Giudizio medico alla mansione, limitazioni e prescrizioni, disabilità, accomodamenti ragionevoli e licenziamento discriminatorio

Pubblichiamo di seguito l’articolo del Prof. Francesco Bacchini su Diritto24. Il contributo torna sul tema del diritto al lavoro dei disabili focalizzando sulla nuova disciplina antidiscriminatoria europea.
Come si è già avuto modo di osservare in questa sede (cfr. “L’inserimento lavorativo delle persone con disabilità“, pubblicato il 14.5.19), il tema dell’inclusione lavorativa dei portatori di disabilità condiziona il rapporto di lavoro nella sua interezza, informando la disciplina di tutte le sue fasi: instaurazione (tramite le previsioni della L. n. 68/1999 in materia di collocamento obbligatorio); esecuzione (mediante le garanzie, di cui infra, dirette all’effettivo mantenimento del soggetto disabile – anche per patologie sopravvenute – in azienda); scioglimento (per le tutele avverso il licenziamento discriminatorio intimato in ragione della sola disabilità).
La necessità di assicurare il pieno inserimento del lavoratore disabile nella comunità aziendale sta, anzitutto, alla base del nuovo Diritto antidiscriminatorio europeo in materia di occupazione e condizioni di lavoro.
La Direttiva 2000/78 CE, infatti, ha imposto ai datori di lavoro l’obbligo di adottare soluzioni ragionevoli per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sempre che tali misure non implichino un onere finanziario sproporzionato.
Tale vincolo, dapprima ignorato dal legislatore italiano, è stato in seguito recepito (anche sulla scorta della condanna inflitta dalla Corte di giustizia nella C-312/11) tramite l’introduzione, nel corpo dell’art. 3 del D. Lgs. n. 216/2003, del c. 3-bis, che così recita: “al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori”.
Conseguentemente, alla luce della novella legislativa, il datore di lavoro è tenuto a fronteggiare la condizione di disabilità del dipendente adottando ogni accorgimento ragionevole di tipo organizzativo (ad es., la modificazione delle mansioni, la riduzione dell’orario o dei ritmi di lavoro, la trasformazione del contratto di lavoro da full-time in part-time) o di tipo tecnico (ad es., la dotazione di peculiari strumenti o attrezzature di lavoro, la sistemazione delle postazioni lavorative e l’abbattimento delle barriere architettoniche) che consentano, se non di superare, almeno di mitigare i limiti scaturenti dalla patologia inabilitante del lavoratore (si veda sull’argomento il punto 10 dell’Accordo Interconfederale Confindustria, CGIL, CISL, UIL del 12/12/2018 “Salute e sicurezza. Attuazione del patto per la fabbrica”).
Paradossalmente tale obbligo risulta maggiormente rilevante e impegnativo proprio a fronte della c.d. “disabilità sopravvenuta”, ossia nel caso in cui la “duratura” menomazione fisica, mentale, intellettuale o sensoriale del lavoratore sia intervenuta in costanza di rapporto ma non sia scaturita dall’inadempimento da parte del datore di lavoro degli obblighi posti a tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori (in questo caso, ex art. 1, c. 7, L. n. 98/1999, il datore è tenuto a garantire la conservazione del posto di lavoro a chi sia divenuto disabile in conseguenza di infortunio sul lavoro o malattia professionale).
La giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, infatti, in ossequio alla nozione europea di disabilità ricavabile dalla Direttiva 2000/78 CE e alla consolidata interpretazione della Corte di Giustizia Europea, ritiene che la malattia di lunga durata, non breve e transitoria (fra le tante, CGUE, 1 dicembre 2015, C-395/15) con attitudine ad incidere e ostacolare la vita professionale per un lungo periodo, integri, indipendentemente dal giudizio e dal grado di invalidità (per la computabilità nella quota di riserva ex l. n. 68/1999), la nozione di handicap ovvero di disabilità (Trib. Milano, sent. 11/02/2013 e Trib. Bologna ord. 18/06/2013) con ciò imponendo l’obbligo della previa verifica, a carico del datore di lavoro, circa la possibilità di adattamenti ragionevoli nei luoghi di lavoro ai fini della legittimità del rerecesso (Cass. Civ. Sez. Lav., 19/3/2018, n. 6798), conseguendone che laddove il datore di lavoro non provi di averli adottati (o non dimostri l’impossibilità di metterli in atto perché economicamente non proporzionati alle dimensione e alle caratteristiche dell’impresa o non rispettosi delle condizioni di lavoro dei colleghi dell’invalido, Cass. Civ. Sez. Lav., 26/10/2018, n. 27243), il licenziamento irrogato a un lavoratore disabile per sopravvenuta inidoneità psico-fisica allo svolgimento delle mansioni, deve ritenersi ingiustificato per violazione del principio di non discriminazione (Trib. Pisa, 16/04/2015).
La questione della sopravvenuta malattia di lunga durata che, compromettendo in modo persistente lo stato psico-fisico, integra la condizione di disabilità, necessariamente intercetta la disciplina dell’obbligo di sorveglianza sanitaria (ovvero, ex art. 2, lett. m), l’insieme degli atti medici finalizzati alla tutela dello stato di salute e sicurezza dei lavoratori, in relazione all’ambiente di lavoro, ai fattori di rischio professionali e alle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa), di cui al T.U.S.L. e, segnatamente, quella del giudizio medico relativo alla mansione specifica di lavoro.
Trattasi di questione assai rilevante se solo si riflette sui, preoccupanti, dati 2018 dell’Osservatorio nazionale sulla salute nelle regioni italiane secondo i quali circa il 40% della popolazione, ossia 24 milioni di italiani, sono affetti da malattie croniche o multi-croniche (poco più della metà); secondo stime di proiezione nel 2028 nella classe di età 45-74 anni, quelli affetti: da ipertensione saranno 7 milioni, da artrosi/artrite 6 milioni, da osteoporosi più di 2 milioni e mezzo, da diabete 2 milioni, da cardiopatie 1 milione abbondante. Secondo altri dati meno recenti (PH Work – Promoting health work for people whit chronic illness, 2011-2013) quasi il 25% della popolazione in età lavorativa è affetta da almeno una malattia cronica, con proiezioni in deciso aumento rispetto agli over 55, ossia la fascia di popolazione economicamente attiva maggiormente soggetta al rischio di idoneità solo parziale o discontinua al lavoro.
Al cospetto di tale situazione, pertanto, il giudizio di inidoneità o di idoneità parziale con limitazioni e/o prescrizioni, permanente (e non temporaneo) alla mansione lavorativa (ricorribile, sia dal lavoratore che dal datore, entro 30 giorni dalla comunicazione, nei confronti della commissione medica dell’ASL) espresso ex art. 41, c. 5, T.U.S.L., dal medico competente in relazione a patologie croniche durature, finisce fatalmente per sancire lo stato di disabilità del prestatore e con esso l’insorgenza da parte del datore di lavoro, vincolato ex art. 42 ad attuare le misure sanitarie, dell’obbligo di adottare gli accomodamenti ragionevoli di cui all’art. 3, c. 3-bis, del D. Lgs. n. 216/2003.
L’adempimento di tale obbligo condiziona, infatti, il potere di recesso del datore di lavoro, il quale potrà legittimamente licenziare il lavoratore (per giustificato motivo oggettivo) a fronte della sopravvenuta inidoneità alla mansione per motivi di salute, solo dopo aver adottato tutti gli accomodamenti ragionevoli, oppure dopo aver dimostrato l’inesistenza o l’irragionevolezza, se esistenti, dei possibili adattamenti per comprovata sproporzione degli oneri finanziari necessari per realizzarli: pena la reintegrazione (e il risarcimento del danno) del lavoratore per licenziamento discriminatorio.
