Incentivi alle assunzioni, ecco la mappa disegnata dalla legge di Bilancio 2020

Di seguito l’intervista alla nostra Managing Partner Giulietta Bergamaschi per Hr Link, sul tema delle novità introdotte dalla Legge di Bilancio 2020 in materia di nuove assunzioni.

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Sblocco o proroga di alcuni incentivi contributivi per l’assunzione di nuovo personale: questa una delle novità tra quelle introdotte dalla legge di Bilancio 2020, che si pone l’obiettivo di mettere ordine nella materia, dopo la confusione generata dal Decreto Dignità. Abbiamo chiesto a Giulietta Bergamaschi, Managing Partner di Lexellent, di darci il quadro di quanto previsto.

Avvocata Bergamaschi, cosa cambia ai fini dell’assunzione di nuovo personale con la legge di Bilancio?

La Legge di bilancio n. 160/2019, entrata in vigore il primo gennaio 2020, prevede innanzitutto significativi sgravi contributivi nei casi di assunzioni con contratti di apprendistato cosiddetti “di primo livello”. Tali vantaggi sono rivolti a datori di lavoro privati con non più di nove dipendenti che assumeranno, entro il 31 dicembre 2020, giovani tra i 15 e i 25 anni tramite contratti di apprendistato per la qualifica, il diploma professionale e il certificato di specializzazione tecnica superiore (art. 43, comma 1, D. Lgs. 81/2015). Grazie a tale previsione, le piccole aziende godranno di un esonero totale dai contributi dovuti per i primi tre anni di esecuzione del rapporto di lavoro;  se quest’ultimo ha però durata più lunga, lo sgravio riguarderà il 10% dei contributi dovuti per la parte eccedente i tre anni.

Cosa è previsto per gli under 35?

L’articolo 1, comma 10 riguarda gli esoneri contributivi per le assunzioni di giovani “under 35” con contratti a tutele crescenti a tempo indeterminato – istituiti dal Decreto legislativo 23 del 2015 beneficio già previsto dalla Legge di bilancio del 2017, ma finora relativo alle sole assunzioni degli under 30 e perfezionate entro il 31 dicembre 2018. Rispetto a quanto già previsto, la manovra per l’anno 2020, oltre a prorogare l’ultimo termine – che adesso viene ora posticipato al 31 dicembre 2020 – estende il beneficio alle assunzioni di risorse under 35 che non siano già state occupate a tempo indeterminato, sia con il medesimo datore di lavoro presso altri. In sostanza, andando più nel dettaglio, in virtù di questo incentivo, tutti i datori di lavoro privati – a prescindere dal numero di dipendenti – saranno esonerati, per 36 mesi, dal versamento del 50% dei contributi previdenziali. In questo modo con questa legge di Bilancio vengono superati gli ostacoli che il Decreto Dignità (D.L. 87/2018) aveva posto al concreto riconoscimento dell’esonero.

Facciamo un passo indietro: cosa era successo allora?

Il Decreto Dignità demandava la disciplina delle specifiche modalità di fruizione dell’esonero a un successivo decreto interministeriale; questo provvedimento, però, non è mai stato adottato e l’esonero contributivo è rimasto sostanzialmente disapplicato: il comma che lo prevedeva è stato addirittura abrogato. Bisogna sottolineare che la novità produce effetti retroattivi perché consente, in sostanza, ai datori di lavoro di recuperare i contributi per le assunzioni effettuate sin dal primo gennaio 2019, oltre che per tutto il 2020.

Cosa introduce, invece, il bonus eccellenze?

Di fatto viene richiamata la Legge di Bilancio del 2018, nella quale si prevedeva – per i datori di lavoro privati che nel 2019 avessero assunto a tempo indeterminato giovani particolarmente meritevoli in possesso di specifici requisiti (ex art. 1/707) – un esonero dal versamento dei contributi previdenziali per i primi 12 mesi dall’assunzione, nel limite massimo di 8.000 Euro per ogni unità. Ad oggi, tuttavia, rispetto alla disciplina già vigente, la Legge di bilancio per il 2020 non modifica il periodo entro cui devono essere effettuate le assunzioni che comportano l’esonero, che resta quindi circoscritto al 2019; ciò significa che, in assenza di ulteriori modifiche legislative, il  “bonus eccellenze” sembrerebbe non riguardare gli incrementi di personale disposti nel 2020.

