LA FLESSIBILIZZAZIONE IN USCITA

Una vera soluzione?

Il Disegno di Legge presentato lo scorso 5 Aprile, ha apportato modifiche all’art. 18 con l’intento di flessibilizzare il rapporto di lavoro in uscita e migliorare la competitività delle imprese del nostro paese.
Tuttavia per poter avere un quadro della situazione realistico bisogna prendere in considerazione i dati pubblicati dall’OCSE, riferiti alla Strictness of employment relationship, cioè al grado di rigidità in uscita dal lavoro.
Da questi dati (http//:stats.oecd.org/Index.aspx) emerge che in Italia il grado di rigidità di uscita dal lavoro era molto più basso, già prima della proposta di riforma del diritto del laovor, rispetto ad altri paesi europei: in particolare su una scala da 0 (massima flessibilità) a 6 (massima rigidità) la rigidità in uscita italiana è stata valutata con un voto pari ad 1,89, in Germania 2,12, in Belgio 2,18, in Spagna 2,98 ed in Francia 3,05. Solo l’Inghilterra (0,75) e la Danimarca (1,5) hanno ottenuto voti più bassi, corrispondenti ad una flessibilità in uscita maggiore.
Peraltro, in Italia ad una flessibilità piuttosto alta in uscita dal mercato del lavoro, soprattutto se confrontata con quella di altri paesi europei, corrisponde un tasso di occupazione molto più basso degli stessi paesi.
Infatti, dando una lettura ai dati dell’occupazione nel 2011, l’Italia si attesta nella posizione più bassa con un tasso di occupazione pari a 57,9%, mentre paesi nei quali si è rilevato un tasso di rigidità più alto, come la Francia ed il Belgio, il tasso di occupazione si attesta al 63% e al 64%. Vi è poi la Danimarca che nel 2011 aveva un tasso di occupazione pari al 77.2%, la Germania con un tasso del 76.3%, la Gran Bretagna con il 70.5% e la Spagna che si attesta al 59.1%.
Inoltre, in Italia, tra gli anni ’90 ed il 2008 si è assistito ad un aumento della flessibilizzazione: si è, infatti, passati da una grado di rigidità di 3,75 nel 1991 ad uno di 1,98 (nel 2008). Ciononostante il tasso di occupazione è passato dal 53,3% negli anni ’90 al 57,9% nel 2011: ad una notevole flessibilizzazione in uscita dal mercato del lavoro non è, quindi, corrisposto un altrettanto notevole aumento dell’occupazione.
Ma vi è di più. Dal 2007 al 2010 il tasso di disoccupazione in Italia è salito, passando dal 6,2% del 2007 all’8,5 del 2010.
È, quindi, evidente come una maggiore flessibilità in uscita dal mercato del lavoro non comporti necessariamente, e l’Italia ne è una prova, un aumento proporzionale dell’occupazione.

QUATTRO GRADI DI GIUDIZIO PER IL NUOVO RITO DEL LAVORO IN TEMA DI LICENZIAMENTI

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Quattro gradi di giudizio per il nuovo rito del lavoro in tema di licenziamenti.

Fra le novità contenute nel DdL di riforma del mercato del lavoro, trova conferma l’annunciata introduzione di un rito speciale per l’impugnazione dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dal nuovo art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Questa forma di tutela urgente (artt. da 16 a 20 del DdL) si articolerà in quattro gradi di giudizio: il primo, che sembrerebbe presentare le caratteristiche di urgenza e celerità dell’attuale procedimento ex art. 700 c.p.c., si introduce con ricorso e viene deciso con un’ordinanza. Avverso tale ordinanza, di accoglimento o di rigetto, potrà essere proposta opposizione con un ricorso ordinario. Tale fase del procedimento di impugnazione del licenziamento, instaurabile entro trenta giorni dalla comunicazione del provvedimento opposto ovvero dalla sua notificazione, sembra svolgersi secondo l’attuale rito ordinario previsto dal codice di procedura civile e si conclude con la pronuncia di una sentenza. Avverso tale sentenza è ammesso proporre reclamo davanti alla Corte d’Appello, anche in questo caso entro un termine ridotto rispetto ai termini ordinari previsti dal c.p.c. per l’impugnazione di una sentenza di primo grado; anche in appello il termine di trenta giorni per proporre l’impugnazione decorre o dalla comunicazione di cancelleria del provvedimento da impugnare o dalla notificazione se antecedente. Questa riduzione dei termini dovrebbe garantire una maggiore celerità dei processi e l’ottenimento di una pronuncia di legittimità o meno del licenziamento in tempi ragionevoli, anche se l’attuale calendarizzazione delle udienze nelle Corti di Appello potrebbe essere un serio ostacolo al raggiungimento degli obiettivi della riforma. Ovviamente, avverso la pronuncia della Corte d’Appello è ammesso il ricorso per Cassazione, sempre nel rispetto di termini che dovrebbero assicurare la speditezza del processo. Sembra quindi che sarà richiesto un maggior impegno agli avvocati giuslavoristi ed ai giudici delle sezioni lavoro.