Pubblichiamo di seguito l’editoriale del Prof. Francesco Bacchini per IPSOA – Quotidiano, con il quale torna sull’annoso tema dei riders e, in particolare, sulla possibile soluzione al dilemma se inquadrarli in ambito del lavoro autonomo o quello dipendente.
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Dall’analisi della legge di conversione del decreto sui riders emerge la percezione di una pregnante disorganicità dell’intervento del legislatore. Il rider parrebbe, infatti, essere “conteso” da due forze uguali e contrarie, date, rispettivamente, dalla sfera applicativa delle “nuove” collaborazioni etero organizzate (con un potere organizzativo del committente oggi affievolito, nonostante l’applicazione del regime della subordinazione) e dalle specifiche tutele del lavoro autonomo. Nel tentativo di rinvenire un fil rouge che porti a congiungere le diverse modifiche, si può ipotizzare una prima – possibile – chiave di lettura.
Pezo el tacón del buso recita un noto proverbio veneziano, ossia: peggio la pezza del buco, per dire che, spesso, il rimedio è peggiore del danno prodotto.
La voce della saggezza popolare pare ben attagliarsi alle modifiche apportate dalla
legge n. 128/2019 che ha convertito il
D.L. n. 101/2019, il “
decreto crisi”, il quale, oltre ad aver disciplinato, sotto le mentite spoglie della rubrica del Capo V-bis del D.Lgs. n. 81/2015, apparentemente dedicata alla generale “tutela del lavoro tramite piattaforme digitali”, solo quella dei “lavoratori autonomi che svolgono attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano…”, i popolari “
riders”, aveva, inopinatamente, modificato anche l’art. 2, co. 1, del medesimo decreto, riscrivendo, o tentando di farlo, il paradigma in chiave digitale (ma non solo) della collaborazione organizzata dal committente.
La legge di conversione, in primo luogo, rivisita sensibilmente le maglie di tipicità della collaborazione etero organizzata, fattispecie oggi declinabile nel senso di un rapporto avente ad oggetto “prestazioni prevalentemente personali, continuative, e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente”.
Due, quindi, e senz’altro macroscopici, i profili di novità che presenta la definizione appena riportata.
Anzitutto, la prestazione del collaboratore etero organizzato viene intesa quale contributo “prevalentemente”, non “esclusivamente” personale; circostanza, questa, utile a prefigurare un supporto organizzativo che, se per un verso potrà andare ben oltre lo smartphone, il tablet o il PC (ma anche la bicicletta o lo scooter), non potrà comunque integrare gli estremi di un apparato con fisionomia – anche solo per approssimazione – aziendale, prerogativa del solo imprenditore (art. 2555 c.c.).
Già questo primo dato legittima un’immediata, sostanziale analogia tra la “nuova” collaborazione etero organizzata e il paradigma dell’autonomia.
Una prestazione che non sia tout court “personale”, infatti, appare subito riconducibile al paradigma del lavoro autonomo (descritto dall’art. 2222 c.c. quale prevalentemente proprio e prestato in assenza vincolo di subordinazione), ed al contempo inconciliabile con l’attività lavorativa (esclusivamente) propria (e personale) svolta, ex art. 2094 c.c., dal prestatore subordinato, siccome alle dipendenze e sotto la direzione del datore di lavoro ovvero all’interno dell’altrui apparato organizzativo.
Ad avvicinare la rinnovata collaborazione etero organizzata al lavoro autonomo contribuisce, poi, l’altra modifica che la L. 128 apporta all’art. 2 del Decreto 81/2015: l’esclusione, cioè, di tempi e luogo di lavoro dal campo di operatività definitoria del potere organizzativo per opera del committente.
Ciò che ne deriva è, sicuramente, la percezione di una pregnante disorganicità dell’intervento di conversione, per le ragioni che veniamo ad esporre.
E’ evidente che sottrarre il “quando” (compreso il “per quanto tempo”) e il “dove” alla sfera dell’intervento etero organizzativo fa ancor più stridere l’incipit dello stesso art. 2 (che enuncia, quasi con fare di slogan, l’applicazione delle tutele del lavoro dipendente); e ciò, a fortiori, per l’inclusione, nell’alveo delle nuove collaborazioni etero organizzate (ma non etero dirette) e del conseguente regime della subordinazione, dei platform workers generalmente intesi, riders compresi, digitali o meno.
Per quanto riguarda questi ultimi, il loro ben noto modus operandi (scelta sia della fascia oraria di consegna che del tragitto da percorrere) sembra richiamare proprio la fisionomia della collaborazione etero diretta per come ridisegnata dalla legge di conversione (stante l’esclusione, oggi, della determinazione di tempo e luogo della prestazione da parte del committente): infatti, secondo la prassi corrente, il rider disponibile al trasporto si limita ad attivare la piattaforma ed attendere la richiesta di collaborazione (da accettare o meno) da parte del committente, per poi disconnettersi qualora non intenda compiere altre consegne.
