Finanziamenti e (co)gestione sindacale dell’occupazione. Che la notte porti consiglio…

Di seguito l’articolo a firma del Prof. Francesco Bacchini pubblicato da IPSOA, sul tema della gestione del personale, da discutersi con i sindacati, per quelle imprese che ottengano i finanziamenti garantiti da SACE.

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Il decreto Liquidità prevede che l’impresa che ottiene il finanziamento garantito da SACE debba impegnarsi a definire (probabilmente per tutta la durata del medesimo, che può arrivare a sei anni), con accordo sindacale, le eventuali riduzioni di personale che si rendessero necessarie in conseguenza delle ricadute economico-produttive dell’emergenza Coronavirus. Ma non solo. Il legislatore potrebbe aver voluto subordinare alla stipulazione di accordi con il sindacato anche altri ambiti che rientrano nella gestione della flessibilità organizzativa del lavoro, quali, ad esempio, il ricorso ai contratti a termine, il trasferimento di ramo d’azienda, la predisposizione di contratti d’appalto. A fronte di molti dubbi interpretativi sollevati dal decreto Liquidità, è lecito chiedersi: la conversione in legge porterà il giusto consiglio?

Per assicurare risorse monetarie alle imprese ubicate in Italia ed economicamente indebolite dalla pandemia in corso, il decreto Liquidità (D.L. n. 23/2020) propone, in buona sostanza, soltanto un sistema di prestito garantito dallo Stato ed erogato dalle banche. L’investimento finanziario emergenziale sancito nel D.L. per invertire le sorti della crisi economica, consiste, infatti, unicamente nella previsione che SACE S.p.A. conceda – fino al 31 dicembre 2020 – garanzie a banche ed istituzioni finanziarie nazionali e internazionali nonché ad altri soggetti abilitati all’esercizio del credito in Italia, dirette ad agevolare l’erogazione, in qualsiasi forma, di finanziamenti a imprese di ogni dimensione.
L’impegno monetario con cui SACE S.p.A. garantirà tali finanziamenti è pari a 200 miliardi di euro, di cui almeno 30 dovranno essere destinati al sostegno economico delle PMI (così come di lavoratori autonomi e di liberi professionisti titolari di partita IVA) e ciò, a ogni buon conto, a patto che tali soggetti abbiano esaurito la capacità di accesso al Fondo di garanzia per le PMI.
Con il via libera della Commissione Europea che, ex art. 1, comma 12, del decreto legge, ha approvato tali misure con due distinti provvedimenti datati 14 aprile, la disciplina è oramai, almeno sulla carta, pienamente operativa.
Tuttavia, ottenere la garanzia del finanziamento e, quindi, il finanziamento stesso, oltre a non essere automatico (e nulla quaestio), non è nemmeno, agevole, giacché il legislatore ha previsto alcune condizioni di rilascio che le imprese beneficiarie dovranno soddisfare.
Tali condizioni, elencate nelle lettere a)-n) dell’art. 1, comma 2, del D.L., sono molteplici e di varia natura (economica, contabile, dimensionale, di bilancio, di fatturato), anche se l’attenzione del giuslavorista si incentra su quanto disposto dalla lett. l), poiché, in forza di tale previsione, “l’impresa che beneficia della garanzia assume l’impegno a gestire i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali”.
L’espressione utilizzata è pacificamente generica e di incerta interpretazione; di primo acchito, essa pare evocare un vincolo di contrattazione concertata, se non addirittura introdurre un inedito obbligo di cogestione o di codecisione con il sindacato in ordine alle scelte organizzative di governo della forza lavoro in chiave economico-occupazionale.
 
In questo senso, infatti, la locuzione “gestire i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali” si deve intendere nel senso di amministrare la situazione numerica delle persone occupate nell’impresa (l’andamento delle politiche del personale) al momento del finanziamento solo a fronte della stipulazione di accordi (contratti collettivi di secondo livello aziendali o territoriali) con il sindacato (aziendale, ossia RSU/RSA, o provinciale, presumibilmente maggiormente rappresentativo a livello nazionale), dal momento che tale assunzione d’impegno (da rendere per iscritto da parte del legale rappresentante) non può che significare per le imprese garantite, quanto meno, l’essere tenute a non intervenire unilateralmente sui livelli occupazionali bensì a farlo esclusivamente previo accordo collettivo.
Prescindendo solo per un attimo dal potenziale contrasto di siffatto precetto con l’art. 41 Cost., in quanto surrettiziamente incidente sull’autonomo e libero esercizio dell’attività d’impresa, la sua ratio legis sembra essere con tutta probabilità la seguente: l’impresa che ottiene il finanziamento garantito da SACE S.p.A. deve impegnarsi (probabilmente per tutta la durata del medesimo, che, giova ricordarlo, può arrivare a sei anni), ossia si vincola, si obbliga, a definire con accordo sindacale, le eventuali riduzioni di personale che si rendessero necessarie in conseguenza delle ricadute economico-produttive dell’emergenza Covid-19.
 
Pertanto, la sintesi della locuzione in esame potrebbe essere: si può ridurre il personale, si possono effettuare licenziamenti, certo unicamente per motivi economico-oggettivi, ovviamente collettivi (per i quali è già previsto l’esame congiunto ma non necessariamente l’accordo sindacale), ma fors’anche individuali (ancorché alieni da ogni logica di negoziato collettivo), nei confronti di tutti i dipendenti, anche dirigenti, soltanto con il consenso del sindacato e nei limiti dell’accordo con esso stipulato.
Nel confuso disegno normativo emergenziale, il tentativo (incauto) di subordinare i livelli occupazionali all’accordo con i sindacati potrebbe rappresentare una misura cautelare di portata limitata e, soprattutto, eventuale, atteso che tale vincolo si rivolge solo alle imprese che ottengono il finanziamento garantito da SACE S.p.a., in vista del più che probabile venir meno del difficilmente reiterabile (essendo già in odore di incostituzionalità) divieto di licenziamento collettivo e individuale per g.m.o. di cui all’art.46 del D.L. n. 18/2020, il quale oggi stabilizza, insieme all’integrazione salariale ordinaria e in deroga con causale Covid-19, un’occupazione che, purtroppo, in molti settori economici è del tutto apparente e nient’affatto reale.
 