Se il giudizio, permanente, di idoneità parziale alla mansione con limitazioni (misure di restrizione, come ad es. l’indicazione di un orario lavorativo ridotto o del divieto di spostare oggetti superiori ad un determinato peso o, ancora, di compiere determinati movimenti) e prescrizioni (terapie e profilassi come ad es. l’indicazione di determinati strumenti o attrezzature di ausilio e supporto o particolari modalità di comportamento lavorativo, tipo pause o interruzioni), frequentemente utilizzata dai medici competenti, finisce sostanzialmente per individuare i ragionevoli accorgimenti, organizzativi e/o tecnici, che permettono alla persona disabile di conservare il posto di lavoro e non essere discriminata, quello di inidoneità impone, invece, di adibire, ove possibile, il lavoratore a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori (disponendone, se necessario vista l’obbligatorietà della misura, il trasferimento da un’unità produttiva ad un’altra per evidenti ragioni organizzative), garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza.
Siffatta ultima previsione, contenuta all’art. 42 T.U.S.L., costituiva, come noto, una delle principali deroghe al divieto, imposto dall’art. 2103 c.c. nella sua previgente formulazione, di trasferimento del lavoratore a mansioni inferiori, senonché, la riscrittura del dato codicistico disposta dal c.d. “Jobs act” (D. Lgs. 81/2015) ha determinato il venir meno della preclusione in parola.
Il “nuovo” art. 2103 c.c., infatti, contempla oggi sia il trasferimento unilaterale a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore (purché rientranti nella stessa categoria legale), sia (al c. 6) il c.d. “patto di dequalificazione”: accordo, quest’ultimo, da raggiungersi “in sede protetta”, finalizzato a sancire il mutamento peggiorativo delle mansioni e/o della categoria di lavoro, nonché del relativo trattamento retributivo, “nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita”.
Alla luce di quanto sopra, occorre, quindi, delineare i rapporti intercorrenti tra la previsione di cui all’art. 42 T.U.S.L. e l’art. 2103 c.c., per comprendere quale norma, tra le due, sia destinata a prevalere qualora il caso concreto sia sussumibile in entrambe le fattispecie astratte.
In altri termini, occorre chiedersi se, una volta formulato il giudizio, permanente, di inidoneità o di idoneità parziale con accomodamenti “irragionevoli” alla specifica mansione da parte del medico competente, debba necessariamente applicarsi la disciplina dell’art. 42 (sicché al lavoratore spetterebbe il trattamento economico previsto per le mansioni di provenienza), ovvero possa procedersi ad un accordo di dequalificazione ex art. 2103, c. 6, c.c. (con conseguente riduzione della retribuzione).
Ebbene, ai fini della questione appena esposta, sembrerebbe invocabile il principio di specialità (per cui lex specialis derogat generali), quale criterio utile alla soluzione delle antinomie normative; principio che condurrebbe all’applicazione della norma speciale (in concreto, quella prevista dal T.U.S.L.) a scapito di quella generale (codicistica), anche se, in un ottica di rinunzia (con transazione) ex art. 2113 c.c., conciliata in sede protetta, pare, nel caso concreto, del tutto ammissibile anche il “patto di dequalificazione” ex art. 2103, c. 6, c.c.
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Consentire il pernottamento ad estranei nei locali aziendali è giusta causa di licenziamento

