Flat tax: un “incomprensibile” privilegio (solo per lavoratori autonomi)

L’ultimo editoriale del Prof.Francesco Bacchini, per il Quotidiano di IPSOA, parla di Flat tax e delle differenze tra lavoratori autonomi e lavoratori dipendenti.

Un’altra deroga alla progressività delle imposte dirette. L’introduzione della flat tax, o tassa piatta, ad opera della legge di Bilancio 2019, va ad esclusivo vantaggio del lavoro autonomo-indipendente. Un vero e proprio favor fiscale riservato agli autonomi (che fuoriescono dal regime IRPEF) a scapito del lavoro subordinato-dipendente (che, invece, ci resta dentro in pieno). E i numeri parlano chiaro. A parità di reddito intorno ai 64.000 euro, un lavoratore subordinato anche con due figli a carico sborsa circa 10.000 euro in più di imposte rispetto al professionista indipendente con partita IVA in regime forfettario. Perché avvantaggiare fiscalmente il lavoro autonomo e l’impresa individuale a danno del lavoro dipendente?

Alla dicotomia lavoro autonomo/contratto d’opera e lavoro subordinato, alla contrapposizione lavoro indipendente e dipendente, da sempre al centro del dualismo ontologico del diritto del lavoro, non sfugge, ovviamente, nemmeno la disciplina giuridico-tributaria.
Infatti, la modalità di determinazione del reddito delle persone fisiche da lavoro autonomo (artt. 53-54 TUIR), ossia del reddito prodotto da chi esercita abitualmente arti o professioni in quanto titolare di partita IVA, è diversa rispetto a quella di chi esercita la propria attività lavorativa alle dipendenze e sotto la direzione di un datore di lavoro (artt. 49-52 TUIR).
Appurata questa differenza strutturale, comune ad entrambi i redditi soggetti a imposta è (ma, forse, sarebbe più corretto dire era) l’applicazione del principio di progressività (e non di proporzionalità) del sistema tributario così come sancito dall’art. 53 Cost., il quale comporta che ciascuno sia chiamato a concorrere alla spesa pubblica in base alle proprie risorse cioè alla propria capacità contributiva, di modo che, con funzione qualificatrice della stessa e in applicazione del principio di uguaglianza sostanziale, al raggiungimento di determinate soglie di reddito, chi ha meno proventi versi meno e chi ne ha di maggiori versi di più, dovendo gli introiti che lo Stato ricava dal gettito fiscale, rispondere, comunque, a criteri di giustizia distributiva ed eguaglianza del carico tributario.
A ben vedere, però, l’applicazione unitaria del principio di progressività del sistema tributario, il quale, non a caso, trova piena attuazione solo in relazione alle imposte c.d. dirette, ossia quelle che, come l’IRPEF, colpiscono le forme immediate di produzione del reddito, ha subito, in relazione ai compensi imponibili riguardanti il lavoro, autonomo o subordinato, una ormai risalente scissione a tutto vantaggio del primo nei confronti del secondo.
Infatti, prima il regime fiscale dei minimi (introdotto dalla legge n. 244/2007 e in vigore dal gennaio 2008 al 31 dicembre 2015), poi il regime fiscale forfettario (introdotto dalla legge di Stabilità 2015 per poi essere riformato completamente l’anno successivo con la legge di Stabilità 2016, con tassazione determinata, entro soglie prefissate, da un coefficiente di redditività a seconda del tipo di attività svolta dal contribuente), già avevano derogato, seppure entro limiti reddituali contenuti (30mila euro il primo, da 25mila a 20mila euro il secondo), al principio costituzionale della progressività tributaria applicato ai redditi da lavoro autonomo.
Ben più rilevante, siccome potenzialmente in grado di alterare irrimediabilmente il sistema tributario progressivo e con esso l’applicazione concreta del principio di uguaglianza sostanziale discendente da quello della capacità contributiva, è, però, a causa del cospicuo innalzamento del limite reddituale (più del doppio rispetto a quello precedente), la deroga alla progressività delle imposte dirette conseguente alla modifica introdotta dalla legge di Bilancio 2019 alla previgente disciplina del regime fiscale forfettario, alla quale si aggiunge, ma a partire dal 2020, l’introduzione della flat tax, o tassa piatta, vera e propria.
Si tratta, con tutta evidenza, di una alterazione a esclusivo vantaggio del lavoro autonomo-indipendente nei confronti di quello subordinato-dipendente, di un vero e proprio favorfiscale, costituzionalmente ingiustificato, riservato al primo (che fuoriesce dal regime IRPEF) in spregio del secondo (che invece ci resta dentro in pieno).
Basta confrontare gli scaglioni IRPEF 2019 e le aliquote attualmente in vigore che si applicano, indistintamente, al reddito dei lavoratori subordinati (e dei pensionati), che vanno dal 23% per lo scaglione di reddito fino a 15.000 euro al 43% per lo scaglione di reddito oltre i 75.000 euro, con l’unica aliquota del 15% (o quella ancor più bassa del 5% nel caso di nuove iniziative produttive) prevista per i lavoratori autonomi (e gli imprenditori individuali) per un reddito fino a 65.000 euro; aliquota che, con l’avvio della flat tax nel 2020, arriverà al 20% per i redditi da 65.000 fino a 100.000 euro.
La disparità di imposizione è solare, inoppugnabile e a ben poco serve per riequilibrare la situazione il (complesso) sistema di deduzioni e detrazioni le quali continueranno ad applicarsi al reddito dei primi e non a quello dei secondi, il quale è presunto forfettariamente partendo dal fatturato (non così per i contribuenti ai quali si applicherà la flat tax, il cui reddito imponibile sarà calcolato sulla base della loro contabilità). Ma c’è di più: per lavoratori autonomi e imprenditori individuali, al vantaggio dell’unica aliquota al 15% si aggiunge la riduzione del 35% della contribuzione previdenziale e l’esclusione dal campo di applicazione dell’IVA che non dovrà più essere versata.
L’Ufficio Parlamentare del Bilancio (UPB) stima che entro il 2020 l’80% dei lavoratori autonomi e degli imprenditori individuali usufruirà dell’aliquota unica al 15 o al 20% con una perdita di gettito complessiva a partire dal 2021 di circa 2,5 miliardi di euro. Il beneficio fiscale medio calcolato dall’UPB per lavoratori autonomi e imprenditori individuali con reddito fino a 65.000 euro si aggira fra i 5.600 euro per i primi e 4.500 euro per i secondi. Ben più ampio, invece, è il risparmio fiscale medio, dal 2020, per i lavoratori autonomi con redditi da 65.000 a 100.000 euro, che l’UPB valuta oltre 7.200 euro, mentre decisamente inferiore nella medesima fascia di reddito è il risparmio per gli imprenditori individuali che dovrebbe mediamente raggiungere i 3.700 euro.
