L’epidemia da Covid-19 è, anche e soprattutto, una questione di sicurezza e salute del lavoro.

Pubblichiamo di seguito l’ultimo contributo dell’avv  Marco Chiesara, partner, sul tema della sicurezza sul lavoro alla luce dell’epidemia in corso, uscito sul numero 8 del 2020 di HR Online, periodico dedicato alle Risorse Umane di AIDP.

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I decreti emergenziali del Presidente del Consiglio dei Ministri, soprattutto quello del 9 marzo scorso, letti in combinazione e interpretati sistematicamente nell’ottica della tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori, portano ad affermare che, per tutte le attività lavorative non sospese, i datori di lavoro, dopo aver promosso il massimo utilizzo delle modalità di lavoro agile in forma semplificata, ossia senza accordo individuale e con l’informativa sicurezza standard redatta dall’INAIL; dopo aver favorito la fruizione delle ferie e dei congedi nonché degli eventuali ulteriori strumenti previsti dalla contrattazione collettiva ed aver pianificato le attività aziendali necessarie, sospendendo quelle non indispensabili, (anche utilizzando gli ammortizzatori sociali), dovranno adottare tutte le misure di prevenzione e protezione in materia di salute e sicurezza discendenti dal d.lgs. n. 81/2008 e normativa collegata.
La prima misura è rappresentata dall’aggiornamento, in collaborazione con RSPP e Medico Competente,della valutazione dei rischi con riferimento a quello, “biologico generico”, da COVID-19.
Da tale valutazione discende l’obbligo di:

  • predisporre protocolli di sicurezza anti-contagio;
  • informare i lavoratori sulle misure igienico-sanitarie previste dal Ministero della Salute, anche mediante affissione e invio telematico con email e/o applicazioni della documentazione infografica messa a disposizione sul sito del Ministero della Salute e delle Regioni;
  • mettere a disposizione dei lavoratori soluzioni idroalcoliche per il lavaggio delle mani;
  • mettere a disposizione dei lavoratori dispositivi di protezione individuale (i.e. mascherine) specie laddove non sia possibile rispettare la distanza interpersonale di un metro;
  • incentivate le operazioni di sanificazione dei luoghi di lavoro e degli strumenti di lavoro.

Il sistema normativo appena delineato viene, per così dire, integrato dal “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro” del 14 marzo scorso, sottoscritto, su invito del Governo, dalle Parti Sociali, proprio in attuazione dell’art. 1 co. 1, n. 9 del DPCM 11 marzo 2020.
Preliminare all’analisi del testo e, comunque, doveroso, è domandarsi quale sia la natura giuridica del Protocollo. Sul punto occorre sottolineare, per un verso, che il Protocollo d’intesa non ha rango di fonte di legge, nemmeno secondaria, rappresentando tutt’al più una regolamentazione che potremmo definire di soft law e, per altro verso, che gli obblighi giuridici in esso richiamati nemmeno discendono dalla suddetta già intervenuta decretazione emergenziale (sulla quale molte parole potrebbero essere spese in termini di rilevante distinzione tra raccomandazione e/o promozione e prescrizione, tra obbligo e relativa sanzione e persuasione e assenza di sanzione, tra norma e provvedimento), bensì dalla legge.
Appunto per questo, la natura di vincolo giuridico dei citati adempimenti in capo al datore di lavoro deriva, innanzitutto, dall’art. 2087 c.c., nonché dall’obbligo di valutare, a norma degli artt. 28e 29 del D. Lgs. n. 81/2008, tutti i rischi che espongono i dipendenti a pericoli per la loro salute e sicurezza, eliminandoli o, comunque, riducendone per quanto possibile l’esposizione, incluso il rischio biologico da Covid-19 all’interno dei luoghi di lavoro (ex art. 266 TUSL) giacché, da un lato, il Covid-19 è definito “rischio biologico generico” nell’incipit del Protocollo d’intesa e, dall’altro, nell’allegato XLVI del TUSL è presente, fra gli altri, anche il Coronaviridae, ossia l’aggregazione (o famiglia) di virus i cui componenti sono noti come “coronavirus”.
Da tale fondamentale osservazione discende, pertanto, che i controlli che gli organi ispettivi (ATS/ASL e ITL) hanno iniziato a svolgere, come ad es. in Veneto, sul rispetto da parte delle aziende, delle misure contenute nel Protocollo, non potranno contestare la mancata attuazione dello stesso, bensì la mancata attuazione degli obblighi di cui alla legislazione di sicurezza e salute del lavoro a cui le misure declinate (informazione, formazione, controlli, igiene degli ambienti, dispositivi di protezione individuale, sorveglianza sanitaria, ma anche organizzazione aziendale, gestione di entrate e uscite, degli spostamenti interni, delle riunioni, turnazioni, spazi comuni) devono necessariamente essere ricondotte quali conseguenze dell’aggiornamento della valutazione dei rischi lavorativi di cui all’art. 28 e 29 del D.lgs. n. 81/2008.
Per aiutare i clienti a verificare e soprattutto a documentare le azioni intraprese per la gestione dell’emergenza Covid-19, abbiamo predisposto una check list(1) di controllo sui punti previsti dal DPCM 11 marzo2020 e dal Protocollo Sicurezza 14 marzo 2020.
L’utilizzo della check list dovrebbe consentire alle aziende di eseguire una verifica sistemica dei vari punti ma, soprattutto, tracciare adeguatamente le misure attuate con eventuali riferimenti a documenti ufficiali interni/esterni (disposizioni interne, circolari, informative, ecc.), risultando, inoltre, utilizzabile anche come input per la revisione del Documento di Valutazione dei Rischi.
Un’adeguata documentazione delle azioni svolte è, infatti, fondamentale per attestare il corretto comportamento del Datore di Lavoro sia verso le autorità esterne che verso i lavoratori e le loro rappresentanze.
(1) a cura di Francesco Bacchini – Lexellent e di Dario Carrettoni – Igeam S.r.l.
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Produttività e contrattazione di secondo livello: la disciplina dei premi di risultato

