione del “rischio ambientale” per il personale navigante delle compagnie aeree.
In particolare, è stato chiesto: «se nell’obbligo giuridico in capo al datore di lavoro della valutazione di tutti i rischi per la salute e la sicurezza con la conseguente elaborazione del documento di valutazione dei rischi (DVR), così come disciplinato dagli articoli 15, 17 e 28 del decreto legislativo 81/2008 sia ricompresa anche la valutazione della situazione ambientale e di sicurezza intesa anche come security, in particolare in paesi esteri ma non solo, legata a titolo esemplificativo ma non esaustivo a eventi di natura geo politica, atti criminali di terzi, belligeranza e più in generale di tutti quei fattori potenzialmente pericolosi per l’integrità psicofisica dagli equipaggi nei luoghi (tipicamente aeroporti, alberghi, percorso da e per gli stessi e loro immediate vicinanze) dove il personale navigante si trovi a operare e o ad alloggiare quando comandati in servizio».
Nella risposta ad Interpello numero 11/2016, la Commissione ha concluso ritenendo che «il datore di lavoro debba valutare tutti i rischi, compresi i potenziali e peculiari rischi ambientali legati alle caratteristiche del Paese in cui la prestazione lavorativa dovrà essere svolta, quali a titolo esemplificativo, i cosiddetti “rischi generici aggravati”, legati alla situazione geopolitica del Paese (per esempio guerre civili, attentati, eccetera) e alle condizioni sanitarie del contesto geografico di riferimento non considerati astrattamente, ma che abbiano la ragionevole e concreta possibilità di manifestarsi in correlazione all’attività lavorativa svolta».
Ebbene, anche se l’interpello di cui stiamo parlando ha riguardato lavoratori appartenenti a uno specifico settore professionale, lo stesso appare comunque sintomatico della necessaria attenzione al tema della “security” per determinate tipologie di imprese in risposta alla frequenza assunta dal rischio espositivo che deriva da attività criminosa di terzi (con particolare riferimento agli attentati terroristici) rinvenibile oramai in diversi ambiti lavorativi.

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Infortuni sul lavoro, così la responsabilità amministrativa dell’ente.

In caso di infortunio sul lavoro, ai sensi dell’articolo 5, comma 1, lettera a), del dlgs n. 231/2001, letto in combinato disposto con l’art. 2, lett. b), del dlgs n. 81/2008, l’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio da colui che, rappresentando, amministrando, dirigendo o comunque gestendo e controllando l’ente stesso o una sua unità organizzativa autonoma, riveste la posizione di garanzia di datore di lavoro ai fini della sicurezza (per esempio, l’amministratore delegato).
Come ha avuto modo di chiarire la Cassazione Penale, Sezione IV, 19/05/2016, n. 31210, il richiamo normativo a “interesse” e “vantaggio” esprime concetti giuridicamente diversi, che possono essere alternativamente presenti e la sussistenza dei quali va riferita «alla condotta e non all’esito antigiuridico», posto che la morte o le lesioni riportate da un dipendente in conseguenza della violazione di norme di sicurezza «non rispondono all’interesse dell’ente e non procurano allo stesso un vantaggio».
In particolare, ricorre il requisito dell’interesse nel caso in cui la persona fisica, pur non volendo il verificarsi dell’evento, abbia «consapevolmente agito allo scopo di far conseguire un’utilità alla persona giuridica», come quando la mancata adozione delle cautele antinfortunistiche risulti essere il risultato «non di una semplice sottovalutazione dei rischi o di una cattiva considerazione delle misure di prevenzione necessarie, ma di una scelta finalisticamente orientata a risparmiare sui costi d’impresa».
Ricorre, invece, il requisito del vantaggio nel caso in cui la persona fisica, pur non volendo il verificarsi dell’evento, abbia «violato sistematicamente le norme prevenzionali» ponendo in essere una politica d’impresa non curante della materia della sicurezza sul lavoro capace di consentire «una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto».
Per la richiamata giurisprudenza di legittimità, dunque, interesse e vantaggio vanno letti «nella prospettiva patrimoniale dell’ente, come risparmio di risorse economiche conseguente alla mancata predisposizione dei procedimenti e dei presidi di sicurezza (dai più basilari e generici, quali la formazione e l’informazione, ai più specifici e settoriali) […] nonché, infine alla predisposizione di schemi fraudolenti fiscali. Oltre che come incremento economico conseguente all’aumento della produttività, non ostacolata dal rispetto della normativa prevenzionale e di quella regolante lo specifico settore lavorativo».
Ricade dunque sull’ente che voglia andare esente da responsabilità l’onere di dimostrare di avere efficacemente adottato, prima della commissione del reato, modelli gestionali e organizzativi sostanzialmente e non solo formalmente idonei a prevenire i reati della specie di quello verificatosi in concreto.