Ricordato che, per lavoratori autonomi e imprese individuali optare per il regime forfettario e dal 2020 per la flat tax potrebbe non essere sempre conveniente e ciò in particolare per i redditi bassi e alti costi sostenuti (superiori al 22% riconosciuto dal forfait) non potendo compensarli con l’IVA pagata; ricordato inoltre che, all’opposto, tale regime risulta decisamente vantaggioso per i redditi alti prossimi ai 65.000 euro con bassi costi di esercizio (quantificabili nel 5-10% del reddito); e sottolineato che oggi possono aderire, diversamente dal passato, al regime forfettario e alla flat tax anche i lavoratori dipendenti(e i pensionati) per la parte di reddito da lavoro autonomo con partita IVA, con un risparmio fiscale davvero considerevole, il confronto con l’IRPEF dei lavoratori dipendenti (ma anche dei lavoratori autonomi con redditi al di sopra della soglia del regime forfettario e della flat tax) è impietoso.
Infatti, ad esempio, a parità di reddito intorno ai 64.000 euro, un lavoratore subordinato anche con due figli a carico sborserà circa 10.000 euro in più di imposte rispetto al professionista indipendente con partita IVA in regime forfettario o flat tax e, pur considerando deduzioni e detrazioni, escludendo casi limite, è inverosimile, anche per i redditi più bassi da lavoro dipendente, sui quali l’incidenza di tali istituti è maggiormente rilevante, che le imposte sul reddito di questi ultimi possano pareggiare quelle forfettarie dei lavoratori autonomi. E ciò anche in presenza di una consistente elargizione datoriale dei flexible benefit del welfare aziendale (beni e servizi di utilità sociale tax free) e dei premi di risultato (massimo 3.000€ per redditi fino a 80.000 euro) per i quali è prevista la tassazione piatta al 10%.
Si tratta, in ogni modo, di differenze ragguardevoli e difficili da giustificare anche volendo argomentare che la disparità di trattamento fiscale discenda dal fatto che i lavoratori autonomi e gli imprenditori individuali sopportano un rischio economico al quale i lavoratori dipendenti (almeno sulla carta) non soggiacciono.
Perché, dunque, avvantaggiare fiscalmente il lavoro autonomo e l’impresa individuale a scapito del lavoro dipendente?
E’ probabile, prescindendo da mere strategie di politica elettorale, che, da una parte, si sia voluto evitare di disperdere il beneficio contributivo concentrando la riduzione del carico fiscale solo su una categoria di soggetti e nella scelta di tale categoria potrebbe aver giocato un qualche ruolo la convinzione, del tutto indimostrata, che lavoratori autonomi e imprenditori individuali esprimano una maggiore attitudine al consumo rispetto ai lavoratori dipendenti e ai pensionati e quindi potenzialmente in grado di generare un maggiore effetto espansivo sulla domanda interna di beni e servizi, ma che, soprattutto, dall’altra parte, abbia pesato la circostanza che il gettito IRPEF derivando per l’80% proprio dalle imposte di dipendenti e pensionati non poteva essere oggetto di un altrettanto consistente taglio fiscale.
Del resto, proprio in questi giorni, esponenti di governo hanno lanciato l’idea di una flat tax anche per i lavoratori dipendenti o, meglio, per il reddito familiare, a due aliquote del 15 % per redditi fino a 80.000 euro e del 20% per redditi eccedenti tale limite, con deduzioni progressive per ogni componente a seconda della soglia di reddito annuale; idea che, secondo gli esperti del Ministero dell’Economia e delle Finanze, determinerebbe quasi 60 miliardi di euro di mancate entrate, risultando di fatto irrealizzabile.
Rebus sic stantibus, si potrebbe azzardare l’affermazione che il regime fiscale forfettario e la flat tax per lavoratori autonomi e imprenditori individuali possa rappresentare un ulteriore step di progressiva appetibilità del lavoro indipendente, nell’ormai secolare competizione, giocata fra tutele e benefici ad assetto variabile, con il lavoro subordinato.
Il profilo di vantaggio fiscale si aggiungerebbe, infatti, al profilo propriamente lavoristico delle tutele riconosciute al lavoro autonomo dal Capo I della l. n. 81/2017 e in particolare quelle relative alla indennità di maternità, alla tutela della gravidanza, della malattia e dell’infortunio, alla DIS-COLL, ma anche quelle riguardanti le clausole e le condotte abusive, la deducibilità delle spese di formazione e accesso alla formazione permanente, gli apporti originali e le invenzioni, l’accesso alle informazioni sul mercato e servizi personalizzati di orientamento, riqualificazione e ricollocazione.
Certamente, oggi il lavoro autonomo può essere, rispetto al recente passato, un’opzione più competitiva e seducente del lavoro subordinato, soprattutto sotto la spinta della rivoluzione digitale e delle offerte free lance della platform economy e del crowdsourcing, ma non può essere una scelta, libera o imposta, indotta dalla mera convenienza economica complessiva insita nel vantaggio fiscale.
Ecco dunque che, in quest’ottica, la legge di Bilancio 2019 prevede, fra gli altri divieti di accesso al regime forfettario/flat tax, quello per i lavoratori autonomi che, nei due anni precedenti al periodo d’imposta considerato, risultavano dipendenti dall’attuale committente prevalente, ossia quello che determina più della metà del fatturato del lavoratore autonomo (con esclusione, prevista dal decreto semplificazioni, per chi esercita un’attività di nuova iscrizione ad un ordine o ad un collegio professionale, ovvero i c.d. ex praticanti).
Il divieto di svolgimento dell’attività prevalentemente resa nei confronti del proprio ex datore di lavoro, in altre parole di chi lo è stato nei due anni precedenti o, comunque, di un soggetto ad esso riconducibile, manifesta l’evidente volontà di evitare quello che potremo chiamare il dumping fiscale del lavoro autonomo nei confronti del lavoro dipendente, scongiurando fittizi recessi dal contratto di lavoro subordinato per approdare al vantaggioso regime forfettario o alla flat tax, magari con aliquota al 5% come start up.
Almeno di questo al legislatore va dato atto.
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Donne in ascesa negli organi societari delle società quotate in mercati regolamentati. Tutti i partiti politici convergono per la proroga della legge “Golfo Mosca”