La norma, più un monito che un precetto vero e proprio, nella sua impalpabilità, fra l’altro nulla dice, ne fa intendere di voler dire, in ordine a due fondamentali e necessari raccordi: quello con la L. n. 223/1991 e con le regole procedurali sui licenziamenti collettivi e quello con l’art. 7 della L. n. 604/1966 e con l’art. 18 St. Lav. in materia di licenziamento per motivo oggettivo.
Sul punto è infatti lecito domandarsi se, per le imprese finanziate con garanzia SACE S.p.A., i licenziamenti risulteranno validi solo nel caso in cui in sede di procedura sindacale (ex art. 4, L. n. 223/1991) o davanti all’Ispettorato territoriale del lavoro (ex art. 7, L. n. 604/1966) venga raggiunto un accordo, ipotesi, in entrambi i casi, oggi meramente eventuale, oppure se la disciplina in esame esuli da un simile contesto, non costituendo un obbligo ma solo un onere esclusivamente finalizzato a mantenere il vantaggio della garanzia pubblica del finanziamento economico. La questione è senza dubbio assai rilevante, giacché, se si trattasse di norma imperativa, la sua violazione comporterebbe la nullità del provvedimento espulsivo adottato e, conseguentemente, a prescindere dal regime di tutela applicabile, il giudice, con la sentenza con la quale dichiarasse la nullità del licenziamento, dovrebbe ordinare la reintegrazione del lavoratore, riconoscendo allo stesso l’indennità risarcitoria piena indipendentemente dal numero di prestatori occupati dall’impresa.
 
Non va dimenticato, inoltre, che tale norma, prevedendo uno specifico diritto nei confronti delle organizzazioni sindacali, potrebbe, se trasgredita, configurare condotta antisindacale ex art. 28 St. Lav. e come tale risulterebbe suscettibile di repressione in sede giudiziale.
A ben vedere, però, la norma in esame, se interpretata in senso ampio, non rappresenterebbe soltanto un surrettizio divieto di licenziamento in assenza di accordo sindacale, potendo infatti subordinare alla stipulazione di accordi con il sindacato anche altri ambiti rientranti nella gestione della situazione numerica delle persone occupate nell’impresa, quali, ad esempio, il ricorso o meno alla stipulazione di contratti di lavoro a termine anche stagionali, alla somministrazione di lavoro, al lavoro intermittente, al trasferimento di ramo d’azienda, alla stipulazione di contratti di subfornitura e d’appalto per la realizzazione di lavori o servizi (global service) interni all’azienda, all’unità produttiva o al ciclo produttivo della stessa.
Benché tali istituti, tutti riconducibili alla flessibilità organizzativa del lavoro, interna (tipologica) o esterna (outsourcing), risultino estranei alla stabile struttura occupazionale aziendale (che la norma apparentemente si prefigge di tutelare), così da sembrare conseguentemente esclusi dal perimetro del precetto, è innegabile che la cessione di un ramo d’azienda, l’esternalizzazione di una fase del processo produttivo, il ricorso a rapporti di lavoro temporanei, discontinui ad interim, risultino tutt’altro che indifferenti, impattando anche sui livelli occupazionali dell’impresa e non soltanto in modo indiretto.
 
Del resto, la contrattazione collettiva nazionale sancisce già, di frequente, in merito alle decisioni datoriali che riguardano il ricorso strategico alla flessibilità organizzativa dei processi produttivi e del lavoro ad essi necessario, e, quindi, l’andamento delle politiche del personale, prerogative di monitoraggio, informazione e consultazione attribuite alle rappresentanze sindacali in azienda.
In conclusione, a fronte delle tante incognite e dei molti dubbi interpretativi sollevati dall’impegno alla cogestione sindacale dei livelli occupazionali imposto alle imprese dal “Decreto Liquidità”, è lecito nutrire la speranza che, come la notte, anche la conversione in legge porti il giusto consiglio, altrimenti non ci resterà, ancora una volta, che piangere!
 
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Covid-19 e contratti commerciali: quale spazio per le clausole di forza maggiore e di hardship

Di seguito l’articolo a cura del nostro associate Edoardo Gandini per IPSOA sul tema della gestione degli adempimenti contrattuali a fronte delle restrizioni imposte dai governi con particolare riferimento alle clausole di Forza maggiore e Hardship.

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Con il proseguire dell’emergenza Coronavirus sempre più aziende si trovano ad affrontare il problema della difficile gestione degli adempimenti contrattuali a causa delle restrizioni imposte dai governi alla produzione, all’esportazione di beni e all’erogazione di servizi. Per aiutare le aziende a gestire questa delicata fase appare necessaria una specifica assistenza professionale che permetta di valutare il corretto utilizzo clausole di forza maggiore e di hardship, al fine di evitare danni economici, o anche solo per mettere in campo una rinegoziazione amichevole con la controparte, perseguendo, pertanto, una win-win strategy con risparmi di tempo e di denaro.

L’attuale scenario globale stravolto e dominato dal Coronavirus (Covid-19) sta provocando – e purtroppo provocherà – una crescente crisi economica e finanziaria che investirà pienamente le relazioni industriali e gli scambi commerciali.

