L’ascesa dello smart working è destinata ad una battuta d’arresto una volta finita l’emergenza Coronavirus? A oggi non è possibile fare previsioni. Una cosa è certa però: una volta tornati nei tradizionali luoghi deputati al lavoro – uffici, fabbriche, studi professionali, laboratori, negozi, ecc. – il lavoro agile deve (ri)trovare una dimensione normativa unitaria. Ciò potrà avvenire sia superando, in particolare, la deroga, emergenziale, alla stipulazione degli accordi individuali fra datore di lavoro e lavoratori, sia, all’opposto, disciplinando ex novo il lavoro agile. Un intervento normativo auspicato anche dal Piano Colao. Riuscirà a restituire ad aziende e lavoratori lo smart working nella sua natura novitaria e flessibile?
Il lavoro agile o, com’è abitualmente chiamato, lo smart working, aggettivabile “pandemico”, continua a essere al centro sia delle attenzioni (e delle polemiche) giuspolitiche che di variegate aspettative sociali, oscillando fra chi, i c.d. “abitatori delle caverne” (ossia quelli affetti dalla c.d. sindrome della “caverna”, mutazione emergenziale e parimenti costrittiva del mito di platoniana memoria, prima, seconda o terza poco importa, bella, grande, confortevole, magari al mare o in montagna che è ancora meglio) ne propugna un uso generalizzato e sine die e chi, invece, ritiene che si debba tornare alla normalità, ossia in ufficio, in fabbrica, in studio a riprendersi la vita sociale e, in modo pregiudizialmente polemico, a lavorare sul serio.
Sulla maggiore o minore produttività del lavoro da remoto, prima e, soprattutto, durante la pandemia, si è detto e scritto tutto e il suo contrario. Certamente il fenomeno è stato strumentalmente enfatizzato, nel bene e nel male, ma sull’importanza della sua momentanea e seppur non integrale utilizzazione durante le prime fasi dell’emergenza sanitaria e poi nel corso del lockdown, possono nutrirsi ben pochi dubbi. Non così, però, può affermarsi in merito all’impianto normativo decretato dal Governo per piegare la disciplina del lavoro agile alle esigenze dell’isolamento sociale, derogando sia ai vincoli e alle regole sancite nell’accordo individuale che all’informativa (e alla valutazione dei rischi) in materia di sicurezza del lavoro.
L’irresistibile odierna ascesa dello smart working, che molti vorrebbero (surrettiziamente) stabilizzare, è infatti insita nella sua impropria funzione di comoda misura segregativa anti-contagio (per così dire a costo zero) applicabile a diversi milioni di lavoratori.
Tale misura, invero mai imposta (tranne che nel pubblico impiego) sebbene fortemente raccomandata, pur avendo permesso la parziale continuità operativa di molti processi produttivi e una piena stabilità retributiva per i prestatori che hanno potuto utilizzarla, non discende da scelte pianificate e stabili esigenze organizzative aziendali, bensì dalla pragmatica necessità di lavorare permanentemente da casa durante il lockdown, necessità che è già venuta meno e, auspicabilmente, sarà completamente superata nei prossimi mesi.
Pertanto, perdurando o terminando l’emergenza sanitaria dopo il 31 luglio o, indipendentemente da questa, arrivando la disciplina speciale fino al 31 dicembre 2020, lo smart working “pandemico” necessita ormai di un sistematico e non rinviabile intervento normativo. Infatti, tanto nel caso in cui, seguitando il rischio sanitario, si imponga una normale anormalità con necessaria transizione verso nuovi paradigmi di lavoro incentrati sulla progressiva e stabile remotizzazione della prestazione, quanto in quello, decisamente preferibile, nel quale, finita l’emergenza, il lavoro torni a essere reso nei tradizionali luoghi ad esso deputati, uffici, fabbriche, studi professionali, laboratori, negozi, ecc., il lavoro agile deve (ri)trovare una dimensione normativa unitaria e durevole.
