Di seguito l’articolo a firma del Prof. Francesco Bacchini pubblicato da IPSOA, sul tema della gestione del personale, da discutersi con i sindacati, per quelle imprese che ottengano i finanziamenti garantiti da SACE.
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Il decreto Liquidità prevede che l’impresa che ottiene il finanziamento garantito da SACE debba impegnarsi a definire (probabilmente per tutta la durata del medesimo, che può arrivare a sei anni), con accordo sindacale, le eventuali riduzioni di personale che si rendessero necessarie in conseguenza delle ricadute economico-produttive dell’emergenza Coronavirus. Ma non solo. Il legislatore potrebbe aver voluto subordinare alla stipulazione di accordi con il sindacato anche altri ambiti che rientrano nella gestione della flessibilità organizzativa del lavoro, quali, ad esempio, il ricorso ai contratti a termine, il trasferimento di ramo d’azienda, la predisposizione di contratti d’appalto. A fronte di molti dubbi interpretativi sollevati dal decreto Liquidità, è lecito chiedersi: la conversione in legge porterà il giusto consiglio?
Per assicurare risorse monetarie alle imprese ubicate in Italia ed economicamente indebolite dalla pandemia in corso, il
decreto Liquidità (
D.L. n. 23/2020) propone, in buona sostanza, soltanto un sistema di
prestito garantito dallo Stato ed
erogato dalle banche. L’investimento finanziario emergenziale sancito nel D.L. per invertire le sorti della crisi economica, consiste, infatti, unicamente nella previsione che SACE S.p.A. conceda – fino al 31 dicembre 2020 – garanzie a banche ed istituzioni finanziarie nazionali e internazionali nonché ad altri soggetti abilitati all’esercizio del credito in Italia, dirette ad agevolare l’erogazione, in qualsiasi forma, di finanziamenti a imprese di ogni dimensione.
L’impegno monetario con cui SACE S.p.A. garantirà tali finanziamenti è pari a 200 miliardi di euro, di cui almeno 30 dovranno essere destinati al sostegno economico delle PMI (così come di lavoratori autonomi e di liberi professionisti titolari di partita IVA) e ciò, a ogni buon conto, a patto che tali soggetti abbiano esaurito la capacità di accesso al Fondo di garanzia per le PMI.
Con il via libera della Commissione Europea che, ex art. 1, comma 12, del decreto legge, ha approvato tali misure con due distinti provvedimenti datati 14 aprile, la disciplina è oramai, almeno sulla carta, pienamente operativa.
Tuttavia, ottenere la garanzia del finanziamento e, quindi, il finanziamento stesso, oltre a non essere automatico (e nulla quaestio), non è nemmeno, agevole, giacché il legislatore ha previsto alcune condizioni di rilascio che le imprese beneficiarie dovranno soddisfare.
Tali condizioni, elencate nelle lettere a)-n) dell’art. 1, comma 2, del D.L., sono molteplici e di varia natura (economica, contabile, dimensionale, di bilancio, di fatturato), anche se l’attenzione del giuslavorista si incentra su quanto disposto dalla lett. l), poiché, in forza di tale previsione, “l’impresa che beneficia della garanzia assume l’impegno a gestire i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali”.
L’espressione utilizzata è pacificamente generica e di incerta interpretazione; di primo acchito, essa pare evocare un vincolo di contrattazione concertata, se non addirittura introdurre un inedito obbligo di cogestione o di codecisione con il sindacato in ordine alle scelte organizzative di governo della forza lavoro in chiave economico-occupazionale.
In questo senso, infatti, la locuzione “gestire i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali” si deve intendere nel senso di amministrare la situazione numerica delle persone occupate nell’impresa (l’andamento delle politiche del personale) al momento del finanziamento solo a fronte della stipulazione di accordi (contratti collettivi di secondo livello aziendali o territoriali) con il sindacato (aziendale, ossia RSU/RSA, o provinciale, presumibilmente maggiormente rappresentativo a livello nazionale), dal momento che tale assunzione d’impegno (da rendere per iscritto da parte del legale rappresentante) non può che significare per le imprese garantite, quanto meno, l’essere tenute a non intervenire unilateralmente sui livelli occupazionali bensì a farlo esclusivamente previo accordo collettivo.
Prescindendo solo per un attimo dal potenziale contrasto di siffatto precetto con l’art. 41 Cost., in quanto surrettiziamente incidente sull’autonomo e libero esercizio dell’attività d’impresa, la sua ratio legis sembra essere con tutta probabilità la seguente: l’impresa che ottiene il finanziamento garantito da SACE S.p.A. deve impegnarsi (probabilmente per tutta la durata del medesimo, che, giova ricordarlo, può arrivare a sei anni), ossia si vincola, si obbliga, a definire con accordo sindacale, le eventuali riduzioni di personale che si rendessero necessarie in conseguenza delle ricadute economico-produttive dell’emergenza Covid-19.