Effetti del lockdown sugli scambi commerciali

Le restrizioni oggi imposte dai governi di (quasi) tutto il mondo alla circolazione delle persone, alla produzione – talvolta all’esportazione – di beni e all’erogazione di servizi, nel tentativo di contrastare il virus, limitandone la trasmissione, hanno infatti quale effetto collaterale quello di soffocare intere economie e le loro attività produttive.
In particolare, oggetto di dibattito sono le conseguenze per quelle imprese che non riusciranno a far fronte alle proprie obbligazioni contrattuali, risultando così inadempienti verso altri operatori del mercato.
È noto, per dirla con il Roppo, che “[u]na volta concluso, il contratto getta un vincolo sopra le parti, le impegna, nel senso che esse non possono più sottrarsi ai suoi effetti, i quali a questo punto si producono, piaccia o non piaccia alle parti”: ogni promessa è debito, come ci tramanda la saggezza popolare, oppure, con maggiore compostezza giuridica, pacta sunt servanda, principio accolto nel nostro ordinamento all’art. 1372 c.c., secondo il quale il contratto ha forza di legge tra le parti che lo hanno sottoscritto e solo esse – e la legge nei casi previsti – hanno il potere, concordemente, di modificarlo o scioglierlo.
Ebbene, nel contesto degli scambi commerciali, la portata della cristallizzazione nel contratto della volontà negoziale assume particolare rilievo specialmente in quei rapporti destinati a durare nel tempo, magari dovendo affrontare inaspettati mutamenti delle condizioni come, per l’appunto, il terremoto pandemico in atto.

Attestazione delle Camere di Commercio e forza maggiore

A tal proposito, il Ministero dello Sviluppo Economico, il 25 marzo, ha autorizzato le CCIAA a rilasciare, su richiesta delle imprese, una attestazione in lingua inglese di “sussistenza di forza maggiore” con l’intento di offrire una sponda a quegli operatori italiani che stanno patendo gli effetti della decretazione emergenziale.
Leggi anche Coronavirus: al via le attestazioni per la sussistenza di cause di forza maggiore
Numerosi commentatori hanno dato enfasi a questa iniziativa, eppure occorre evidenziare la debolezza strutturale della predetta attestazione che non presuppone alcuna verifica della CCIAA in ordine alla effettiva impossibilità sopravvenuta sofferta dall’impresa, rappresentando tutt’al più una sorta di vidimazione della doglianza da questa lamentata.
In quale misura, dunque, le imprese italiane potranno fare affidamento su questo strumento che appare già indebolito sin dalla sua formulazione?
La forza maggiore nel contesto internazionale è definita dai Principi Unidroit (art. 7.1.7) e, per la compravendita di beni mobili, dalla CISG (art. 79.1), con enunciati pressoché coincidenti, quale impedimento estraneo al controllo del debitore, ragionevolmente imprevedibile al momento della conclusione del contratto e inevitabile e insuperabile una volta manifestatosi.
L’operatività della clausola di force majeure dipenderà quindi dal suo contenuto, dagli eventi presi in considerazione dalle parti, dalla chiarezza.
In assenza di una clausola, invece, assumerà rilevanza la disciplina della legge nazionale applicabile al contratto, con tutte le conseguenti incognite dovute alla varietà di rimedi offerti dagli ordinamenti giuridici.
Analizzando i presupposti, per quanto, da un lato, il Covid-19 rappresenti un evento certamente estraneo alla volontà di chiunque invochi la forza maggiore e fissando la soglia dell’imprevedibilità al 12 gennaio quando è stato trasmesso il primo report della NHC cinese all’OMS, dall’altro, non può tacersi la tradizionale interpretazione restrittiva della forza maggiore nelle maggiori esperienze giurisdizionali e arbitrali (in particolar modo di common law) specialmente in riferimento alla rilevanza dell’impedimento ai fini del funzionamento della clausola e al grado dello sforzo richiesto alla parte obbligata per superare l’impedimento stesso ed eseguire la prestazione con modalità alternative.
D’altronde, anche il modello 2020 di clausola di forza maggiore dell’ICC prevede che la parte che la invoca dimostri che il presunto impedimento non avrebbe potuto essere evitato o superato.
Proprio questo consolidato diniego della forza maggiore, nel contesto degli scambi commerciali internazionali, può suggerire la ricerca di soluzioni meno drastiche e orientate in senso conservativo dei rapporti in essere, quali, ad esempio, quelle della hardship.

Clausola di hardship

Come noto, la hardship, pur fondandosi sui medesimi presupposti della forza maggiore (eventi indipendenti dal controllo della parte che la invoca, per questa ragionevolmente imprevedibili e successivi alla formazione del contratto, e ragionevolmente inevitabili e inseparabili una volta manifestatisi, ICC Hardship Clause 2020), invece di operare in termini di impedimento tout court all’esecuzione della prestazione dedotta in contratto, implica accadimenti che la rendono eccessivamente più onerosa, alterando sostanzialmente l’equilibrio economico del contratto.
A parere di chi scrive, nell’attuale contesto pandemico e vista la sua diffusione su vastissima scala geografica, con pesanti ricadute comuni a un gran numero di economie nazionali, e temporale, i rimedi più cortesi offerti dalla hardship appaiono maggiormente adeguati, tendendo alla risoluzione dei conflitti con salvaguardia di contratti e progetti di sviluppo d’impresa.
In tal senso, ad esempio, la ICC Hardship Clause, premessa la tempestiva comunicazione all’altra parta dell’intervenuto scompenso al sinallagma contrattuale, per un verso, impone alle parti un tentativo di rinegoziazione, e, per altro verso, la sua recente nuova formulazione, marcando un avvicinamento ormai anche testuale al contenuto dell’art. 6.2.3 dei Principi Unidroit, dispone vie, sì alternative, ma perlopiù volte alla conservazione del contratto, piuttosto che alla sua risoluzione.
Se è vero quanto sopra, anche l’assistenza professionale alle imprese potrebbe essere ripensata, offrendo una attenta due diligence delle diverse posizioni contrattuali aperte e un servizio orientato, dapprima, alla mediation e alla rinegoziazione amichevole con la controparte negoziale, perseguendo, pertanto, quella che di questi tempi ha l’aria di essere una win-win strategy con risparmi di tempo (si pensi solo alle indagini per risalire e dimostrare la catena delle responsabilità) e di denaro, e solo successivamente, in caso di insuccesso della via conciliativa, attivare le più gravi opzioni tendenti alla risoluzione.
 