Di seguito l’ultimo articolo a firma dell’avvocato Marina Rugolo per Diritto24, sul tema della parità di genere nelle aziende quotate in borsa. L’Italia è ancora indietro nei ranking internazionali che monitorano  il divario nei diversi paesi, ma gli effetti positivi della presenza femminile nei CdA delle aziende sono noti e i partiti convergono sull’idea di prorogare la Legge n. 120 del 12 luglio 2011 “Golfo Mosca”, primo intervento normativo volto a diminuire questo divario.
Parecchi studi internazionali, tra cui il Global Gender Gap Report, dimostrano che l’uguaglianza tra uomo e donna nel campo sociale, economico e culturale è ancora lontana.
I primi progressi – secondo l’ultima edizione del rapporto (2018) – si sono registrati ma sono ancora piuttosto timidi e l’Italia occupa l’82esimo posto della classifica rispetto alle altre 144 nazioni mappate, perdendo ben 32 posizioni rispetto al solo anno precedente.
Peraltro, il dato maggiormente negativo riguarda proprio l’aspetto economico – centodiciottesima posizione – soprattutto per la discrepanza relativa allo stipendio percepito dalla donna rispetto all’uomo per lo svolgimento delle medesime mansioni (fattore rispetto al quale il nostro Paese scende nella classifica alla 120esima posizione).
La legge n. 120 del 12 luglio 2011 (la cosiddetta legge “Golfo Mosca”)