Ciò potrà avvenire sia restituendo all’ordinamento giuslavoristico l’originaria disciplina di cui al titolo II della l. n. 81/2017, superando, in particolare, la deroga, emergenziale, alla stipulazione degli accordi individuali fra datore di lavoro e lavoratori, sia, all’opposto, disciplinando ex novo la fattispecie, ormai irrimediabilmente ibridata da svariati e confusi precetti estemporanei aventi finalità preventivo-protettive e surrogative di servizi e prestazioni di natura pubblicistica non più universalmente garantibili (che, ovviamente non gli competono), avendo cura, però, di non appesantire l’istituto imponendone il ricorso “di diritto” ed evitandone la forzata sindacalizzazione che, come avvenuto per il telelavoro, finirebbe per rappresentarne il sicuro fallimento.
Tutto quanto senza tralasciare il fatto che la produttività del lavoro agile, tanto evocata in tempi di Covid-19, necessiterebbe quanto meno di puntuali e argomentate verifiche, giacché il dubbio che per molti lavoratori l’attività prestata, in modo improvvisato, in smart working, tanto nel pubblico quanto nel privato, sia stata finalizzata principalmente ad attendere agli impegni domestici e familiari adattando a questi il lavoro (comunque pagato al 100%), è, probabilmente a torto, difficile da fugare.
Ciò nonostante, prescindendo dal futuro assetto dell’istituto (che giocoforza dovrà necessariamente affrontare anche la questione del quantum salariale che tenga conto della circostanza che la prestazione è resa da casa così come la faccenda di chi sopporti i costi tecnici imprescindibili per rendere possibile la prestazione da remoto, come ad es. quelli della connessione internet), ai sensi dell’art. 1, lett. ll)-a), D.P.C.M. 11 giugno 2020, per le attività professionali, il lavoro agile continua ad essere la modalità di attuazione raccomandata e anche il Protocollo Governo – Parti sociali del 24 aprile (allegato 12 del decreto) ne suggerisce ancora il ricorso quale misura di contrasto e di contenimento della diffusione del virus Covid-19.
Anzi, in forza dell’art. 90 del D.L. 34/2020, fino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica da Covid-19, il lavoro agile parrebbe evolvere da modalità concordata di prestazione lavorativa subordinata da eseguirsi parzialmente a distanza, in diritto soggettivo per tutti i genitori lavoratori dipendenti del settore privato i quali hanno almeno un figlio minore di anni 14 (l’art. 39 del D.L. n. 18/2020, convertito con modificazioni dalla l. n. 27/2020 e modificato sempre dal D. L. n. 34/2020, ha previsto un diritto similare per i lavoratori disabili o affetti da gravi e comprovate patologie con ridotta capacità lavorativa o immunodepressi e per i familiari conviventi di persone immunodepresse), sebbene a condizione che nel nucleo familiare non vi sia altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa o che non vi sia genitore non lavoratore e, da ultimo, a patto che lo smart working risulti compatibile con le caratteristiche della prestazione da eseguire.
In attesa, dunque, dell’intervento normativo auspicato anche dal “piano Colao” che, invero alquanto genericamente, suggerisce di “puntare alla definizione di una disciplina legislativa dello smart working per tutti i settori, le attività e i ruoli (manageriali e apicali inclusi) compatibili, con attenzione alla pari fruibilità per uomini e donne, che lo qualifichi come opzione praticabile per aziende e lavoratori, in particolare nell’ottica della creazione di nuova impresa e/o nuovi posti di lavoro”, risulta inevitabile, de iure condito, analizzare attentamente in particolare la disciplina del richiamato art. 90 del D.L. n. 34.