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D.P.C.M. 10 aprile 2020 – Ulteriori disposizioni attuative del D.L. n. 19/2020 (Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza Covid)

A supporto di chiunque abbia necessità di reperire informazioni sulle misure adottate dallo Stato, Lexellent mette a disposizione la seguente circolare con tutte le indicazioni, in chiave giuslavoristica, in merito alle misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da Covid-19 applicabili sull’intero territorio nazionale
 

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Con riferimento al DPCM 10 aprile 2020 si osserva, in chiave giuslavoristica, quanto segue.
Quadro di riferimento

  1. Le disposizioni del DPCM 10 aprile 2020 producono effetto dal 14 aprile 2020 e sono efficaci fino al 03 maggio 2020.
  2. Dal 14 aprile 2020 cessano di produrre effetti i DPCM 08 marzo 2020, 09 marzo 2020, 11 marzo 2020, 22 marzo 2020 e 01 aprile 2020.
  3. Si continuano ad applicare le misure di contenimento più restrittive adottate dalle Regioni, anche d’intesa con il Ministro della salute, relativamente a specifiche aree del territorio regionale.

Misure di contenimento del contagio

  1. Allo scopo di contrastare e contenere il diffondersi del virus sull’intero territorio nazionale, tre le “misure di contenimento” individuate si segnalando quelle di seguito indicate.

Per continuare la lettura, effettuare il download.

Employment Law 2020: la classifica di Milano Finanza

Milano Finanza ha pubblicato la classifica dei migliori Studi Legali e dei migliori Professionisti in Italia per quanto riguarda il Diritto del Lavoro.
Lo Studio Lexellent e la nostra managing partner Giulietta Bergamaschi sono stati inseriti tra i migliori.
 
Per scaricare la classifica in formato PDF cliccate qui

Il welfare aziendale ai tempi del Covid-19. TuttoWelfare intervista Francesco Bacchini

Di seguito l’articolo a firma di Giorgia Pacini pubblicato da TuttoWelfare.info con l’intervista al nostro Prof. Francesco Bacchini sui temi del “Bonus ai dipendenti che continuano a lavorare, assicurazioni sanitarie in caso di contagio, assistenza medica e psicologica. Le imprese si stanno attivando per premiare il personale in prima linea“.

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Aumenti di stipendio, polizze salute, voucher babysitter. Un’azienda alla volta, l’Italia ha iniziato a prendersi cura di chi continua a lavorare anche nell’era del coronavirus. In prima linea alle casse o attivi alle catene di montaggio, sono tantissimi i dipendenti italiani rimasti al lavoro per garantire beni e servizi di prima necessità.
Per sostenere i loro sforzi anche nelle prossime settimane, decine di imprese che durante la pandemia non possono chiudere o che sono costrette a produrre di più stanno adottando misure e incentivi per premiare il personale. Grazie anche agli strumenti tipici del welfare aziendale.
Le iniziative delle imprese si aggiungono a quanto già previsto dal decreto Cura Italia, adottato il 17 marzo 2020: Smart working, laddove possibile, e bonus di 100 euro per chi opera in sede. Il lavoro agile, oggi fortemente raccomandato per minimizzare il contagio, non è che una diversa modalità di prestazione del lavoro subordinato, che avviene, appunto, da remoto. Non rientra, dunque, nell’insieme delle misure di welfare e sostegno ai lavoratori, ma si caratterizza oggi per la sua forte valenza anti-contagio.
“Il bonus di 100 euro previsto dall’articolo 63 del Decreto legge 18 del 2020, invece, è senza ombra di dubbio una misura di tipo premiale stabilita dalla legge”, spiega Francesco Bacchini, Professore di Diritto del Lavoro all’Università di Milano Bicocca e Direttore del dipartimento Sicurezza del Lavoro dello studio legale Lexellent. Chi ha lavorato in sede durante il mese di marzo ha diritto a una somma pari a 100 euro, parametrati all’attività lavorativa effettivamente prestata in azienda: occorre, quindi, verificare quanti giorni il singolo dipendente ha lavorato in azienda per calcolare il premio in denaro.
“Questi 100 euro o la somma minore, in relazione al lavoro effettivamente prestato, sono esenti da qualsivoglia balzello tributario o fiscale e non rientrano nell’imponibile Irpef”, sottolinea il docente. “È una scelta che il legislatore avrebbe potuto adottare anche su altre tematiche della premialità retributiva, ma che ha invece deciso di limitare solo ai 100 euro previsti per il mese di marzo e riconosciuti a partire dal mese di aprile”. Tuttavia non ogni dipendente che a marzo ha lavorato in azienda ha diritto al premio esentasse, ma solo chi nel 2019 ha percepito un reddito complessivo non superiore a 40mila euro.