Pertanto, la sintesi della locuzione in esame potrebbe essere: si può ridurre il personale, si possono effettuare licenziamenti, certo unicamente per motivi economico-oggettivi, ovviamente collettivi (per i quali è già previsto l’esame congiunto ma non necessariamente l’accordo sindacale), ma fors’anche individuali (ancorché alieni da ogni logica di negoziato collettivo), nei confronti di tutti i dipendenti, anche dirigenti, soltanto con il consenso del sindacato e nei limiti dell’accordo con esso stipulato.
Nel confuso disegno normativo emergenziale, il tentativo (incauto) di subordinare i livelli occupazionali all’accordo con i sindacati potrebbe rappresentare una misura cautelare di portata limitata e, soprattutto, eventuale, atteso che tale vincolo si rivolge solo alle imprese che ottengono il finanziamento garantito da SACE S.p.a., in vista del più che probabile venir meno del difficilmente reiterabile (essendo già in odore di incostituzionalità) divieto di licenziamento collettivo e individuale per g.m.o. di cui all’art.46 del D.L. n. 18/2020, il quale oggi stabilizza, insieme all’integrazione salariale ordinaria e in deroga con causale Covid-19, un’occupazione che, purtroppo, in molti settori economici è del tutto apparente e nient’affatto reale.
La norma, più un monito che un precetto vero e proprio, nella sua impalpabilità, fra l’altro nulla dice, ne fa intendere di voler dire, in ordine a due fondamentali e necessari raccordi: quello con la L. n. 223/1991 e con le regole procedurali sui licenziamenti collettivi e quello con l’art. 7 della L. n. 604/1966 e con l’art. 18 St. Lav. in materia di licenziamento per motivo oggettivo.
Sul punto è infatti lecito domandarsi se, per le imprese finanziate con garanzia SACE S.p.A., i licenziamenti risulteranno validi solo nel caso in cui in sede di procedura sindacale (ex art. 4, L. n. 223/1991) o davanti all’Ispettorato territoriale del lavoro (ex art. 7, L. n. 604/1966) venga raggiunto un accordo, ipotesi, in entrambi i casi, oggi meramente eventuale, oppure se la disciplina in esame esuli da un simile contesto, non costituendo un obbligo ma solo un onere esclusivamente finalizzato a mantenere il vantaggio della garanzia pubblica del finanziamento economico. La questione è senza dubbio assai rilevante, giacché, se si trattasse di norma imperativa, la sua violazione comporterebbe la nullità del provvedimento espulsivo adottato e, conseguentemente, a prescindere dal regime di tutela applicabile, il giudice, con la sentenza con la quale dichiarasse la nullità del licenziamento, dovrebbe ordinare la reintegrazione del lavoratore, riconoscendo allo stesso l’indennità risarcitoria piena indipendentemente dal numero di prestatori occupati dall’impresa.
Non va dimenticato, inoltre, che tale norma, prevedendo uno specifico diritto nei confronti delle organizzazioni sindacali, potrebbe, se trasgredita, configurare condotta antisindacale ex art. 28 St. Lav. e come tale risulterebbe suscettibile di repressione in sede giudiziale.
A ben vedere, però, la norma in esame, se interpretata in senso ampio, non rappresenterebbe soltanto un surrettizio divieto di licenziamento in assenza di accordo sindacale, potendo infatti subordinare alla stipulazione di accordi con il sindacato anche altri ambiti rientranti nella gestione della situazione numerica delle persone occupate nell’impresa, quali, ad esempio, il ricorso o meno alla stipulazione di contratti di lavoro a termine anche stagionali, alla somministrazione di lavoro, al lavoro intermittente, al trasferimento di ramo d’azienda, alla stipulazione di contratti di subfornitura e d’appalto per la realizzazione di lavori o servizi (global service) interni all’azienda, all’unità produttiva o al ciclo produttivo della stessa.
Benché tali istituti, tutti riconducibili alla flessibilità organizzativa del lavoro, interna (tipologica) o esterna (outsourcing), risultino estranei alla stabile struttura occupazionale aziendale (che la norma apparentemente si prefigge di tutelare), così da sembrare conseguentemente esclusi dal perimetro del precetto, è innegabile che la cessione di un ramo d’azienda, l’esternalizzazione di una fase del processo produttivo, il ricorso a rapporti di lavoro temporanei, discontinui ad interim, risultino tutt’altro che indifferenti, impattando anche sui livelli occupazionali dell’impresa e non soltanto in modo indiretto.
Del resto, la contrattazione collettiva nazionale sancisce già, di frequente, in merito alle decisioni datoriali che riguardano il ricorso strategico alla flessibilità organizzativa dei processi produttivi e del lavoro ad essi necessario, e, quindi, l’andamento delle politiche del personale, prerogative di monitoraggio, informazione e consultazione attribuite alle rappresentanze sindacali in azienda.
In conclusione, a fronte delle tante incognite e dei molti dubbi interpretativi sollevati dall’impegno alla cogestione sindacale dei livelli occupazionali imposto alle imprese dal “Decreto Liquidità”, è lecito nutrire la speranza che, come la notte, anche la conversione in legge porti il giusto consiglio, altrimenti non ci resterà, ancora una volta, che piangere!