Pubblichiamo di seguito l’ultimo contributo del Prof. Francesco Bacchini sul tema della disciplina dei premi di risultato uscito sul numero 6 del 2020 di HR Online, periodico dedicato alle Risorse Umane di AIDP.

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Al fine di ridurre il deficit strutturale che condiziona inevitabilmente la crescita del sistema-paese e con essa la tenuta del welfare state, fonte di disuguaglianze e disagio sociale, di alleggerire il carico fiscale per sostenere il reddito e, conseguentemente, i consumi delle famiglie (dei lavoratori), fornendo, contemporaneamente, impulso alla competitività delle aziende, con la l. n. 208 del 2015 (legge di stabilità per l’anno 2016) e la l. n. 232 del 2016 (legge di bilancio per l’anno 2017) il legislatore reintroduce, questa volta a titolo definitivo rispetto alla provvisorietà del passato, la tassazione agevolata dei premi di risultato (e non, per precisa scelta normativa, come avveniva in passato, del “salario o retribuzione di produttività”), ossia di quei premi, affidati obbligatoriamente alla determinazione della contrattazione collettiva di secondo livello, volti a limitare la rigidità salariale, incrementare il trattamento economico dei lavoratori in base a logiche diverse dalla retribuzione ordinaria (costituzionalmente proporzionale e sufficiente), permettendo alle imprese di assegnare quote di produttività nel salario, rendere disponibile maggiore ricchezza nei periodi di trend positivo e valorizzare in questo modo l’apporto dei collaboratori, fidelizzandoli e coinvolgendoli nelle performance dell’impresa e ciò anche nel caso del “premio di risultato con opzione welfare aziendale”, da intendersi quale “paniere” di benefici economici di utilità sociale di tipoparamonetario non rientranti nel sinallagma retributivo e, pertanto, detassati e non soggetti a contribuzione, che, sempre e solo il contratto collettivo, può consentire vengano scambiati dai lavoratori, totalmente o parzialmente, con il premio in denaro (comunque tassato, ancorché in misura ridotta).
La disciplina dei premi di risultato e della loro fruibilità anche in beni e servizi di welfare aziendale, espressamente riservata, come per il passato, al settore privato, è sancita dai commi 182-191 dell’art. 1, l. n. 208 del 2015, così come modificata dall’art. 1, comma 160, l. n. 232 del 2016, nonché dal d. interm. 25 marzo 2016 con il quale i ministri del Lavoro e dell’Economia hanno definito (in attuazione del comma 188) i criteri (misurabili rispetto ad un periodo congruo e verificabili in modo obiettivo con il riscontro di indicatori numerici o di altro genere espressamente individuati) per raggiungere gli obiettivi di produttività, redditività, qualità, efficienza e innovazione che possono consistere: nell’aumento della produzione, in risparmi dei fattori produttivi, nel miglioramento della qualità dei prodotti e dei processi anche attraverso la riorganizzazione dell’orario di lavoro (con esclusione dello straordinario) o nel ricorso al lavoro agile.
L’elenco dei criteri di misurazione deve essere specificato nella dichiarazione di conformità del contratto collettivo aziendale o territoriale che necessariamente li pattuisce, la quale è redatta dal datore secondo il modello dell’allegato I e depositata, unitamente al contratto collettivo (in sintonia con il precetto di cui all’art. 14 del d.lgs. n. 151/2015), entro 30 giorni dalla sottoscrizione, presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro. Nel modello sono descritti 20 indicatori di risultato (19 più uno lasciato alla libera determinazione delle parti ad evidente riprova della non tassatività dell’elencazione), fra cui si segnalano: il volume della produzione, il fatturato o il valore aggiunto (come da bilancio) divisi il numero dei dipendenti; il margine operativo lordo diviso il valore aggiunto; gli indici di soddisfazione del cliente; la riduzione degli scarti di lavorazione; il miglioramento dei tempi di consegna; le modifiche dell’organizzazione del lavoro o dei regimi di orario; la riduzione dell’assenteismo; il numero di brevetti depositati; la riduzione degli infortuni; la riduzione dei consumi energetici, e altri ancora che possono anche essere liberamente scelti dalla contrattazione collettiva di secondo livello purché siano oggettivamente rendicontabili.
È, dunque, il raggiungimento degli obbiettivi di produttività in base ai criteri di misurazione individuati dal decreto e necessariamente negoziati collettivamente, da cui dipende la detassazione dei premi di risultato di ammontare variabile corrisposti ai lavoratori.
Il limite stabilito dal legislatore per la detassazione dei premi di risultato è di 3.000€ lordi annui mentre il tetto massimo di reddito percepito dal lavoratore per usufruire dell’agevolazione fiscale è di 80.000€ lordi all’anno.