Bonus e aumenti a chi deve lavorare

Sulle misure base previste dalla legge si innesta poi tutta una serie di opportunità di tipo premiale che possono essere erogate dai datori di lavoro. Molti lo hanno già fatto. Da Giovanni Rana a Mutti, da Granarolo a Esselunga. E ancora: Intesa San Paolo, Lactalis, Cantine Capetta, Motta Supermercati, Teckeneko. Chi rischia di più riceverà stipendi più alti, bonus welfare, giorni di ferie extra o buoni babysitter.
“Occorre fare una distinzione tra le erogazioni che possono rientrare in un contratto collettivo aziendale e quindi essere riconducibili al premio di risultato tassato al 10%, così come previsto dalle leggi di Bilancio del 2016 e del 2017, e le altre forme di premialità a tassazione piena, che rientrano nella parte variabile della retribuzione”, precisa Bacchini.
Nel caso dell’incentivazione del 25% sulla retribuzione prevista dal pastificio Rana, per esempio, chi ha lavorato in azienda è premiato con una retribuzione di risultato: un riconoscimento pari al 25% del minimo tabellare previsto per quel mese. Su queste somme, il lavoratore paga normalmente le tasse e il datore di lavoro la contribuzione. Se invece le misure fossero state ricondotte all’interno della premialità di risultato, la tassazione a carico del lavoratore si sarebbe fermata al 10%, a fronte di una contribuzione piena da parte del datore di lavoro.
“Il Legislatore avrebbe potuto fare una scelta più significativa, stabilendo che a tutti i premi riconosciuti durante l’emergenza coronavirus si applicasse la tassazione agevolata, e avrebbe potuto prevedere sgravi contributivi in una certa misura anche per i datori di lavoro”, fa notare Bacchini. Una soluzione di questo tipo potrebbe ancora essere adottata nel momento in cui le Camere convertiranno in legge il decreto o in qualche altro provvedimento di decretazione d’urgenza. Anche perché, diversamente da quanto previsto per il bonus statale di 100 euro, ogni aumento retributivo deciso dall’impresa rientrando nell’imponibile potrebbe spostare in avanti l’aliquota Irpef ed esporre il lavoratore a un prelievo fiscale maggiore.

Polizze assicurative per gestire il contagio

Molte imprese si stanno poi muovendo sul fronte assicurativo, attivando polizze specifiche per il contagio da Covid-19. Hanno seguito questa strada Rigoni di Asiago,  Fedon di Vallesella, il gruppo vinicolo Masi in Veneto, così come l’azienda bergamasca ABenergie e la farmaceutica Boehringer Ingelheim Italia.
Per chi si ammala di coronavirus, la copertura sanitaria attivata da Trenord prevede, oltre a un’indennità di ricovero e di convalescenza, anche l’assistenza post ricovero con invio del medico generico e di una collaboratrice familiare, servizio di baby sitting, pet sitting e consegna della spesa a domicilio.
Strumenti di questo tipo rientrano nel novero dei flexible benefit, previsti dagli articoli 51 comma 2 e 100 del Testo unico delle imposte sul reddito (Tuir). “Se l’azienda ha già un piano di welfare aziendale, stabilito con regolamento, accordo o contratto collettivo anche collegato con il premio di risultato, il datore di lavoro potrebbe implementare il paniere dei flexible benefit inserendo elementi aggiuntivi tarati sull’emergenza Covid-19”, continua il docente. “Oppure la situazione attuale potrebbe spingere i datori che non hanno attuato alcuna forma di welfare aziendale a cominciare a dotarsene”.
I benefit flessibili sono beni e servizi che possono essere pagati direttamente dal datore di lavoro o anticipati dal lavoratore e rimborsati in un momento successivo. Per il lavoratore, sono totalmente esclusi dal computo della base imponibile per l’Irpef e quindi tax free. Il datore di lavoro, invece, oltre al vantaggio di non pagare su di essi alcun contributo, potrebbe guadagnarci anche una scontistica sul pagamento dell’Ires: a seconda della modalità di erogazione, unilaterale o contrattata, dei benefit, può infatti avere una detrazione pari al 5xmille o una detrazione piena  rispetto a beni e servizi di utilità sociale che ha erogato ai suoi dipendenti.
“Rientrano nell’ambito dei servizi per finalità sociale di assistenza sanitaria tutti i check-up e le visite specialistiche. Vi rientrano, perciò, anche tutte le visite per Covid-19, inclusi anche i tamponi se fossero disponibili e i servizi di consulenza medica a distanza”. Anche altre situazioni significative sul lato sanitario sono riconducibili ad attività già fatte rientrare nei programmi di welfare aziendale di tipo sanitario, come l’assicurazione stipulata in caso di positività a Covid-19 e le cure mediche successive.
“Si tratta di polizze abbastanza consistenti”, spiega il docente. “Richiedono non meno di 200-300 euro a persona, cifre non indifferenti se applicate a una popolazione aziendale numerosa”. Anche l’assistenza psicologica può rientrare tra le misure di welfare adottate dalle imprese: gruppi e sportelli di ascolto in grado di dare sostegno ai lavoratori costretti in casa da soli, con familiari ammalati o che hanno avuto lutti in famiglia, ma anche a quanti vivono lo stress di dover continuare a lavorare in azienda.