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Cosa insegna Axa con la parental policy – dal 2017.

La notizia non ha guadagnato le prime pagine dei giornali seppure si tratti di una decisione di impatto significativo. Il Gruppo Axa, prima compagnia di assicurazione al mondo per l’ottavo anno consecutivo nel 2016 (secondo la classifica Interbrand, il Gruppo ha 970 miliardi di dollari di attivo, oltre 166 mila dipendenti e 103 milioni di clienti), ha comunicato che a partire dal 1 gennaio 2017 applicherà a tutti i dipendenti e collaboratori dei 64 paesi in cui è presente (compresi i 1.600 dipendenti italiani) la “parental policy” ovvero «un congedo retribuito al 100% di 16 settimane per il genitore che ha la responsabilità del bambino e un congedo retribuito al 100% di 4 settimane per il secondo genitore ». Il gruppo assicurativo fa sapere che i neo genitori potranno beneficiare della policy «qualsiasi sia la situazione familiare (famiglie biologiche, adottive, affidatarie, monogenitoriali o coppie omosessuali). Laddove la legislazione nazionale preveda minori settimane di congedo, varrà il trattamento riconosciuto da Axa.
Un netto passo in avanti nelle politiche aziendali per favorire la genitorialità, in linea con le più evolute politiche di inclusione e di riconoscimento e valorizzazione delle diversità.
La policy globale di Axa (che già in Italia con il Contratto Integrativo Aziendale in vigore dal 1° settembre 2016 aveva aggiunto al congedo parentale obbligatorio per i papà ulteriori 3 giorni) oltre a superare decisamente l’attuale legislazione italiana, va oltre anche rispetto ai contenuti della Risoluzione del Parlamento europeo del 13 settembre 2016 sulla creazione di condizioni del mercato del lavoro favorevoli all’equilibrio tra vita privata e vita professionale; la Risoluzione ha invitato la Commissione, allo scopo di consentire ai genitori con figli o alle persone con soggetti a carico di conseguire un migliore equilibrio tra vita privata e vita professionale, a proporre iniziative ben fondate e coerenti, fra l’altro attraverso una direttiva sul congedo di paternità che preveda un minimo di due settimane di congedo obbligatorio interamente retribuite.
L’importanza strategica delle politiche aziendali per favorire la genitorialità è uno degli elementi fondamentali nella discussione odierna sul lavoro.
Pietro Santi, Head of Industrial Relations & Safety del Gruppo Axa Italia, commenta: “Il Gruppo Axa già da tempo sta portando avanti su scala globale una politica di riconoscimento e valorizzazione delle diversità ed inclusione per consentire ai propri collaboratori di poter esprimere sé stessi al meglio nel rispetto della propria individualità.
Una soluzione che supporta le mamme e i papà che lavorano nelle Aziende del nostro Gruppo, affinché possano esercitare appieno la loro genitorialità. Una pietra miliare per Axa che, nella propria strategia di employer branding, sceglie di dare un segnale concreto a favore del work-life balance dei propri collaboratori”.
I dati della ricerca commissionata da Lexellent a IPSOS sul tema della genitorialità in azienda (https://lexellent.it/corsi/lavoro-e-genitorialita-i-risultati-della-ricerca-ipsos/ ) evidenziano l’importanza, nella decisione dei lavoratori di diventare genitori o meno, delle politiche attive anche nelle PMI italiane. Il 63% dei lavoratori senza figli hanno dichiarato che la decisione di non averne è stata influenzata dalla loro situazione lavorativa. Dunque la conciliazione fra vita e lavoro non è un fattore marginale nella vita delle aziende e nei rapporti di lavoro. È un fattore dirompente che ha, e avrà sempre di più, un’importanza cruciale nelle relazioni fra azienda e dipendente. Un elemento che può «fare la differenza» fra lavoratori soddisfatti e produttivi e lavoratori che vivono il lavoro faticosamente, come qualcosa che influisce negativamente sulla loro vita e non, come invece dovrebbe essere, che aumenta la loro “qualità della vita”.
Le grandi multinazionali, come Axa, lo hanno capito e stanno agendo per cercare di arginare globalmente questo fenomeno, agevolando i propri dipendenti.
Le PMI, che faticano a rimanere competitive in un contesto globale sempre più difficile, in parte lo hanno compreso, ma faticano a mettere in atto politiche di inclusione.
Eppure gli strumenti che possano aiutare veramente i giovani lavoratori nella decisione di crearsi e di gestire una famiglia ci sono. Le norme sul welfare aziendale contenute nel Jobs Act consentono a tutte le aziende di inventarsi una loro strada per aiutare i lavoratori nella conciliazione tra vita privata e vita professionale, attraverso policy o la contrattazione di secondo livello.
Un’ultima considerazione: farlo non basta. Bisogna anche saperlo comunicare nel modo migliore. Ed è bene non dimenticarselo mai.