Con la modifica operata dall’art. 55 del d.l. n. 50, convertito dalla l. n. 96/2017, in forza del quale viene novellato il comma 189 della l. n. 208/2015, non è più previsto l’innalzamento dell’importo del premio di risultato detassabile a 4.000€ per le aziende che coinvolgono pariteticamente i lavoratori nell’organizzazione del lavoro, bensì la riduzione del 20% dell’aliquota contributiva a carico del datore di lavoro per il regime relativo all’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti su una quota del premio di risultato non superiore a 800€. In aggiunta, con riferimento alla quota di cui sopra è prevista la corrispondentemente riduzione dell’aliquota contributiva di computo ai fini pensionistici e sulla stessa non è dovuta alcuna contribuzione a carico del lavoratore. Con questo provvedimento ulteriormente incentivante (riconducibile, pur nella sua limitata, ma non irrilevante, dimensione, all’interno della largamente inattuata cornice normativa dell’art. 46 Cost.) il legislatore reintroduce stabilmente una fattispecie di decontribuzione complementare alla detassazione, che aveva, inopinatamente, abbandonato già dal 2015.
In base all’art. 4 del d. interm., il vantaggio contributivo discende dalla previsione nel contratto collettivo (aziendale o territoriale), ancorché a titolo esemplificativo, di gruppi di lavoro nei quali agiscono responsabili aziendali e lavoratori, vale a dire gruppi misti di manager, quadri, impiegati ed operai finalizzati al miglioramento o all’innovazione di aree produttive o sistemi di produzione, con strutture permanenti di orientamento e monitoraggio degli obbiettivi da perseguire nonché di rendicontazione periodica dei risultati raggiunti, all’interno dei quali non rientrano, per espressa previsione regolamentare “gruppi di lavoro di semplice consultazione, addestramento o formazione”.
L’imposta, sostitutiva dell’IRPEF e delle addizionali regionali e comunali, prevista per i premi di risultato è unitariamentefissata nel 10% delle somme erogate entro i limiti appena richiamati; tuttavia, poiché essa può risultare in alcuni casi svantaggiosa, il legislatore riconosce al lavoratore il diritto di rinunciarvi espressamente con una comunicazione scritta al datore di lavoro o in sede di dichiarazione dei redditi.
Per conseguire l’agevolazione fiscale è, tuttavia, indispensabile, come precedentemente ricordato, che i premi siano erogati in esecuzione di contratti collettivi di secondo livello, aziendali (stipulati da RSU o RSA) o territoriali, in entrambi i casi negoziati con il sindacato maggiormente rappresentativo a livello nazionale, così come stabilito dall’art. 51, d.lgs. n. 81 del 2015.
Si tratta di una limitazione comprensibile, tanto nell’ottica di stimolo alla contrattazione di “prossimità” e alla realizzazione di nuovi modelli di relazioni sindacali partecipative, quanto nella prospettiva del perseguimento del risultato atteso dal legislatore, essendo il riferimento a tali contratti l’unico che può garantire aumenti di produttività reali e non solo di facciata. Innegabilmente, attesa la limitata diffusione di tale contrattazione, soprattutto nelle aziende di piccole e medie dimensioni, il rischio è quello che gran parte dei lavoratori restino esclusi dai vantaggi fiscali connessi ai premi di risultato. Con il manifesto intento di allargare la platea dei fruitori dei premi di risultato detassati (e della loro possibile conversione in servizi welfare) anche nelle piccole e medie imprese prive di rappresentanze sindacali, deve leggersi l’Accordo Interconfederale Quadro del 14 luglio 2016 stipulato da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, per la definizione di accordi territoriali (a livello provinciale) in materia di agevolazione fiscale dei premi di risultato e di welfare contrattuale.
Secondo i dati del Ministero del Lavoro, al 16/12/2019 sono state compilate 52.588 dichiarazioni di conformità (moduli): 17.937 si riferiscono a contratti tuttora attivi; 13.912 sono riferite a contratti aziendali e 4.025 a contratti territoriali. Dei 17.937 contratti attivi, 13.714 si propongono di raggiungere obiettivi di produttività, 10.369 di redditività, 8.120 di qualità, mentre 2.046 prevedono un piano di partecipazione e 9.491 prevedono misure di welfare aziendale. Prendendo, invece, in considerazione la distribuzione geografica, per sede legale, delle aziende che hanno depositato le 52.588 dichiarazioni si evidenzia che il 78% è concentrato al Nord, il 16% al Centro e solo il 6% al Sud.
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La negoziazione collettiva del welfare aziendale: dal vincolo della volontarietà unilaterale alla contrattazione fiscalmente vantaggiosa