Baby sitting, istruzione e cultura

Sul fronte dei servizi di assistenza, il Legislatore ha previsto un bonus baby sitter di 600 euro per far fronte alle esigenze delle famiglie in queste settimane di chiusura delle scuole. Anche questa è un’area in cui il welfare aziendale può dare grande sostegno, attraverso le misure che rientrano nell’ambito di iniziative di educazione, istruzione e assistenza familiare, rivolte a bambini, anziani, persone disabili o non autosufficienti.
“In questo periodo è importante che il datore che ha già attivato un piano welfare abbia scelto strutture valide alle quali appoggiarsi, agenzie di primo livello che mettano a disposizione risorse competenti”, sottolinea Bacchini. “Spesso purtroppo le piattaforme gestiscono poco i servizi di assistenza, cura ed educazione, concentrandosi più su beni commerciali quali buoni spesa, buoni carburante, carte telefoniche prepagate e biglietteria varia, facendo del welfare aziendale una grande piattaforma di ecommerce”.
Pur potendo godere del voucher di 600 euro o di bonus messi a disposizione dall’impresa, servizi di utilità sociale davvero validi sono sempre più difficili da reperire oggi, se non si fa affidamento su una struttura già collaudata. Il datore di lavoro potrebbe, invece, utilmente fornire ai suoi dipendenti tutta una serie di servizi fondati sulla cultura: buoni per l’acquisto di audiolibri o di musica e accesso ai musei che hanno attivato viaggi virtuali nelle proprie sale. “Tutto quello che si può offrire per dare sollievo ai lavoratori è possibile grazie ai servizi di educazione e istruzione supportati dalla tecnologia”, continua il professore.
“In questo momento le categorie più esposte sono quelle che hanno un contatto necessario con il pubblico: andrebbero supportate con premi in denaro e servizi di welfare”, conclude l’esperto. “Tutte le professioni sanitarie e le forze dell’ordine, chi sta alle casse nei supermercati, ma anche chi svolge attività di pulizia, igienizzazione e sanificazione, così come chi si occupa di manutenzione, istallazione e trasporto. Queste ultime spesso sono realtà minori – piccole imprese, artigiani, padroncini – ma hanno datori di lavoro o committenti che potrebbero valutare un intervento di tipo solidaristico, offrendo beni e servizi nell’ambito dei processi di welfare aziendale che si stanno rivelando molto utili per tanti lavoratori”.
Qui l’articolo in formato pdf.
 

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PRODUTTIVITÀ E CONTRATTAZIONE DI SECONDO LIVELLO: LA DISCIPLINA DEI PREMI DI RISULTATO

Di seguito l’bstract dell’approfondimento a firma del Prof. Francesco Bacchini, pubblicato sul numero di Marzo di DDP (Direzione Del Personale), il trimestrale di infomazione e cultura dei AIDP, l’Associazione italiana per la direzione del personale.

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“Al fine di ridurre il deficit strutturale che condiziona inevitabilmente la crescita del Sistema-Paese e con essa la tenuta del welfare state, fonte di disuguaglianze e disagio sociale, di alleggerire il carico fiscale per sostenere il reddito e, conseguentemente, i consumi delle famiglie (dei lavoratori), fornendo, contemporaneamente, impulso alla competitività delle aziende, con la L. n. 208 del 2015 (Legge di stabilità per l’anno 2016) e la L. n. 232 del 2016 (Legge di bilancio per l’anno 2017) il legislatore reintroduce, questa volta a titolo definitivo rispetto alla provvisorietà del passato, la tassazione agevolata dei premi di risultato (e non, per precisa scelta normativa, come avveniva in passato, del “salario o retribuzione di produttività”).
Si tratta di quei premi, affidati obbligatoriamente alla determinazione della contrattazione collettiva di secondo livello, volti a limitare la rigidità salariale, incrementare il trattamento economico dei lavoratori in base a logiche diverse dalla retribuzione ordinaria (costituzionalmente proporzionale e sufficiente), permettendo alle imprese di assegnare quote di produttività nel salario, rendere disponibile maggiore ricchezza nei periodi di trend positivo e valorizzare in questo modo l’apporto dei collaboratori, fidelizzandoli e coinvolgendoli nelle performance dell’impresa.
[omissis]
L’articolo completo è qui disponibile in versione pdf.

Il “pasticciaccio” del licenziamento da Covid-19 – L’editoriale del Prof. Bacchini per IPSOA

Di seguito l’articolo a firma del Prof. Francesco Bacchini pubblicato da IPSOA per il Dossier Coronavirus che approfondisce il tema dei licenziamenti legati alla questione epidemiologica.

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Il decreto Cura Italia prevede, a partire dal 17 marzo 2020 (data della sua entrata in vigore) e per i successivi 60 giorni, e cioè fino al 15 maggio 2020 compreso, che il datore di lavoro non possa avviare nuove procedure di licenziamento collettivo e sospende quelle pendenti e avviate dopo il 23 febbraio 2020. Dispone anche che il datore di lavoro, a prescindere dal numero dei dipendenti in forza, non possa effettuare alcun licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Da un’approfondita lettura della norma emerge, però, qualche incongruenza che rischia di generare facili incomprensioni.

Stiamo assistendo, ormai da alcune settimane, a una fitta decretazione sedicente antivirale. Compito non facile, beninteso. I provvedimenti si susseguono a ritmo incalzante, fonti normative (decreti legge) e atti amministrativi (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, Decreti Ministeriali e Ordinanze contingibili ed urgenti di Governatori e Sindaci) dispongono, con scadenze temporali brevi e diverse, sulle stesse fattispecie, sovrapponendosi senza evidenti gerarchie, tanto da rendere necessario un decreto ad hoc per stabilire i reciproci confini normativi (D.L. n. 19/2020). Nondimeno, per le conseguenze pratiche che le nuove disposizioni producono, era lecito confidare in una ben superiore qualità redazionale.
 