Nel nostro Paese, con particolare riferimento al ramo societario – uno dei settori in cui il divario tra i due sessi è stato da sempre più difficile da scardinare – le prime modifiche agli artt. 147-ter e 148 del D.lgs. n. 58/1998 sono state introdotte dalla legge n. 120 del 12 luglio 2011, detta “Golfo Mosca”.
Tale intervento legislativo aveva il precipuo scopo di ridurre il notevole squilibrio tra i due sessi registrato nei consigli di amministrazione delle società quotate nei mercati regolamentati.
Difatti, sino al 2010 la presenza femminile nei consigli di amministrazione di tali società quotate era pari al 6% mentre oggi – con l’adozione della legge Golfo Mosca – detta percentuale è aumentata sino al 33,5% con punte periodiche del 37%.
La suddetta legge ha per la prima volta previsto un importante cambiamento nel diritto societario italiano ovvero: la previsione per gli organi sociali delle società quotate, la cui scadenza era prevista a far data dal 12 agosto 2012, di essere rinnovati preservando una quota pari ad almeno 1/5 dei propri componenti alle donne.
L’obiettivo era, infatti, quello di prevedere un aumento della componente femminile a partire già dal secondo e terzo rinnovo degli organi societari.

L’arco temporale prefissato e cioè tre mandati consecutivi – sulla scia di una previsione ottimista – avrebbe permesso alle donne di acquisire un ruolo nei consigli di amministrazione, di dimostrare le proprie competenze così da superare il “gender gap“.
Gli effetti di tale novità nel panorama legislativo sono stati indubbiamente positivi, anche al di là dell’obiettivo prioritario della parità di genere.
Difatti, oltre alla riduzione degli squilibri di genere, la maggiore presenza femminile nella composizione dei CdA ha anche determinato ulteriori cambiamenti migliorativi in termini di abbassamento dell’età media, di innalzamento del livello di istruzione e di maggiore diversificazione per quanto attiene l’esperienza professionale.
I risultati dimostrano, però, che il processo per superare il “gender gap”, per far sì che il genere femminile possa ricoprire parimenti agli uomini posizioni strategiche e di comando è più lungo dei pronostici iniziali.

Cosa prevede la proposta di legge n. 1481 al riguardo?