Pubblichiamo di seguito l’ultimo contributo del Prof. Francesco Bacchini sul tema del Welfare aziendale, uscito sul numero 2 del 2020 di HR Online, periodico dedicato alle Risorse Umane di AIDP.

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C’è stato un tempo in cui il welfare aziendale non poteva essere contrattato collettivamente, pena la privazione di ogni vantaggio fiscale per i lavoratori.
Così, fatta salva la decisività del ruolo giocato dalla contrattazione collettiva di livello nazionale nella regolazione della previdenza complementare e della sanità integrativa (fondi chiusi di categoria), è innegabile che i sindacati (e, conseguentemente, i lavoratori) abbiano mostrato (e in parte ancora mostrino) una certa diffidenza nei confronti dei progetti di welfare aziendale. Le ragioni di tale diffidenza erano (ma, in parte ancora, sono) molteplici: il timore dell’erosione del welfare universale pubblico; l’aumento delle disparità di trattamento a livello territoriale (nord-sud), categoriale e aziendale (settori produttivi forti-deboli, aziende in salute-in crisi), l’aumento dei dualismi e degli squilibri nel mercato del lavoro (insider-outsider), ma, soprattutto, la convinzione (non sempre errata) che l’interesse sotteso all’offerta di “servizi sociali aziendali” sia esclusivamente quello datoriale di riduzione dei costi degli incrementi retributivi in denaro, di alternatività al salario e non quello dell’effettiva promozione del benessere dei lavoratori, a fronte, per giunta, di benefits spesso predeterminati unilateralmente dall’azienda, finalizzati a soddisfare bisogni marginali, di qualità incerta, non sempre utili (a tutti) e facilmente fruibili.
Il motivo di quest’ultima e più significativa diffidenza derivava (ma in parte ancora deriva), principalmente, dal limite della “volontarietà” (con il conseguente divieto di ricorso alla negoziazione collettiva) dell’erogazione datoriale dei flexible benefits di cui all’art. 51, comma 2, del TUIR per l’accesso ai vantaggi fiscali, la quale ha finito per imporne la definizione unilaterale da parte delle imprese. L’evidente stortura normativa, frutto di un vetusto approccio paternalistico-donativo a proposito della natura delle opere e dei servizi introiettati nei piani di welfare aziendale a scapito della naturale vocazione alla regolazione collettiva del rapporto di lavoro e alla determinazione della sua remunerazione, è stata, infine, corretta dalla legge di stabilità per il 2016 (e ulteriormente precisata da quella di bilancio per il 2017).
La citata novella della lett. f), dell’art. 51, comma 2, TUIR, da intendersi logicamente estesa anche alle lett. f-bis), f-ter) ed f-quater), non potendo, le ultime tre, che costituire una specificazione della prima, sancisce, infatti, che non concorrono alla formazione del reddito di lavoro dipendente “l’utilizzazione delle opere e dei servizi riconosciuti dal datore di lavoro volontariamente o in conformità a disposizioni di contratto o di accordo o di regolamento aziendale (…)”.
Pur confermando la possibilità della scelta volontaristico-unilaterale, il legislatore, con la duplice finalità di rafforzare il welfare aziendale unitamente alla contrattazione collettiva (innanzitutto aziendale o territoriale), ha deliberato il riconoscimento del vantaggio fiscale al dipendente anche nel caso in cui le opere e i servizi di utilità sociale siano riconosciuti e disciplinati da un contratto, accordo o regolamento aziendale, determinando, per di più, in conseguenza dell’adempimento dell’obbligo negoziale, “la deducibilità integrale dei relativi costi da parte del datore di lavoro ai sensi dell’articolo 95 del TUIR, e non nel solo limite del cinque per mille, secondo quanto previsto dall’articolo 100 del medesimo testo unico” (deducibilità piena in relazione all’IRES e all’IRAP ma quest’ultima solo nei confronti dei lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato, mentre per quelli assunti a termine sono generalmente deducibili solo le prestazioni in natura e non quelle rimborsuali) in relazione all’ipotesi in cui le opere e i servizi siano, invece, offerti volontariamente.