C’è poi una parte dedicata atlete professioniste: di cosa si tratta?

Per il triennio 2020-2022 è previsto l’esonero totale dal versamento dei contributi – entro 8 mila euro annui – per l’assunzione di atlete professioniste da parte di società sportive femminili: si tratta di una novità senz’altro rilevante perché tende al superamento della storica discriminazione di genere che sappiamo essere dilagante nel settore del lavoro sportivo. Nessuna federazione sportiva italiana, infatti, ha finora acconsentito – pur potendolo fare grazie alle legge 91/1981 sul professionismo sportivo – alla qualificazione delle atlete donne come professioniste; e ciò, come è noto, non a causa di preclusioni formali, ma per mere logiche di risparmio sui costi. Ecco perché, a maggior ragione, si può prevedere che l’esonero contributivo appena introdotto, accolto con grande consenso, contribuirà sensibilmente a colmare il divario di genere ad oggi esistente tra uomini e donne impegnati nello sport, tuttavia senza nessun automatismo e senza dimenticare che il potere decisionale in tal senso spetta sempre alle federazioni sportive.
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La negoziazione collettiva del welfare aziendale: dal vincolo della volontarietà unilaterale alla contrattazione fiscalmente vantaggiosa

Pubblichiamo di seguito l’ultimo contributo del Prof. Francesco Bacchini sul tema del Welfare aziendale, uscito sul numero 2 del 2020 di HR Online, periodico dedicato alle Risorse Umane di AIDP.

