La maggior parte degli ordinamenti europei, così come il nostro, ha riservato ai disabili forme specifiche di “protezione sociale” (i.e. quote riservate nelle assunzioni, sostegni monetari, servizi di assistenza e cura) sul presupposto che la condizione di disabilità/diversità non fosse superabile.
Il nuovo diritto antidiscriminatorio europeo in materia di occupazione e condizioni di lavoro oggetto della Direttiva 2000/78/CE si è posto, invece, in termini di discontinuità con questo filone legislativo, introducendo l’obbligo per il datore di lavoro di adottare “soluzioni ragionevoli” che modifichino il luogo, l’organizzazione e le condizioni di lavoro delle persone disabili allo scopo di includerli nell’ambiente lavorativo e di consentire loro di partecipare pienamente alla vita della comunità aziendale.
Il recepimento della Direttiva con il D.lgs. n. 216/2003, inizialmente incompleto per omessa inclusione proprio della disposizione in tema di “soluzioni ragionevoli per i disabili” (art. 5), ha portato, nel 2013, la Corte di Giustizia UE a condannare il nostro Paese per non corretta “trasposizione” sulla base del presupposto che la legislazione nazionale “non impone all’insieme dei datori di lavoro l’obbligo di adottare, ove ne sia la necessità, provvedimenti efficaci e pratici, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, a favore di tutti i disabili, che riguardino i diversi aspetti dell’occupazione e delle condizioni di lavoro, al fine di consentire a tali persone di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione” (CGUE, IV Sez., 04/07/2013, C-312/11).
Al fine di ottemperare alla sentenza della CGUE il legislatore nazionale ha introdotto il co. 3-bis all’art. 3 del D.lgs. n. 216/2003, attraverso il D.L. n. 78/2013 conv. in L. n. 99/2013, con cui si prevede che: “Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori (…)”.
Sul punto, del resto, anche la giurisprudenza di legittimità, relativamente a fatti anteriori alla detta integrazione, affermava già che il corretto inserimento della persona disabile nella struttura aziendale fosse possibile grazie ad un’interpretazione della normativa applicabile costituzionalmente orientata all’art. 3 Cost., finalizzato ad assicurare alle categorie a rischio discriminazione “uno statuto effettivo di pari opportunità di inserimento sociale, economico e politico” (Cass. civ., Sez. lav., 09/07/2015, n. 14348 ).
Alla luce del precetto di cui al co. 3-bis dell’art. 3 del D.lgs. n. 216/2003, sembra, pertanto, possibile affermare che, a fronte della disabilità (di lunga durata) sopravvenuta per motivi di salute (non derivanti dall’inadempimento degli obblighi di prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali) tale da ostacolare la piena ed effettiva partecipazione alla vita lavorativa della persona su basi di eguaglianza con gli altri prestatori, il datore risulti vincolato ad attuare “accomodamenti ragionevoli” sia di tipo organizzativo (es. la modificazione delle mansioni o dell’orario) che tecnico (es. il superamento delle barriere architettoniche o l’uso di determinati mezzi o strumenti di lavoro). L’unico limite che si rinviene rispetto a tale obbligo è la comprovata sproporzione degli oneri finanziari necessari per realizzare gli accomodamenti (ir)ragionevoli (secondo la Direttiva 78/2000/CE la soluzione non è sproporzionata allorché l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili).
Si vedano, in tale contesto, alcune interessanti sentenze di merito – nella specie, Trib. Milano, sent. 11/02/2013 e Trib. Bologna ord. 18/06/2013 – secondo cui la malattia di lunga durata e non transitoria con attitudine ad incidere ed ostacolare la vita professionale per un lungo periodo deve ritenersi rientrare nella nozione di handicap ovvero di disabilità (cfr. anche CGUE, II Sez., 11/04/2013, C-335/11 e C-337/11).
In quest’ottica risulta, pertanto, fondamentale una lettura combinata del nuovo art. 2103 c.c. e dell’art. 42 del D.lgs. n. 81/2008, in particolare per quanto riguarda i giudizi di inidoneità permanente alla mansione di lavoro precedentemente svolta, formulati dal medico competente, in relazione sia alla disciplina del trasferimento a mansioni diverse, anche inferiori, che a modalità diverse di svolgimento della stessa mansione, siccome compatibili con l’accertata disabilità.
L’adempimento dell’obbligo di predisporre ragionevoli adattamenti condiziona, infatti, il potere di recesso del datore di lavoro, il quale potrà legittimamente licenziare il lavoratore a fronte della comprovata inidoneità sopravvenuta alla mansione per motivi di salute (i.e. condizione patologica di carattere duraturo e non temporaneo che determini una limitazione, un ostacolo alla piena ed effettiva partecipazione alla vita professionale in condizione di eguaglianza con gli altri lavoratori) solo dopo aver adottato tutte le soluzioni possibili, vale a dire tutti gli “accomodamenti ragionevoli” prescritti dall’art. 3, co. 3-bis, del D.lgs. n. 216/2003, oppure dopo aver dimostrato l’inesistenza o l’irragionevolezza (se esistenti) degli adattamenti per comprovata sproporzione degli oneri finanziari necessari per realizzarli.
A conferma di tale lettura si veda Trib. Pisa, 16/04/2015 nella quale il giudice di prime cure afferma che, qualora il datore di lavoro non provi di aver adottato ragionevoli accorgimenti per garantire alle persone con disabilità di conservare la propria posizione lavorativa, è da ritenere ingiustificato per violazione del principio di non discriminazione il licenziamento irrogato ad una lavoratrice disabile per sopravvenuta inidoneità psico-fisica allo svolgimento delle mansioni (vedi anche CGUE, Grande Sez., 11/07/2006, C-13/05).
E’, infatti, nullo il licenziamento per ragione esclusiva di discriminazione da handicap sulla scorta dell’affermazione apodittica che la condizione d’invalidità del lavoratore abbia impedito di rendere proficuamente la prestazione, senza alcun accertamento medico al riguardo e senza la prova di effettive disfunzioni nello svolgimento dei compiti di pertinenza (Cass. civ., Sez. lav., 26/04/2016, n. 8248).