Immagine aziendale e libertà individuale: come renderle coerenti.

La definizione di immagine è abbastanza semplice: “Un’immagine è una rappresentazione visiva, non solida, della realtà. In particolare un’immagine può rappresentare la realtà fisica oppure una realtà fittizia  o astratta.[(Wikipedia)
Quella di Wikipedia è una definizione corretta, ma che potremmo definire analogica in quello che ormai è un mondo digitale. Oggi il termine immagine ha assunto una valenza del tutto diversa. Nel mondo contemporaneo, fatto di social media, di Internet, di marketing, l’immagine è molto di più che una semplice rappresentazione visiva della realtà.
In realtà oggi quando un’azienda, ma anche un singolo, parla di immagine intende quello che gli anglosassoni definiscono come un “intangibile asset” e che noi chiamiamo  il “capitale intellettuale”, che per l’azienda è ”principalmente costituito da elementi (come la qualità del personale o la reputazione del marchio presso i consumatori) per i quali non sono dati metodi universalmente riconosciuti per la loro valutazione monetaria. (Wikipedia)” ma il cui valore è spesso superiore a quello dei beni materiali o finanziari.
In un contesto come questo diventa allora fondamentale capire che cosa è davvero l’immagine da un punto di vista giuridico, chi ne è titolare, chi può utilizzarla.
Se non si risponde a queste domande fondamentali non si può capire per esempio fino a che punto un datore di lavoro può imporre ai suoi dipendenti comportamenti che siano compatibili con la propria immagine, fino a che punto l’immagine del lavoratore può essere utilizzata dal datore di lavoro per accrescere il proprio capitale intellettuale o viceversa possa entrare in conflitto con i suoi interessi e cioè  svilupparsi ed estrinsecarsi liberamente anche qualora ciò possa creare nocumento all’azienda dalla quale è retribuito.
Anni fa quando si è cominciato a parlare di social network il problema per i responsabili risorse umane era quello di limitarne l’uso in quanto il loro utilizzo disturbava o pregiudicare l’attività lavorativa, di verificare quali fossero i contenuti per prevenire o reprimere linguaggi offensivi o più semplicemente sconvenienti nei confronti del datore di lavoro o dei collegi.
Oggi il problema si pone in modo del tutto diverso: la questione è quella del fino a che punto libertà di espressione del dipendente possa esprimersi quando entra in contrasto con l’immagine aziendale. Nel mondo del marketing collaborativo il ruolo dei dipendenti assume una funzione cruciale, che non può essere affrontata senza strumenti idonei e senza avere chiaro il quadro legislativo all’interno del quale ci si muove.
Un esempio può aiutare ad inquadrare il problema. Un’azienda che imposta la propria campagna marketing su valori etici quali la riduzione dei consumi energetici, o la valorizzazione della diversità, può convivere con un gruppo di propri dirigenti che faccia campagna contro la raccolta differenziata o a favore dell’uso del carbone per la produzione di energia elettrica, o ancora sia parte attiva di un movimento contro l’immigrazione o per la chiusura delle frontiere? È evidente che si tratta di una questione molto complessa nella quale entrano in gioco, da ambo le parti, valori fondamentali, apparentemente intangibili, da ma che in realtà hanno una notevole valenza economica da una parte, e morale dall’altra.
Si tratta di problemi che però devono essere affrontati in modo cosciente e fin dall’inizio, e le parti del rapporto di lavoro devono mettere in chiaro quali sono i reciproci obblighi e diritti. Non solo una policy aziendale, ma anche il contratto individuale diventa quindi lo strumento per poter regolamentare una materia così delicata e nello stesso tempo di fondamentale importanza.
Di tutto questo parleremo il 25 maggio nel corso del seminario organizzato presso il nostro studio.
Per iscriversi.

Nei secoli infedele.