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C’è stato un tempo in cui il welfare aziendale non poteva essere contrattato collettivamente, pena la privazione di ogni vantaggio fiscale per i lavoratori.
Così, fatta salva la decisività del ruolo giocato dalla contrattazione collettiva di livello nazionale nella regolazione della previdenza complementare e della sanità integrativa (fondi chiusi di categoria), è innegabile che i sindacati (e, conseguentemente, i lavoratori) abbiano mostrato (e in parte ancora mostrino) una certa diffidenza nei confronti dei progetti di welfare aziendale. Le ragioni di tale diffidenza erano (ma, in parte ancora, sono) molteplici: il timore dell’erosione del welfare universale pubblico; l’aumento delle disparità di trattamento a livello territoriale (nord-sud), categoriale e aziendale (settori produttivi forti-deboli, aziende in salute-in crisi), l’aumento dei dualismi e degli squilibri nel mercato del lavoro (insider-outsider), ma, soprattutto, la convinzione (non sempre errata) che l’interesse sotteso all’offerta di “servizi sociali aziendali” sia esclusivamente quello datoriale di riduzione dei costi degli incrementi retributivi in denaro, di alternatività al salario e non quello dell’effettiva promozione del benessere dei lavoratori, a fronte, per giunta, di benefits spesso predeterminati unilateralmente dall’azienda, finalizzati a soddisfare bisogni marginali, di qualità incerta, non sempre utili (a tutti) e facilmente fruibili.
Il motivo di quest’ultima e più significativa diffidenza derivava (ma in parte ancora deriva), principalmente, dal limite della “volontarietà” (con il conseguente divieto di ricorso alla negoziazione collettiva) dell’erogazione datoriale dei flexible benefits di cui all’art. 51, comma 2, del TUIR per l’accesso ai vantaggi fiscali, la quale ha finito per imporne la definizione unilaterale da parte delle imprese. L’evidente stortura normativa, frutto di un vetusto approccio paternalistico-donativo a proposito della natura delle opere e dei servizi introiettati nei piani di welfare aziendale a scapito della naturale vocazione alla regolazione collettiva del rapporto di lavoro e alla determinazione della sua remunerazione, è stata, infine, corretta dalla legge di stabilità per il 2016 (e ulteriormente precisata da quella di bilancio per il 2017).
La citata novella della lett. f), dell’art. 51, comma 2, TUIR, da intendersi logicamente estesa anche alle lett. f-bis), f-ter) ed f-quater), non potendo, le ultime tre, che costituire una specificazione della prima, sancisce, infatti, che non concorrono alla formazione del reddito di lavoro dipendente “l’utilizzazione delle opere e dei servizi riconosciuti dal datore di lavoro volontariamente o in conformità a disposizioni di contratto o di accordo o di regolamento aziendale (…)”.
Pur confermando la possibilità della scelta volontaristico-unilaterale, il legislatore, con la duplice finalità di rafforzare il welfare aziendale unitamente alla contrattazione collettiva (innanzitutto aziendale o territoriale), ha deliberato il riconoscimento del vantaggio fiscale al dipendente anche nel caso in cui le opere e i servizi di utilità sociale siano riconosciuti e disciplinati da un contratto, accordo o regolamento aziendale, determinando, per di più, in conseguenza dell’adempimento dell’obbligo negoziale, “la deducibilità integrale dei relativi costi da parte del datore di lavoro ai sensi dell’articolo 95 del TUIR, e non nel solo limite del cinque per mille, secondo quanto previsto dall’articolo 100 del medesimo testo unico” (deducibilità piena in relazione all’IRES e all’IRAP ma quest’ultima solo nei confronti dei lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato, mentre per quelli assunti a termine sono generalmente deducibili solo le prestazioni in natura e non quelle rimborsuali) in relazione all’ipotesi in cui le opere e i servizi siano, invece, offerti volontariamente.
Se per contratto aziendale si deve intendere il contratto collettivo di secondo livello (anche territoriale) stipulato nei limiti di quanto attribuito (o non disciplinato) dal contratto collettivo nazionale, per accordo aziendale si deve, presumibilmente, intendere quello “gestionale” (accordo operativo nei confronti dell’intera maestranza aziendale, data l’unitarietà del potere datoriale di autolimitazione o proceduralizzazione delle proprie prerogative) oppure quello stipulato in deroga (anche ex art. 8, l. n. 148 del 2011) rispetto alla disciplina del contratto collettivo nazionale/aziendale, con particolare riferimento al trattamento normativo (orario di lavoro, riposi, pause, classificazione, inquadramento, mansioni e percorsi di carriera) e retributivo di produttività e premialità (come, appunto, i flexible benefits).
Il dettato normativo appena analizzato, a conferma dei limiti evidenziati nella ricostruzione delle tipologie contrattual-collettive richiamate, viene significativamente integrato da una norma interpretativa (art. 1, comma 162) contenuta nella legge di bilancio per il 2017 in forza della quale il legislatore sancisce che il vantaggio fiscale di cui all’art. 51, comma 2, lett. f) del TUIR trova applicazione anche nel caso in cui le opere e i servizi di utilità sociale siano erogati dal datore di lavoro privato o pubblico “in conformità a disposizioni di contratto collettivo nazionale di lavoro, di accordo interconfederale o di contratto collettivo territoriale”.
Non solo, dunque, contrattazione di prossimità ma anche nazionale e intercategoriale.
Discorso diverso e più problematico appare, invece, quello relativo all’identificazione del regolamento aziendale. Infatti, poiché per regolamento aziendale si deve intendere quel complesso di disposizioni, riunite in un unico documento, unilateralmente impartite (nell’alveo degli artt. 2086 e 2104 Cod. Civ.) dal datore di lavoro in quanto relative all’organizzazione tecnico-disciplinare dell’azienda ed alle quali è sempre rimasto estraneo il trattamento economico del lavoratore, la locuzione deve essere evidentemente interpretata (posto anche il progressivo assorbimento dei suoi contenuti nella contrattazione collettiva aziendale) in senso ampio e atecnico, quale informativa per i dipendenti avente ad oggetto le modalità di funzionamento dell’erogazione dei beni e dei servizi di utilità sociale.
Si dovrebbe, pertanto, trattare di una policy con la quale il datore definisce e comunica (alla generalità dei lavoratori o a categorie di essi) le regole gestionali del welfare aziendale, come, ad esempio: tipologie di benefits, massimali messi a disposizione con eventuali distinzioni per tipologie, termini e modalità di fruizione (erogazione datoriale diretta, tramite terzi o a titolo di rimborso spese sostenute e documentate dal lavoratore), destinazione del credito welfare non ancora utilizzato, anche a fronte della cessazione del rapporto di lavoro, con possibilità (o meno) di conversione in denaro (sottoposto, però, a imposizione fiscale e contributiva) e quant’altro. Pur restando un atto unilaterale, la policy o regolamento sul welfare aziendale, esprimendo una sorta di (auto)contrattualizzazione del potere datoriale (similmente all’accordo collettivo gestionale sopra richiamato), rappresenta, di fatto, un’alternativa alla negoziazione collettiva (e al formale coinvolgimento del sindacato), condividendone, tuttavia, per espressa previsione normativa, gli stessi vantaggi fiscali (deducibilità integrale dei costi sostenuti dall’azienda) riconosciuti solo in parte (nel limite del 5 per mille) in caso di welfare volontariamente gestito dal datore senza alcuna procedimentalizzazione formalizzata, alla stregua (e con le problematiche) dell’uso aziendale.
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Riders tra autonomia e subordinazione: la soluzione, paradossale, del rebus c’è