Pubblichiamo di seguito l’abstract dell’approfondimento di Valentina Messana per Il Quotidiano Giuridico di Wolters Kluwer, sul tema del licenziamento per aver consentito ad un estraneo il pernottamento nei locali aziendali.
L’articolo completo è disponibile per gli abbonati a questo link.
Il commento ha ad oggetto la Sentenza della Corte di Cassazione n. 13420 del 2019 che ha confermato la pronuncia n. 732/2017 della Corte d’ Appello di Palermo. I giudici siciliani, decidendo su rinvio da Cassazione n. 2821 del 217, avevano rigettato il ricorso di un lavoratore licenziato per aver consentito il pernottamento in locali aziendali, ormai in disuso, a persona estranea alla società. La Sentenza in commento, di carattere squisitamente processualistico, non conduce ad alcun ribaltamento del principio di diritto sostanziale affermato all’esito del giudizio di appello. L’intento umanitario e caritatevole non può costituire scriminante risultando la condotta del lavoratore particolarmente grave per il pregiudizio e le responsabilità cui la società è stata esposta.

Renato D’Andrea relatore al convegno “Creazioni d’arte e soluzione in arbitrato delle controversie”

28 Giugno 2019, Biennale di Venezia. L’avvocato Renato D’Andrea tra i relatori al convegno “Creazioni d’arte e soluzione in arbitrato delle controversie” sul tema “Il valore artistico dell’industrial design”.
Si tratterà di una giornata di tavole rotonde rivolte a tutti i protagonisti del mondo dell’arte e dello spettacolo, in cui si affronteranno i temi legati alla tutela delle opere d’arte, della fotografia, dell’industrial design e delle relative controversie, esaminandone i casi più comuni.
Sarà un momento di confronto sul tema dell’arbitrato come valido strumento per la risoluzione delle liti nonché dell’importanza dei soggetti coinvolti, arbitri e istituzioni arbitrali, che considerando l’alto livello tecnico del settore devono assicurare un altrettanto elevata specializzazione nella materia.
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Intelligenza artificiale: l’algoritmo può aiutare la parità in ufficio

Condividiamo di seguito l’intervista a Giulietta Bergamaschi, pubblicata su Economia – Corriere della Sera, in merito all’impatto della digitalizzazione e dell’intelligenza artificiale sul mondo del lavoro, una rivoluzione già in atto che solleva alcune questioni che sarà necessario prevedere e gestire.
La digitalizzazione e l’intelligenza artificiale non impattano solo sulle tecnologie, ma rivoluzionano anche il modo di lavorare, portando sulla scena inedite questioni di gestione del personale e di diritto del lavoro. Fra questi, quali sono i rischi di una maggiore interazione uomo / macchina? «La materia è complessa e bisogna ancora fare luce su tutte le diverse implicazioni – commenta l’avvocata Giulietta Bergamaschi, managing partner dello studio legale Lexellent, specializzato in diritto del lavoro -. Una delle questioni di affrontare, elementari ma con un impatto quotidiano sul lavoro, potrebbe riguardare la responsabilità delle azioni. Dato che i robot hanno una sfera di autonomia decisionale, quando entrano in relazione con i lavoratori assumento iniziative, chi è responsabile delle loro scelte? (…)».
Clicca qui per scaricare l’articolo in formato PDF

L’inserimento nel mondo del lavoro delle persone affette da disabilità – La L. 23 marzo 1999, N. 68 a 20 anni dalla sua emanazione