E non ci riferiamo solo a qualche zoppia linguistica di troppo e ad una semantica talvolta ambigua, a difetti nel coordinamento o nei richiami normativi, quanto piuttosto a veri e propri passi “falsi o errori giuridici” come ad esempio nel caso della rubrica dell’art. 46 del D.L. n. 18/2020: “Sospensione dei termini per l’impugnazione del licenziamento”, del tutto incongruente rispetto al suo contenuto che riguarda il divieto o la sospensione delle procedure di licenziamento economico-organizzativo e non già l’impugnazione della misura espulsiva.
 
Ciò premesso e impregiudicata la massima giuridica “Rubrica legis non est lex”, non resta che addentrarci nell’analisi del provvedimento.
Il precetto sancisce che, “A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto l’avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24, della legge 23 luglio 1991, n. 223 è precluso per 60 giorni e nel medesimo periodo sono sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020. Sino alla scadenza del suddetto termine, il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604”.
In via di estrema sintesi la norma può essere così schematizzata: a partire dalla data di entrata in vigore del Decreto, ossia il 17 marzo 2020 (così come sancito ex art. 127) e per i successivi 60 giorni e cioè, fino al 15 maggio 2020 compreso:
a. il datore di lavoro non può avviare nuove procedure di licenziamento collettivo;
b. sono sospese le procedure di licenziamento collettivo pendenti e avviate dopo il 23 febbraio 2020;
c. a prescindere dal numero dei dipendenti in forza, il datore di lavoro non può effettuare alcun licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
 
Da una prima lettura, è possibile individuare alcuni spunti di riflessione, distinguendo l’impatto della norma emergenziale, sulla disciplina dei licenziamenti collettivi e su quella dei licenziamenti individuali.
Il riferimento agli artt. 4, 5 e 24 della legge n. 223/1991 riguarda:
· il licenziamento collettivo dei lavoratori sospesi a seguito dell’ammissione dell’impresa al trattamento straordinario di integrazione salariale, nel caso in cui nel corso di attuazione del programma di ristrutturazione, riorganizzazione o conversione aziendale, essa non sia in grado di garantire il reimpiego a tutti e di non poter ricorrere a misure alternative (ex mobilità);
· il licenziamento collettivo per riduzione del personale (da parte di datori di lavoro che occupano più di 15 dipendenti, compresi i dirigenti, e che, in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, intendano effettuare almeno 5 licenziamenti, nell’arco di centoventi giorni).
Il primo dubbio interpretativo emerge in ordine alla disciplina applicabile alle procedure di licenziamento collettivo avviate prima del 23 febbraio, in ragione di circostanze del tutto avulse dall’emergenza sanitaria in corso (ad esempio, per la decisione datoriale di cessare l’attività e disporre la chiusura aziendale).
 
Interpretando la norma alla luce del suo tenore letterale e della ratio sottesa al decreto legge in commento, ossia contrastare gli effetti economico-occupazionali del COVID-19, è ragionevole ritenere che nelle ipotesi di cui sopra non si dovrebbe determinare alcuna sospensione della procedura e dei possibili conseguenti licenziamenti.
Tali procedure, infatti, poiché avviate prima del 23 febbraio 2020, data che farebbe operare una sorta di presunzione, “in re ipsa”, del collegamento con l’emergenza sanitaria in corso, possono reputarsi estranee all’emergenza sanitaria che il Decreto vuole contrastare.
 
Non pare, pertanto, che alle procedure collettive anteriori la fatidica data dell’epifania virale, ma, a quella stessa data, non ancora sfociate nel licenziamento, si possa estendere il divieto di recesso previsto sub c), il quale, invece, sembra applicabile, come si dirà in seguito, ai soli licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo (ma, ovviamente, non per giustificato motivo soggettivo) e ciò anche in virtù dell’espresso richiamo all’art. 3, ultima parte, della legge n 604/1966, che per l’appunto detta la disciplina di questi ultimi.
 
Anche per quanto riguarda l’effettiva portata del “divieto di recesso” sub c), le perplessità non mancano.
È, infatti, possibile ritenere, come sopra accennato, che tale proibizione sia riferibile ai soli licenziamenti individuali, e ciò sia perché essa segue la disciplina espressamente dettata per i licenziamenti collettivi, sia perché, come appena rilevato, richiama espressamente l’art. 3 della legge n 604/1966, la quale, all’art. 11, sancisce che la materia dei licenziamenti collettivi per riduzione di personale è esclusa dalle disposizioni in essa contenute.
 
Pare dunque che tale norma debba intendersi nel senso che al datore di lavoro è fatto divieto, tra il 17 marzo 2020 e il 16 maggio 2020:
· sia di avviare nuove procedure di licenziamento individuale per g.m.o.;
· sia di concludere le procedure di licenziamento individuale per g.m.o. pendenti alla data del 17 marzo 2020.
Tale affermazione discende dall’interpretazione letterale della disposizione, la quale impone, tout court, un “divieto di recesso” per g. m. o. valido in generale, senza che possano essere operate distinzioni tra le procedure di licenziamento individuale da avviare e quelle già in corso, entrambe da ritenersi parimenti precluse.
 
Di particolare interesse appare l’applicabilità o meno dell’art. 46 del D.L. n. 18/2020 anche al licenziamento del dirigente.
Sul punto meritano di essere svolte due distinte analisi in relazione ai licenziamenti collettivi e ai licenziamenti individuali.
Con riferimento ai licenziamenti collettivi non sembra occorrano particolari approfondimenti, sicché, di conseguenza, tra il 17 marzo e il 16 maggio 2020, i dirigenti (senza alcuna distinzione), al pari di tutti gli altri lavoratori, non potranno essere coinvolti in procedure di licenziamento collettivo, nel senso, rispettivamente, del divieto di avvio di nuove procedure e della sospensione di quelle pendenti e avviate dopo il 23 febbraio 2020.
 