Pubblichiamo di seguito l’editoriale del Prof. Francesco Bacchini per IPSOA – Quotidiano, con il quale torna sull’annoso tema dei riders e, in particolare, sulla possibile soluzione al dilemma se inquadrarli in ambito del lavoro autonomo o quello dipendente.

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Dall’analisi della legge di conversione del decreto sui riders emerge la percezione di una pregnante disorganicità dell’intervento del legislatore. Il rider parrebbe, infatti, essere “conteso” da due forze uguali e contrarie, date, rispettivamente, dalla sfera applicativa delle “nuove” collaborazioni etero organizzate (con un potere organizzativo del committente oggi affievolito, nonostante l’applicazione del regime della subordinazione) e dalle specifiche tutele del lavoro autonomo. Nel tentativo di rinvenire un fil rouge che porti a congiungere le diverse modifiche, si può ipotizzare una prima – possibile – chiave di lettura.

Pezo el tacón del buso recita un noto proverbio veneziano, ossia: peggio la pezza del buco, per dire che, spesso, il rimedio è peggiore del danno prodotto.
 
La voce della saggezza popolare pare ben attagliarsi alle modifiche apportate dalla legge n. 128/2019 che ha convertito il D.L. n. 101/2019, il “decreto crisi”, il quale, oltre ad aver disciplinato, sotto le mentite spoglie della rubrica del Capo V-bis del D.Lgs. n. 81/2015, apparentemente dedicata alla generale “tutela del lavoro tramite piattaforme digitali”, solo quella dei “lavoratori autonomi che svolgono attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano…”, i popolari “riders”, aveva, inopinatamente, modificato anche l’art. 2, co. 1, del medesimo decreto, riscrivendo, o tentando di farlo, il paradigma in chiave digitale (ma non solo) della collaborazione organizzata dal committente.
 
La legge di conversione, in primo luogo, rivisita sensibilmente le maglie di tipicità della collaborazione etero organizzata, fattispecie oggi declinabile nel senso di un rapporto avente ad oggetto “prestazioni prevalentemente personali, continuative, e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente”.
Due, quindi, e senz’altro macroscopici, i profili di novità che presenta la definizione appena riportata.
Anzitutto, la prestazione del collaboratore etero organizzato viene intesa quale contributo “prevalentemente”, non “esclusivamente” personale; circostanza, questa, utile a prefigurare un supporto organizzativo che, se per un verso potrà andare ben oltre lo smartphone, il tablet o il PC (ma anche la bicicletta o lo scooter), non potrà comunque integrare gli estremi di un apparato con fisionomia – anche solo per approssimazione – aziendale, prerogativa del solo imprenditore (art. 2555 c.c.).
Già questo primo dato legittima un’immediata, sostanziale analogia tra la “nuova” collaborazione etero organizzata e il paradigma dell’autonomia.
 