Pubblichiamo di seguito l’articolo a cura di Giulietta Bergamaschi e Alberto Buson su Diritto24. Il contributo analizza lo stato dell’arte a 20 anni dall’emanazione della Legge 23 marzo 1999 n. 68 “Norme per il diritto al lavoro dei disabili”.
Con la Legge 23 marzo 1999, n. 68 recante “Norme per il diritto al lavoro dei disabili“, si è cercato di superare un sistema normativo, fino a quel momento, a vocazione puramente assistenziale, ponendo le basi per la costruzione di un modello di piena (?) inclusione sociale.
Finalità della legge è, infatti, quella di promuovere l’inserimento e l’integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro, attraverso mirati servizi di sostegno e di collocamento (come, ad esempio, il c.d. “Collocamento mirato” di cui all’art. 2).
Lo scopo che si prefigge il legislatore è, dunque, quello di favorire, anche attraverso la previsione di assunzioni obbligatorie, l’inserimento all’interno delle aziende di persone con disabilità, le quali altrimenti rischierebbero di essere escluse dal mondo del lavoro e di rimanere emarginate dalla nostra stessa società.
Passando ad analizzare i contenuti della norma, si può osservare come all’art. 1, comma 1, vengono individuate le diverse categorie di soggetti interessati all’applicazione delle disposizioni normative in essa contenute.
Per tali persone, così come identificate dall’art. 1, il legislatore prevede, all’art. 2, il c.d. “Collocamento mirato”, intendendo per tale “quella serie di strumenti tecnici e di supporto che permettono di valutare adeguatamente le persone con disabilità nelle loro capacità lavorative e di inserirle nel posto adatto, attraverso analisi di posti di lavoro, forme di sostegno, azioni positive e soluzioni dei problemi connessi con gli ambienti, gli strumenti e le relazioni interpersonali sui luoghi quotidiani di lavoro e di relazione”.
Il Collocamento mirato si concretizza poi attraverso l’istituto delle assunzioni obbligatorie, di cui al successivo art. 3 della legge in esame.
Con tale disposizione normativa, la Legge 68/99 ha previsto per i datori di lavoro, sia privati che pubblici, l’obbligo di assumere i lavoratori appartenenti alle categorie di cui all’art. 1, nella misura che segue:
a) 7% dei lavoratori occupati, se la società occupa più di 50 dipendenti;
b) 2 lavoratori, se la società occupa da 36 a 50 dipendenti;
c) 1 lavoratore soltanto, se la società occupa da 15 a 35 dipendenti.
Al riguardo, si deve precisare che la determinazione del numero di persone affette da disabilità da assumere obbligatoriamente è dato dal computo, tra gli stessi dipendenti, di tutti i lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato (art. 4, L. 68/99). Tra l’altro dal 1° gennaio 2018 è scattato l’ulteriore obbligo per le imprese che occupano da 15 a 35 dipendenti di assumere un lavoratore disabile anche se non vi sono state nuove assunzioni.
Il legislatore, oltre ad istituire servizi mirati di collocamento (art. 6) e disciplinare le modalità delle assunzioni obbligatorie (art. 7), ha poi previsto, nel rispetto dell’art. 33 del Regolamento UE n. 651/2014 della Commissione del 17 giugno 2014, specifici incentivi a favore di quei datori di lavoro che assumono persone affette da disabilità con contratti a tempo indeterminato.
Allo scopo, dunque, di agevolare ulteriormente l’inserimento nel mondo del lavoro di tali persone, l’art. 13 ha concesso una serie di incentivi economici, da calcolarsi sulla retribuzione mensile lorda imponibile ai fini previdenziali, che variano in funzione del grado di riduzione della capacità lavorativa.
Dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 151/2015, gli incentivi di cui possono beneficiare i datori di lavoro che assumono lavoratori disabili sono i seguenti:
• Per l’assunzione a tempo indeterminato di lavoratori disabili con riduzione della capacità lavorativa superiore al 79% –› 70% della retribuzione mensile lorda imponibile ai fini previdenziali, con durata dell’incentivo pari a 36 mesi;
• Per l’assunzione a tempo indeterminato di lavoratori disabili con riduzione della capacità lavorativa tra il 67% e il 79% –› 35% della retribuzione mensile lorda imponibile ai fini previdenziali, con durata dell’incentivo pari a 36 mesi;