Sennonché, in disparte la condivisibilità e l’utilità pratica di tale operazione qualificatoria (da sondarsi anche in relazione al dibattito che deriverà dalla norma in commento), certo è che, accanto al rider tutelato (almeno nominativamente) nelle forme della subordinazione secondo il nuovo art. 2 comma 1 D. Lgs. 81/2015, il successivo art. 47 bis, comma 1, in apertura del nuovo Capo V bis, traccia i contorni (e i livelli minimi di tutela in favore) di un “omologo” fattorino a domicilio, questa volta espressamente qualificato come “lavoratore autonomo”, che consegna beni per conto altrui, in città e a bordo di bicicletta o motorino (entro 50 cm cubici e 50 km/h), “attraverso piattaforme anche digitali”.
Piattaforme da intendersi, secondo la definizione di cui al co. 2 (si noti la persistente lacuna definitoria della “piattaforma non digitale”, esemplificata, nella relazione tecnica al Decreto, con il tralatizio riferimento ai sistemi di smistamento delle chiamate telefoniche): “i programmi e le procedure informatiche utilizzati dal committente che sono strumentali alle attività di consegna dei beni, fissandone il compenso e determinando le modalità di esecuzione della prestazione”.
Si muove dalla forma contrattuale (scritta ad probationem, e corredata da ogni informazione utile sui diritti e la sicurezza del prestatore, pena sanzione risarcitoria da commisurarsi in via equitativa), passando per il compenso (per la cui individuazione si rinvia alla contrattazione collettiva di riferimento – quale? – o, in mancanza, quella vigente in settori “affini o equivalenti”), ai cui fini è prevista ex lege un’indennità integrativa almeno pari al 10% in caso di prestazioni notturne, festive o rese in condizioni metereologiche avverse; per giungere alle previsioni in tema di assicurazione obbligatoria contro infortuni e malattie, nonché di obblighi gravanti sul committente a tutela della sicurezza e salute dei prestatori, surrettiziamente e inopportunamente caricato di tutti quelli di cui al d.lgs. n. 81/2008 e quindi trattato, pur non essendolo vista la natura autonoma della prestazione lavorativa del rider, alla stregua del datore di lavoro.
Al di là delle osservazioni in merito alla effettività di tali tutele, a rendere ancor meno decifrabile la ratio sottesa all’intervento di conversione è l’espressa volontà legislativa di applicare l’intero Capo V-bis “fatto salvo quanto previsto dall’articolo 2, comma 1”.
Orbene, ciò impone di interpretare in termini sintetici le novità introdotte dalla Legge 128; operazione complessa sia perché destinata a muoversi su uno sfondo di per sé notoriamente magmatico (la “zona grigia” che separa il lavoro dipendente da quello coordinato senza subordinazione), sia perché osteggiata da una normativa all’insegna del paradosso.
Nel tentativo di rinvenire un fil rouge che congiunga le modifiche al D.Lgs. n. 81/2015, i primi commenti sul tema ipotizzano una possibile chiave di lettura.
In sintesi, si osserva che, muovendo da un’interpretazione letterale dell’art. 2, comma 1 (che, come abbiamo visto, prescinde ormai testualmente dalla fissazione del tempo e del luogo della prestazione quali espressioni del potere etero organizzativo) insieme alla clausola “di salvaguardia” posta in apertura del Capo V-bis, si giungerebbe ad attivare le tutele ivi dettate soltanto in ipotesi di scuola: nei soli casi, che esulano dalla prassi corrente descritta sopra, in cui la piattaforma giungesse a imporre sia gli slots orari che il tempo massimo -e magari il percorso- di consegna.
Di conseguenza, per non vanificare le finalità (almeno asseritamente) garantiste del D.L. n. 101, non rimarrebbe che far rientrare la dimensione spazio-temporale all’interno delle “modalità d’esecuzione” etero organizzate, con conseguente applicazione del regime della subordinazione; così delineato l’ambito applicativo dell’art. 2, comma 1, le tutele sancite dal Capo V-bis potrebbero trovare applicazione nelle ipotesi residuali (maggioritarie) in cui il committente non detti né il “quando” né il “dove” della prestazione.
La ricostruzione così formulata, nel prospettare un possibile escamotage dal rebus normativo, non esime, comunque, da alcune osservazioni conclusive.
Come è agevole intuire, la conversione del D.L. n. 101 non ha in alcun modo risolto perplessità e contraddizioni di una decretazione che, sul versante lavoristico, sembrava difficilmente comprensibile già nelle sue premesse. Piuttosto, ciò che emerge dalla legge in commento è una caotica sovrapposizione di categorie, discipline e tutele.
Il rider (soggetto debole da tutelarsi con priorità ritenuta indifferibile!) parrebbe, infatti, essere “conteso” da due forze uguali e contrarie, date, rispettivamente, dalla sfera applicativa delle “nuove” co.co.org (connotate da un potere organizzativo del committente oggi assai affievolito, nonostante l’applicazione del regime della subordinazione) e delle tutele di cui al Capo V-bis, riservate espressamente al ciclofattorino autonomo.
Non è dato comprendere in quale direzione, ma l’impressione sembra essere quella di una clonazione (auspicabilmente involontaria) decisamente malriuscita.
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