Una prestazione che non sia tout court “personale”, infatti, appare subito riconducibile al paradigma del lavoro autonomo (descritto dall’art. 2222 c.c. quale prevalentemente proprio e prestato in assenza vincolo di subordinazione), ed al contempo inconciliabile con l’attività lavorativa (esclusivamente) propria (e personale) svolta, ex art. 2094 c.c., dal prestatore subordinato, siccome alle dipendenze e sotto la direzione del datore di lavoro ovvero all’interno dell’altrui apparato organizzativo.
Ad avvicinare la rinnovata collaborazione etero organizzata al lavoro autonomo contribuisce, poi, l’altra modifica che la L. 128 apporta all’art. 2 del Decreto 81/2015: l’esclusione, cioè, di tempi e luogo di lavoro dal campo di operatività definitoria del potere organizzativo per opera del committente.
Ciò che ne deriva è, sicuramente, la percezione di una pregnante disorganicità dell’intervento di conversione, per le ragioni che veniamo ad esporre.
 
E’ evidente che sottrarre il “quando” (compreso il “per quanto tempo”) e il “dove” alla sfera dell’intervento etero organizzativo fa ancor più stridere l’incipit dello stesso art. 2 (che enuncia, quasi con fare di slogan, l’applicazione delle tutele del lavoro dipendente); e ciò, a fortiori, per l’inclusione, nell’alveo delle nuove collaborazioni etero organizzate (ma non etero dirette) e del conseguente regime della subordinazione, dei platform workers generalmente intesi, riders compresi, digitali o meno.
Per quanto riguarda questi ultimi, il loro ben noto modus operandi (scelta sia della fascia oraria di consegna che del tragitto da percorrere) sembra richiamare proprio la fisionomia della collaborazione etero diretta per come ridisegnata dalla legge di conversione (stante l’esclusione, oggi, della determinazione di tempo e luogo della prestazione da parte del committente): infatti, secondo la prassi corrente, il rider disponibile al trasporto si limita ad attivare la piattaforma ed attendere la richiesta di collaborazione (da accettare o meno) da parte del committente, per poi disconnettersi qualora non intenda compiere altre consegne.
 
Sennonché, in disparte la condivisibilità e l’utilità pratica di tale operazione qualificatoria (da sondarsi anche in relazione al dibattito che deriverà dalla norma in commento), certo è che, accanto al rider tutelato (almeno nominativamente) nelle forme della subordinazione secondo il nuovo art. 2 comma 1 D. Lgs. 81/2015, il successivo art. 47 bis, comma 1, in apertura del nuovo Capo V bis, traccia i contorni (e i livelli minimi di tutela in favore) di un “omologo” fattorino a domicilio, questa volta espressamente qualificato come “lavoratore autonomo”, che consegna beni per conto altrui, in città e a bordo di bicicletta o motorino (entro 50 cm cubici e 50 km/h), “attraverso piattaforme anche digitali”.
Piattaforme da intendersi, secondo la definizione di cui al co. 2 (si noti la persistente lacuna definitoria della “piattaforma non digitale”, esemplificata, nella relazione tecnica al Decreto, con il tralatizio riferimento ai sistemi di smistamento delle chiamate telefoniche): “i programmi e le procedure informatiche utilizzati dal committente che sono strumentali alle attività di consegna dei beni, fissandone il compenso e determinando le modalità di esecuzione della prestazione”.
 
Al netto delle valutazioni già espresse circa l’effettiva necessità e urgenza di una decretazione a tutela dei riders (leggi anche: Riders e platform workers. La tutela incompiuta del lavoro digitale), passiamone in rassegna i principali strumenti.
 
Si muove dalla forma contrattuale (scritta ad probationem, e corredata da ogni informazione utile sui diritti e la sicurezza del prestatore, pena sanzione risarcitoria da commisurarsi in via equitativa), passando per il compenso (per la cui individuazione si rinvia alla contrattazione collettiva di riferimento – quale? – o, in mancanza, quella vigente in settori “affini o equivalenti”), ai cui fini è prevista ex lege un’indennità integrativa almeno pari al 10% in caso di prestazioni notturne, festive o rese in condizioni metereologiche avverse; per giungere alle previsioni in tema di assicurazione obbligatoria contro infortuni e malattie, nonché di obblighi gravanti sul committente a tutela della sicurezza e salute dei prestatori, surrettiziamente e inopportunamente caricato di tutti quelli di cui al d.lgs. n. 81/2008 e quindi trattato, pur non essendolo vista la natura autonoma della prestazione lavorativa del rider, alla stregua del datore di lavoro.
 