Come anticipato tale norma sancisce il diritto, relativo in quanto condizionato a specifiche situazioni giuridiche e fattuali, del lavoratore genitore di figlio/i di età minore/i di 14 anni, di svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile anche in assenza degli accordi individuali, sempreché, ovviamente, tale modalità sia compatibile con le caratteristiche dell’attività lavorativa. La questione che merita di essere indagata è se il datore di lavoro sia obbligato, fino al 31 luglio 2020, a concedere il lavoro agile per l’intero orario normale settimanale a chiunque abbia un figlio infra quattordicenne, oppure se possa negarlo almeno parzialmente. Si deve innanzitutto rilevare che, come abbiamo già avuto modo di vedere, pur essendo raccomandato il massimo utilizzo della modalità di lavoro agile per tutte le attività che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza, il lavoro agile non è mai stato reso obbligatorio dalla decretazione emergenziale quale misura di sicurezza e salute e la sua utilizzazione non può certo essere pretesa e, laddove mancante o parziale, neppure contestata dagli organi di vigilanza e controllo pubblici. Muovendoci all’interno di questo perimetro normativo, è possibile ritenere che il ricorso al lavoro agile da parte del datore di lavoro resti, dunque, una facoltà e non un obbligo giuridico. E ciò anche nel caso di cui all’art. 90 comma 1 del D.L. Rilancio; infatti, interpretando due passaggi della disposizione tutt’altro che perentori: il primo rappresentato dalla locuzione “anche in assenza degli accordi individuali”, il secondo dalla locuzione “a condizione che tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione”, in modo conforme della ratio alla disciplina del lavoro agile, è possibile affermare che il diritto di cui si tratta sconti due limiti rappresentati, il primo dagli eventuali accordi individuali attuativi delle policy aziendali sul lavoro agile tutt’ora vigenti (anche in assenza degli accordi individuali non significa affatto che detti accordi siano vietati), il secondo dalla compatibilità della modalità di lavoro agile con le caratteristiche della prestazione le quali ben possono essere decise dal datore di lavoro, ad esempio, fissando un limite di alternanza di ogni team impiegatizio in modo che non sia mai presente in azienda oltre il 50% dell’organico). Pare, dunque, sostenibile che il diritto al lavoro agile previsto dall’art. 90, co. 1 non sia incondizionato o assoluto, bensì debba essere esercitato all’interno dell’accordo individuale, beninteso se tale accordo esiste, o nei limiti di compatibilità con le caratteristiche della prestazione decise dal datore di lavoro.
Del resto, come sottolineato anche dall’inciso di cui al comma 4, si riscontra una netta differenziazione fra l’uso emergenziale del lavoro agile consentito ai datori di lavoro privati e quello imposto ai datori di lavoro pubblici.
Infatti, mentre nei confronti di questi ultimi, ossia delle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001, l’art. 87, comma 1, del D.L. Cura Italia, afferma che “il lavoro agile è la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa”, sancendo un vero e proprio diritto soggettivo e (quasi) assoluto del pubblico dipendente a lavorare da remoto, nei confronti dei datori di lavoro privati il lavoro agile rappresenta invece una scelta organizzativa, di sicuro fortemente raccomandata, eppure mai imposta per legge, e ciò, a ben vedere, nonostante la previsione normativa di un diritto, nemmeno nel caso dei lavoratori disabili, affetti da gravi e comprovate patologie con ridotta capacità lavorativa (per i quali è riconosciuta soltanto la priorità nell’accoglimento delle istanze di svolgimento delle prestazioni lavorative in modalità agile) o con figli minori di 14 anni.
Nell’analisi della disciplina emergenziale del lavoro agile, merita altresì considerazione l’introduzione, sempre nell’art. 90 del D.L. Rilancio, della possibilità, come già previsto per i dipendenti pubblici, anche per i lavoratori del settore privato, che la prestazione di lavoro agile venga svolta “attraverso strumenti informatici nella disponibilità del dipendente qualora non siano forniti dal datore di lavoro”. Benché, per la verità, nella L. n. 81/2017 non si riscontri un espresso obbligo di assegnazione al lavoratore degli strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa agile da parte del datore di lavoro, risultando, pertanto, astrattamente ammissibile che il lavoratore agile possa utilizzare device propri, l’innovazione normativa risulta, comunque, piuttosto significativa. Infatti, se da una parte tale provvedimento avalla prassi aziendali la cui legittimità era prima quantomeno dubbia, dall’altra deve sensibilizzare i datori di lavoro sui molteplici rischi derivanti dalla connessione di dispositivi elettronici privati a server aziendali che custodiscono informazioni commerciali di inestimabile valore, oltre a dati personali del cui eventuale breach l’imprenditore risponde ai sensi del GDPR e della disciplina sulla privacy. Se, dunque, è legittimo far svolgere il lavoro agile tramite PC e connessioni telematiche di proprietà dei dipendenti, al tempo stesso è bene che ciò avvenga solo dopo aver messo in sicurezza tali dispositivi con l’installazione di firewall, antivirus, ecc.: o previa loro consegna all’amministratore di sistema dell’azienda, o anche, eventualmente, con apposito accesso concordato presso il domicilio del dipendente. Altrettanto consigliabile è l’implementazione di apposite policy comportamentali, a presidio sia della cyber-sicurezza, sia della segretezza dei dati aziendali.