• Per l’assunzione a tempo indeterminato di lavoratori con disabilità psichica ed intellettiva con riduzione della capacità lavorativa superiore al 45% –› 70% della retribuzione mensile lorda imponibile ai fini previdenziali, con durata dell’incentivo pari a 60 mesi;
Viene, inoltre, riconosciuta un’agevolazione anche per le assunzioni a tempo determinato di durata non inferiore a 12 mesi di persone affette da disabilità psichica ed intellettiva con riduzione della capacità lavorativa superiore al 45%. In tal caso l’incentivo spetta per tutta la durata del contratto.
Con la Legge di Bilancio 2019, sono state inoltre previste nuove risorse finanziarie destinate a tali incentivi (la L. 30 dicembre 2018, n. 145 con l’art. 1, comma 520, ha disposto infatti che “La dotazione del Fondo per il diritto al lavoro dei disabili di cui all’art. 13, comma 4, della legge 12 marzo 1999, n. 68, è incrementata di 10 milioni di euro per l’anno 2019”).
Dopo una rapida panoramica degli istituti più importanti disciplinati dalla legge in commento, appare doveroso domandarsi se a distanza di 20 anni dalla sua entrata in vigore l’obiettivo di promuovere l’inserimento e l’integrazione lavorativa delle persone affette da disabilità nel mondo del lavoro sia stato effettivamente raggiunto dal legislatore italiano.
In tale quadro, occorre anche considerare che il D.Lgs. n. 151/2015 aveva previsto l’emanazione di uno o più decreti legislativi (da adottarsi entro 180 giorni) con i quali definire specifiche linee guida in materia di collocamento mirato delle persone con disabilità al fine di favorirne l’inserimento lavorativo sulla base di determinati principi quali: i) la promozione di una rete integrata con i servizi sociali, sanitari, educativi e formativi del territorio e con l’INAIL; ii) la promozione di accordi territoriali con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, le associazioni delle persone con disabilità e i loro familiari e con le altre organizzazioni del terzo settore; iii) l’individuazione di modalità di valutazione bio-psico-sociale della disabilità e la definizione dei criteri di predisposizione dei progetti di inserimento lavorativo che tengano conto delle barriere e dei facilitatori ambientali rilevati; iv) l’analisi delle caratteristiche dei posti di lavoro da assegnare, anche con riferimento agli accomodamenti ragionevoli che il datore di lavoro è tenuto ad adottare; v) la promozione dell’istituzione di un responsabile dell’inserimento lavorativo nei luoghi di lavoro, con compiti di predisposizione di progetti personalizzati e di risoluzione dei problemi legati alle condizioni di lavoro (c.d. figura del “Disability manager”); vi) l’individuazione di buone pratiche di inclusione lavorativa.
Ebbene, nonostante la volontà di procedere ad una riforma del collocamento mirato, ad oggi, non sono stati ancora emanati i decreti legislativi attuativi.
Sebbene dai dati dell’Ottava Relazione al Parlamento sul diritto al lavoro delle persone disabili relativa al biennio 2014-2015, presentata dal Ministro del Lavoro e delle politiche sociali il 28 febbraio 2018, emerga rispetto al passato un aumento del numero degli avviamenti effettivi al lavoro con una crescita,fra i contratti stipulati, della quota di quelli a tempo indeterminato, il tasso di occupazione delle persone affette da disabilità continua a rimanere di gran lunga inferiore rispetto a quello dei lavoratori senza disabilità.
Ad oggi, quindi, nonostante la legge preveda a favore delle imprese anche degli importanti incentivi per le assunzioni, la mancata attuazione della riforma del collocamento mirato fa pensare che l’obiettivo prefissato dalla Legge n. 68/99, a distanza di 20 anni, non sia stato affatto raggiunto.
La piena realizzazione degli scopi prefigurati dal legislatore del 1999, dunque, non potrà che passare da un sistema normativo efficacemente e concretamente volto a garantire un utile inserimento del disabile nell’organizzazione aziendale attraverso la scelta del posto di lavoro più adatto alle caratteristiche specifiche del soggetto protetto. Soltanto in tale modo si potrà neutralizzare il più possibile l’handicap e valorizzare completamente la professionalità di tali persone, al pari di ogni altro lavoratore presente in azienda.
L’articolo è disponibile anche qui.