Un ragionamento necessariamente diverso si profila, invece, in relazione all’ipotesi di licenziamento individuale del dirigente.
 
A tal proposito, anche alla luce della consolidata giurisprudenza sull’argomento, il “divieto di recesso” nei confronti del dirigente appare a prima vista riconducibile e due distinte ipotesi:
· la prima ipotesi induce a ritenerlo inapplicabile ai dirigenti “apicali”, che pertanto potrebbero essere licenziati secondo la nozione di giustificatezza e ciò in quanto godono delle tutele contrattuali ma non di quelle della L. n. 604/1966, espressamente richiamata nella norma in commento;
· la seconda ipotesi, viceversa, induce a ritenerlo applicabile nei confronti dei dirigenti “non apicali”, i “pseudo-dirigenti”, e ciò in quanto destinatari, per consolidata giurisprudenza, delle tutele della L. n. 604/1966.
 
Il divieto di licenziamento di cui all’art. 46 del D.L. n. 18/2020, si riconduce, nonostante la temporaneità del precetto, all’interno delle ipotesi di nullità del licenziamento previste dalla legge (art. 1418, commi 1 o 3 c.c. e non per frode alla legge ai sensi degli artt. 1343 e 1418, comma 2 c.c.) o nelle quali il licenziamento è intimato per un motivo illecito determinante (ex art. 1345 c.c.).
Anche nel caso del divieto di licenziamento in esame, che potremmo definire da Covid-19, si applicherà, ex art. 18, comma 1, St. Lav. (licenziamento riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 c.c.) nonché ex art. 2, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 (licenziamento riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge), la reintegrazione nel posto di lavoro oltre all’indennità risarcitoria piena a prescindere dal numero di dipendenti occupati dal datore di lavoro.
 
In conclusione, non può evitarsi di ricordare che, pur non essendo espressamente affermata quale ulteriore ipotesi vietata di licenziamento individuale per g.m.o. di cui all’art. 46 del D.L. n. 18/2020, anche il licenziamento per superamento del periodo di comporto che avvenisse conteggiando la malattia o la quarantena equiparata a malattia per Covid-19, risulterebbe affetto da nullità e ciò in quanto, secondo la lettera dell’articolo 26, comma 1, del D.L. n. 18/2020, tale malattia (o equiparazione ad essa) è riconducibile, evidentemente anche in ragione della straordinarietà dell’emergenza patologica, a cause che consentono l’esclusione delle assenze di malattia dal periodo di comporto, come, ad esempio, l’infortunio sul lavoro (ricordiamo, in tal senso, che l’art. 42, comma 2 del D.L. n. 18/2020, stabilisce che nei casi accertati di infezione da coronavirus contratta in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato) o le gravi patologie previste dal CCNL.
 
E’ possibile ritenere, in conclusione, che se il divieto di licenziamento oggettivo-economico non verrà reiterato, cosa che si ritiene più che probabile, dal 16 maggio si assisterà, purtroppo, ad una lunga serie di licenziamenti per g.m.o., soprattutto nei settori produttivi più esposti alla crisi economica determinata dall’emergenza Covid-19, ossia quelli che da più tempo sono impossibilitati a produrre e vendere i propri beni e servizi.
 
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Lavoro agile? No, “di crisi”. Cercasi regole – Giulietta Bergamaschi su L’Economia del Corriere della sera

Giulietta Bergamaschi, managing partner di Lexellent, tra i professionisti apicali sentiti nel focus pubblicato da L’Economia del Corriere della Sera dal titolo “Smart working: come cambierà dopo l’emergenza

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[omissis]
Una modalità di lavoro “di crisi”, piuttosto che lo smart working o lavoro agile così come lo avevamo inteso fino ad ora. Così definisce il momento che stanno vivendo le aziende l’avvocato Giulietta Bergamaschi, manging partner di Lexellent. “Il lavoro agile, proprio in coerenza con la sua principale caratteristica e cioè la flessibilità, doveva e deve rispondere ad alcuni precisi criteri previsti dalla norma stessa, come l’accordo individuale fra lavoratore e datore di lavoro. La situazione di emergenza ha invece fatto si che, laddove tali accordi individuali non fossero stati sottoscritti in precedenza, si trovasse un modo che consentisse alle parti di ricorrere al lavoro da remoto nel minor tempo possibile e con poche formalità”. È stato da subitochiaro che il ricorso al lavoro agile era consentito anche in assenza di un accordo individuale, promuovendone cioè il massimo utilizzo in forma semplificata, con l’informativa sicurezza dell’ Inail. Proprio per questo le imprese oggi riscontrano problemi organizzativi e non normativi. Ad esempio – aggiunge la legale – “la protezione del patrimonio immateriale dell’azienda che transita su sistemi informatici non adatti a garantirlo, andrebbe affrontato quanto prima con apposite policy”. Un altro tema fondamentale è legato alle modalità con cui i lavoratori agili nell’emergenza affrontano la loro attività lavorativa. Per evitare che il lavoro agile continuativo si trasformi in stress alcune aziende hanno inserito dei consigli nel decalogo dei lavoratori agili dell’emergenza: “fare brevi pause nel corso della giornata, rispettare gli orari di lavoro dell’ufficio evitando di prolungare la presenza al computer ed una eccessiva connessione agli strumenti informatici aziendali”. Altre ancora hanno invece messo a disposizione dei propri dipendenti servizi da remoto per passare piacevoli momenti di distrazione: suggerimenti di letture, film, corsi di yoga, momenti di meditazione o di supporto psicologico.
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