Se per contratto aziendale si deve intendere il contratto collettivo di secondo livello (anche territoriale) stipulato nei limiti di quanto attribuito (o non disciplinato) dal contratto collettivo nazionale, per accordo aziendale si deve, presumibilmente, intendere quello “gestionale” (accordo operativo nei confronti dell’intera maestranza aziendale, data l’unitarietà del potere datoriale di autolimitazione o proceduralizzazione delle proprie prerogative) oppure quello stipulato in deroga (anche ex art. 8, l. n. 148 del 2011) rispetto alla disciplina del contratto collettivo nazionale/aziendale, con particolare riferimento al trattamento normativo (orario di lavoro, riposi, pause, classificazione, inquadramento, mansioni e percorsi di carriera) e retributivo di produttività e premialità (come, appunto, i flexible benefits).
Il dettato normativo appena analizzato, a conferma dei limiti evidenziati nella ricostruzione delle tipologie contrattual-collettive richiamate, viene significativamente integrato da una norma interpretativa (art. 1, comma 162) contenuta nella legge di bilancio per il 2017 in forza della quale il legislatore sancisce che il vantaggio fiscale di cui all’art. 51, comma 2, lett. f) del TUIR trova applicazione anche nel caso in cui le opere e i servizi di utilità sociale siano erogati dal datore di lavoro privato o pubblico “in conformità a disposizioni di contratto collettivo nazionale di lavoro, di accordo interconfederale o di contratto collettivo territoriale”.
Non solo, dunque, contrattazione di prossimità ma anche nazionale e intercategoriale.
Discorso diverso e più problematico appare, invece, quello relativo all’identificazione del regolamento aziendale. Infatti, poiché per regolamento aziendale si deve intendere quel complesso di disposizioni, riunite in un unico documento, unilateralmente impartite (nell’alveo degli artt. 2086 e 2104 Cod. Civ.) dal datore di lavoro in quanto relative all’organizzazione tecnico-disciplinare dell’azienda ed alle quali è sempre rimasto estraneo il trattamento economico del lavoratore, la locuzione deve essere evidentemente interpretata (posto anche il progressivo assorbimento dei suoi contenuti nella contrattazione collettiva aziendale) in senso ampio e atecnico, quale informativa per i dipendenti avente ad oggetto le modalità di funzionamento dell’erogazione dei beni e dei servizi di utilità sociale.
Si dovrebbe, pertanto, trattare di una policy con la quale il datore definisce e comunica (alla generalità dei lavoratori o a categorie di essi) le regole gestionali del welfare aziendale, come, ad esempio: tipologie di benefits, massimali messi a disposizione con eventuali distinzioni per tipologie, termini e modalità di fruizione (erogazione datoriale diretta, tramite terzi o a titolo di rimborso spese sostenute e documentate dal lavoratore), destinazione del credito welfare non ancora utilizzato, anche a fronte della cessazione del rapporto di lavoro, con possibilità (o meno) di conversione in denaro (sottoposto, però, a imposizione fiscale e contributiva) e quant’altro. Pur restando un atto unilaterale, la policy o regolamento sul welfare aziendale, esprimendo una sorta di (auto)contrattualizzazione del potere datoriale (similmente all’accordo collettivo gestionale sopra richiamato), rappresenta, di fatto, un’alternativa alla negoziazione collettiva (e al formale coinvolgimento del sindacato), condividendone, tuttavia, per espressa previsione normativa, gli stessi vantaggi fiscali (deducibilità integrale dei costi sostenuti dall’azienda) riconosciuti solo in parte (nel limite del 5 per mille) in caso di welfare volontariamente gestito dal datore senza alcuna procedimentalizzazione formalizzata, alla stregua (e con le problematiche) dell’uso aziendale.
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Lexellent partner dell’evento “AZIMUT LIBERA IMPRESA EXPO”