Lavoratori digitali: personaggi in cerca d’autore…e di tutele

L’ultimo editoriale del Prof. Francesco Bacchini, per il Quotidiano di IPSOA, torna sul tema dei lavoratori digitali e in particolare di riders e fattorini telematici, la cui posizione è stata oggetto di una recente normativa regionale nel Lazio e di un accordo aziendale in Toscana.

Sempre sui riders (anche nella più ampia accezione di lavoratori “digitali”) per rilevare (ancora) che non ci siamo. A dimostrarlo due fatti recenti. L’entrata in vigore della legge della regione Lazio n. 4 del 2019 e la stipula di un accordo aziendale per disciplinare il rapporto di lavoro (subordinato) dei “fattorini telematici” in Toscana. La legge regionale, nel promuovere la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori digitali, evidenzia chiari profili di incostituzionalità. L’accordo, nato con l’intento di disciplinare la figura professionale del rider, sembra fallire nei suoi intenti. Diventa allora sempre più urgente un intervento sistematico del legislatore nazionale. In attesa, quale strada è possibile seguire?

La legge della regione Lazio n. 4, del 12 aprile 2019 (in vigore dal successivo 17), tenta di promuovere la tutela della salute e sicurezza dei prestatori nell’ambito del “lavoro digitale”; la contrattazione collettiva locale (provincia di Firenze) firma un accordo aziendale con una neonata impresa di food delivery per disciplinare il rapporto di lavoro (subordinato) dei riders (20 in tutto, per ora), nella speranza che altri imprenditori facciano altrettanto.
 
Insomma, sempre di lavoro “povero” si finisce per parlare di questi tempi: fattorini, autisti, promotori, venditori, comunque bassa manovalanza “digitale”, costantemente in bilico fra subordinazione e autonomia, fra essere o non essere degni di tutela.
Nulla di clamoroso, invero, ma ce n’è abbastanza per scriverne ancora.
Riguardo all’iniziativa legislativa laziale, essa trae origine dalla volontà (tutta politica) di introdurre, in mancanza di una specifica normativa di livello nazionale, alcuni strumenti volti a tutelare la dignità, la salute e la sicurezza dei lavoratori digitali.
Già a fronte di siffatta dichiarazione d’intenti, foriera di svariati problemi in ordine alla ripartizione della potestà legislativa Stato-Regioni, appare necessario soffermarsi, seppur brevemente sulla struttura del testo normativo.
 
Nello specifico, la legge (riecheggiando la “Carta dei diritti fondamentali del lavoro digitale nel contesto urbano della città metropolitana di Bologna) procede ad individuare i lavoratori digitali, quali destinatari delle tutele ivi previste definendoli (art. 2, c. 2), in modo volutamente assai astratto, come coloro che, “indipendentemente dalla tipologia e dalla durata del rapporto di lavoro, offrono la disponibilità della propria attività di servizio all’impresa, di seguito denominata piattaforma digitale, che organizza l’attività al fine di offrire un servizio a terzi mediante l’utilizzo di un’applicazione informatica, determinando le caratteristiche del servizio e fissandone il prezzo”. Il Capo II declina i fondamentali aspetti di tutela (anche) di tali lavoratori, ossia: salute e sicurezza (art. 3); assistenza e previdenza (art. 4); compenso e indennità speciali (art. 5); informativa preventiva in ordine a salute e sicurezza e modalità di esecuzione del rapporto (art. 6); parità di trattamento e non discriminazione nella determinazione del (proprio) rating reputazionale, ossia della customer satisfaction, vale a dire del giudizio valutativo del servizio da parte del cliente finale (art. 7). Chiude il Capo l’apparato sanzionatorio amministrativo pecuniario (da 500 a 2000 €) finalizzato alla repressione degli obblighi di cui sopra (art. 8).
 
Analizzando, più in particolare, i singoli articoli, si evidenzia come, ex art. 3, la Giunta, sentiti la Commissione consiliare competente e il Comitato regionale di coordinamento di cui all’art. 7 del d.lgs. n. 81/2008, individua, con propria deliberazione, le misure dirette a promuovere la tutela della salute e della sicurezza del lavoratore digitale, con il coinvolgimento delle piattaforme digitali, le quali, “nel rispetto della normativa vigente in materia e al fine di garantire al lavoratore digitale la tutela piena e integrale contro gli infortuni nell’attività di servizio”, devono adottare “interventi e misure per la formazione in materia di salute e di sicurezza sul lavoro del lavoratore digitale e, in particolare, sui rischi e danni derivanti dall’esercizio dell’attività di servizio e sulle procedure di prevenzione e di protezione”.
Le stesse piattaforme digitali, inoltre, con oneri a proprio carico, sono tenute a fornire al lavoratore digitale dispositivi di protezione (cd. “DPI”) conformi alla disciplina in materia di salute e di sicurezza sul lavoro, nonché a provvedere alle spese di manutenzione dei mezzi e degli strumenti (spesso, se non sempre, di proprietà dei lavoratori) utilizzati per l’attività di servizio.
 