Al di là delle osservazioni in merito alla effettività di tali tutele, a rendere ancor meno decifrabile la ratio sottesa all’intervento di conversione è l’espressa volontà legislativa di applicare l’intero Capo V-bis “fatto salvo quanto previsto dall’articolo 2, comma 1”.
Orbene, ciò impone di interpretare in termini sintetici le novità introdotte dalla Legge 128; operazione complessa sia perché destinata a muoversi su uno sfondo di per sé notoriamente magmatico (la “zona grigia” che separa il lavoro dipendente da quello coordinato senza subordinazione), sia perché osteggiata da una normativa all’insegna del paradosso.
Nel tentativo di rinvenire un fil rouge che congiunga le modifiche al D.Lgs. n. 81/2015, i primi commenti sul tema ipotizzano una possibile chiave di lettura.
 
In sintesi, si osserva che, muovendo da un’interpretazione letterale dell’art. 2, comma 1 (che, come abbiamo visto, prescinde ormai testualmente dalla fissazione del tempo e del luogo della prestazione quali espressioni del potere etero organizzativo) insieme alla clausola “di salvaguardia” posta in apertura del Capo V-bis, si giungerebbe ad attivare le tutele ivi dettate soltanto in ipotesi di scuola: nei soli casi, che esulano dalla prassi corrente descritta sopra, in cui la piattaforma giungesse a imporre sia gli slots orari che il tempo massimo -e magari il percorso- di consegna.
Di conseguenza, per non vanificare le finalità (almeno asseritamente) garantiste del D.L. n. 101, non rimarrebbe che far rientrare la dimensione spazio-temporale all’interno delle “modalità d’esecuzione” etero organizzate, con conseguente applicazione del regime della subordinazione; così delineato l’ambito applicativo dell’art. 2, comma 1, le tutele sancite dal Capo V-bis potrebbero trovare applicazione nelle ipotesi residuali (maggioritarie) in cui il committente non detti né il “quando” né il “dove” della prestazione.
La ricostruzione così formulata, nel prospettare un possibile escamotage dal rebus normativo, non esime, comunque, da alcune osservazioni conclusive.
 
Come è agevole intuire, la conversione del D.L. n. 101 non ha in alcun modo risolto perplessità e contraddizioni di una decretazione che, sul versante lavoristico, sembrava difficilmente comprensibile già nelle sue premesse.  Piuttosto, ciò che emerge dalla legge in commento è una caotica sovrapposizione di categorie, discipline e tutele.
Il rider (soggetto debole da tutelarsi con priorità ritenuta indifferibile!) parrebbe, infatti, essere “conteso” da due forze uguali e contrarie, date, rispettivamente, dalla sfera applicativa delle “nuove” co.co.org (connotate da un potere organizzativo del committente oggi assai affievolito, nonostante l’applicazione del regime della subordinazione) e delle tutele di cui al Capo V-bis, riservate espressamente al ciclofattorino autonomo.
Non è dato comprendere in quale direzione, ma l’impressione sembra essere quella di una clonazione (auspicabilmente involontaria) decisamente malriuscita.
 
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Donne al top nelle law firm: parità difficile. Giulietta Bergamaschi su Il Sole 24 Ore

Giulietta Bergamaschi, managing partner di Lexellent, tra le professioniste apicali sentite da Flavia Landolfi nel focus pubblicato ieri da Il Sole 24 Ore sulla parità nelle law firm italiane: tra “stereotipi duri a morire e con un modello di lavoro “in presenza” “.

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[omissis]
“La percentuale delle donne ai vertici degli studi è molto simile a quella delle donne che rivestono la carica di AD nel settore privato: è una conferma che la scarsa presenza femminile nelle posizioni di vertice è trasversale in buona parte delle professioni e dei settori economici.Penso che il tema della parità di genere sia più che altro culturale.”
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