È di oggi la notizia di un contenzioso sorto tra la Waymo (società della galassia Google destinata a sviluppare autovetture senza pilota) ed un suo ex ingegnere, che prima di salutare tutti in azienda avrebbe scaricato 14mila file sul proprio portatile per poi dar vita ad una società attiva (guarda caso…) nello sviluppo di sensori che permettono la navigazione automatica e la sicurezza stradale! Con l’aggravante che la start-up creata dal transfugo è poi stata acquisita da Uber, nota azienda di trasporto ultimamente impegnata per allestire una flotta di veicoli senza conducente.
La vicenda è avvenuta oltreoceano, ma ancora una volta dovrebbe far drizzare le antenne agli addetti ai lavori del Belpaese, notoriamente votato all’innovazione di alta gamma in svariati settori produttivi (meccanica, informatica, fashion, ecc…).
Diciamola tutta: il precetto di fedeltà sancito dall’articolo 2105 c.c. è codificazione del secolo scorso, epoca in cui lo sfruttamento indebito del patrimonio conoscitivo dell’azienda da parte del dipendente era fenomeno assolutamente marginale, non foss’altro che per i modestissimi mezzi a cui il lavoratore infedele poteva ricorrere per “asportare” una parte del patrimonio aziendale.
Diversa è la situazione nell’epoca degli smartphone (che immortalano e trasmettono di tutto e di più), delle chiavette USB (su cui in un battibaleno si copiano milioni di dati), dell’email con cui è agevole inviare dall’altra parte del mondo quanto appena sfilato.. dal cassetto del capufficio. Ebbene, in questa nostra epoca il mero precetto di cui all’art.2105 c.c. è argine ben modesto rispetto alle mille occasioni che possono indurre il dipendente a divenire infedele.
Nè va dimenticato il fenomeno che gli stessi giudici italiani qualificano “cherry picking”, cioè lo storno “chirurgico” di dipendenti finalizzato a sottrarre gruppi selezionati di cervelli altrui; non solo per acquisirne le particolari capacità ed esperienze professionali (magari integrate da un affiatamento di gruppo che ne aumenta il valore aggiunto), ma anche perché depositari di nozioni tecniche segrete che il nuovo datore di lavoro potrà subito mettere a frutto in altra sede.
Insomma è bene tenere a mente che ogni dipendente può agevolmente divenire veicolo di pericolose fughe di patrimonio immateriale dell’azienda. E per quanto non sappiamo come finirà la vicenda americana tra Waymo ed Uber, possiamo già esser certi che quando le mucche sono fuggite dalla stalla il rimedio è poi sempre poca cosa rispetto al danno subito.

MODELLI DI BUSINESS E PROPRIETA’ intellettuale.

A seguito del workshop tenuto presso lo studio Lexellent, socio di Réseau-Entreprendre, l’avv. R. D’Andrea, of counsel Lexellent, mette a disposizione i contenuti del proprio intervento.
Per scaricare il materiale cliccare qui.

Privacy e Lavoro: le regole per il corretto trattamento dei dati del lavoratore.

Il Garante della Privacy ha pubblicato un Vademecum contenente le regole per il corretto trattamento dei dati personali dei lavoratori da parte di soggetti pubblici e privati.
Il Garante tratta, in forma semplificata, i seguenti temi:
• cartellino identificativo
• bacheca aziendale
• pubblicazione del curriculum
• pubblicazione dei dati del lavoratore sui siti web e sulle reti interne
• gestione dei dati sanitari
• dati biometrici
• posta aziendale (internet/intranet)
• controlli effettuati per motivi organizzativi o di sicurezza
• controlli a distanza (videosorveglianza e geolocalizzazione)
Scarica il Vademecum.

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Difendere il patrimonio aziendale

Patto di non concorrenza e informazioni confidenziali.

Giurisprudenza in tema di patto di non concorrenza.
PDF >
La concorrenza sleale non può essere configurata né sulla base della dannosità della condotta per l’avversario né sulla base di un non ben definito animus nocendi. In particolare, va negato che tale animus nocendi valga a rendere illecite condotte che – esaminate sul piano oggettivo – tali non sarebbero. Ogni condotta di concorrenza è tenuta dall’imprenditore nella piena consapevolezza del danno che essa può arrecare al proprio concorrente ed è, anzi, finalizzata a questo obiettivo e solo una malintesa concezione dell’attività imprenditoriale può arrivare ad immaginare una concorrenza non finalizzata alla eliminazione del concorrente dal mercato. Con particolare riguardo allo storno di dipendenti, va affermato il pieno diritto di ogni imprenditore di sottrarre dipendenti al concorrente, purché ciò avvenga con mezzi leciti, quale ad esempio la promessa di un trattamento retributivo migliore o di una sistemazione professionale più soddisfacente. Di riflesso, va affermato il diritto di ogni lavoratore – sancito dall’art. 35 Cost. – a mutare il proprio datore di lavoro senza che il bagaglio di conoscenze ed esperienze maturato nell’ambito della precedente esperienza lavorativa, lungi dal permettergli il reperimento di migliori e più remunerative possibilità di lavoro, si trasformi in una sorta di vincolo che lo leghi all’attuale datore di lavoro e che precluda al lavoratore stesso la possibilità di cercare sul mercato nuovi sbocchi professionali (Cfr. Trib. Monza, 24 gennaio 2000).