I prossimi 29 e 30 ottobre 2019 Lexellent sarà partner dell’evento “AZIMUT LIBERA IMPRESA EXPO” che si svolgerà presso il Centro Congressi Stella Polare della fiera di Rho.
Francesco Bacchini interverrà con una relazione dal titolo: “La negoziazione collettiva del welfare aziendale: dal vincolo della volontarietà unilaterale alla contrattualizzazione fiscalmente vantaggiosa. Regolamento aziendale, accordo e contratto collettivo con o senza premio di risultato convertibile”.
Seguiranno a breve altri aggiornamenti relativi all’orario.

“Aspettando il Forum Sicurezza e Salute 2019”, il 9 maggio 2018 a Torino

Il Prof. Francesco Bacchini, responsabile del Dipartimento Sicurezza del lavoro di Lexellent, sarà tra i relatori del convegno dal titolo “Aspettando il Forum Sicurezza e Salute 2019 – Gli attori della sicurezza a confronto”, a Torino, il 9 maggio 2018.
Per informazioni ed iscrizioni: https://www.fondazioneperlarchitettura.it/corso/aspettando-il-forum-sicurezza/
20180509_AspettandoForumSicurezzaSalute2019_Locandina

Il futuro delle relazioni industriali: riflessioni sull’Accordo Interconfederale del 28 febbraio 2018 – i contenuti dell’incontro

Lo scorso 18 aprile 2018, si è tenuto l’incontro dal titolo “Il futuro delle relazioni industriali: riflessioni sull’Accordo Interconfederale del 28 febbraio 2018”, organizzato da Lexellent, con la partecipazione del Prof. Francesco Bacchini e dell’Avv. Hulla Bisonni.
Scarica le slide da questo link: il futuro delle relazioni industriali
 
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