La proposta di legge n. 1481 presentata il 29 dicembre 2018 finalizzata a riproporre le modifiche agli artt. 147-ter e 148 del Testo Unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al D.lgs. n. 58 del 24 febbraio 1998, in materia di equilibrio tra i sessi negli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate in mercati regolamentati è stato depositata in Senato in data 22 febbraio 2019 ed assegnata alla VI Commissione Finanze in sede Referente il 7 marzo 2019.
In particolare, visti i risultati ottenuti con l’applicazione della legge Golfo Mosca e, tenuto anche conto che il nostro Paese è comunque ben lontano dal raggiungimento dell’obiettivo dell’equilibrio tra i sessi, su iniziativa di più deputati è stata presentata la succitata proposta di legge così da prorogare per altri tre mandati l’applicazione delle previsioni introdotte con la legge n. 120/2011, per non vanificare quanto sin qui effettuato.
Infatti, se da un lato è necessaria la temporaneità delle “azioni positive”, dall’altro lato il legislatore ha il compito di valutare se l’arl’arco temporale prefissato sia “proporzionale e congruo allo scopo perseguito e in rapporto al contesto sociale, politico e culturale di partenza“.
La proroga richiesta è in armonia con le previsioni europee in tema di comunicazione di informazioni da parte di alcune imprese e di alcuni gruppi industriali, recepite nel nostro ordinamento dal D.lgs. 30 dicembre 2016 n. 254, secondo cui la diversità di competenze e punti di vista dei componenti degli organi societari favorisce una maggiore dialettica e conseguentemente un migliore svolgimento delle attività poste in essere dalle società.
Tra l’altro la cessazione di efficacia delle disposizioni di cui alla legge n. 120/2011, creerebbe delle disparità ingiustificate tra società quotate e società a partecipazione pubblica. E ciò in quanto queste ultime avrebbero comunque l’obbligo di attenersi al principio della parità di genere, almeno nella misura di un terzo, nel rispetto di quanto previsto dall’art. 11, comma 4, del testo unico sulle società a partecipazione pubblica, di cui al D.lgs. 19 agosto 2016, n. 175.
Tale iniziativa parlamentare dimostra, pertanto, che il percorso intrapreso con la legge “Golfo-Mosca” va nella giusta direzione, ma occorre una maggiore consapevolezza da parte dell’odierna società del “ruolo” acquisito nel tempo da parte della donna.
Pertanto, la sfida più ambiziosa di tale intervento è quella di far sì che in ambito lavorativo e per tutti i ruoli, le donne possano avere le stesse opportunità degli uomini non solo perché ciò risponde al principio di uguaglianza ma anche perché vari studi dimostrano che il raggiungimento della parità tra i sessi è uno dei fattori di crescita economica del Paese.
È auspicabile, quindi, che tale progetto di legge segua un iter parlamentare veloce, sul quale sono invitate a convergere con determinazione tutte le forze politiche per evitare di vanificare tutti gli sforzi sino a qui compiuti insieme sia dalle donne sia dagli uomini.

Marco Giangrande nuovo partner dello Studio

Milano, 11 marzo 2019 – È stata ufficializzata la nomina a Partner del Senior Associate Marco Giangrande, dal 2004 con il team di professionisti che hanno fondato Lexellent.
L’avvocato Giangrande segue società italiane e straniere in materia giuslavoristica e previdenziale ed ha una consolidata esperienza nell’ambito ambito delle relazioni industriali, gestione degli esuberi, riorganizzazione della forza lavoro, trasferimenti di azienda e relativo contenzioso.
“Con questa nuova nomina vogliamo premiare non solo le competenze tecniche ma anche la capacità di fare gioco di squadra che è parte del modo di essere avvocato di Marco. Un professionista che è cresciuto nello Studio e insieme allo Studio. Questo dimostra come il nostro modello di crescita sia realmente premiante per i giovani che vogliano affermarsi in questo settore”- ha commentato la Managing partner Giulietta Bergamaschi – “Capace e attento alle esigenze dei clienti, anche talvolta inespresse, Marco Giangrande apporta sempre un apprezzabile valore aggiunto al lavoro del nostro team”.

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Lexellent nel ranking di Chambers&Partners 2019

Chambers & Partners è una delle guide più apprezzate al mondo per chi opera nel settore legale. Nella sua classifica dei più importanti studi, non manca Lexellent, a cui viene ribadita una posizione di riguardo nell’ambito del Diritto del Lavoro in Italia.
Testualmente:
Per cosa è riconosciuta la squadra
Una boutique giuslavorista che affianca i clienti su una vasta gamma di aspetti come salute e sicurezza, trattative sindacali nonché licenziamenti collettivi e individuali. Fornisce inoltre consulenza in materia di contenzioso. Rappresenta clienti nazionali e multinazionali appartenenti a diversi settori industriali tra cui quello farmaceutico.
Punti di forza
Gli intervistati sottolineano “l’eccellente preparazione, la flessibilità e la capacità di comprendere le reali esigenze del cliente“.
Inoltre apprezzano “l’efficacia della consulenza“.
Da evidenziare
Lo Studio ha assistito Vivisol nella revisione dei contratti di lavoro per medici e infermieri.
Legali degni di nota
Giulietta Bergamaschi è riconosciuta per le sue “eccellenti competenze tecniche“.
Fornisce consulenza nella stesura di piani retributivi e nelle trattative con le organizzazioni sindacali.