Importanti (e confuse) sono altresì le prescrizioni contenute nel successivo art. 4, a tenore del quale grava sulle piattaforme digitali l’onere di stipulare un’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali in favore dei lavoratori digitali, per danni cagionati a terzi durante lo svolgimento dell’attività di servizio, nonché quella, non meglio identificata, “per la tutela della maternità e della paternità”, senza franchigia a carico del lavoratore, il quale ha, inoltre, diritto alla tutela previdenziale obbligatoria “secondo quanto disposto dalla normativa nazionale” (presumibilmente in relazione alla specifica e concreta tipologia di rapporto di lavoro stipulato).
 
Altro onere gravante sulle piattaforme digitali meritevole di un breve cenno, è quello relativo alla predisposizione di un’informativa preventiva che illustri al lavoratore digitale:
– i rischi generali ed i rischi specifici connessi alla particolare modalità di svolgimento del lavoro di servizio;
– il luogo in cui è svolta l’attività di servizio;
– l’oggetto dell’attività di servizio;
– il compenso (non inferiore alla misura oraria minima, con eventuali maggiorazioni per determinate situazioni, prevista dai CCL, con espressa esclusione del cottimo) e le indennità speciali (indennità di prenotazione)
– gli strumenti di protezione assegnati;
– le modalità con cui l’algoritmo determina l’incontro fra la domanda e l’offerta di servizio;
– la procedura di verifica imparziale del rating reputazionale del lavoratore.
 
Il Capo III individua invece “gli strumenti” amministrativi e operativi di cui la Regione si avvarrà per dialogare con tutti i soggetti, pubblici e privati, che operano nel settore, fornendo loro servizi di supporto attraverso la creazione di un “Portale del lavoro digitale”, composto dall’anagrafe regionale dei lavoratori digitali e dal registro regionale delle piattaforme digitali.
Le piattaforme (se in regola con le disposizioni contenute nella legge) e i lavoratori digitali potranno iscriversi gratuitamente accedendo al programma annuale degli interventi aventi ad oggetto:
– l’informazione sui diritti;
– la formazione in materia di salute e di sicurezza;
– le forme di tutela integrativa in materia di previdenza e di assistenza.
 
La Regione promuove, inoltre, la stipula di accordi con INPS, INAIL e compagnie di assicurazione finalizzate ad attuare la disciplina delle tutele previdenziali e assicurative, nonché con l’INL per il monitoraggio e il controllo del lavoro digitale.
Ricostruiti gli obiettivi e i principali contenuti della Legge in commento, occorre adesso coglierne i profili di criticità.
Le perplessità sollevate attengono, essenzialmente, alla sua compatibilità con il sistema di riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni di cui all’art. 117 Cost., come riformato dalla L. Cost. n. 3/2001.
 
La questione appena posta in luce, di soluzione tutt’altro che immediata, trae origine dalla discussa collocazione delle materie di interesse lavoristico nell’impianto ripartitorio scolpito nel citato art. 117 Cost.
Tale norma, al c. 2, rimette all’esclusiva competenza statale il potere di legiferare nei seguenti ambiti: “ordinamento civile e penale” (lett. L), “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (lett. M), “previdenza sociale” (lett. O), mentre, al c. 3, individua, devolvendole alla legislazione concorrente, talune materie che intercettano a vario titolo il diritto del lavoro, tra cui “tutela e sicurezza del lavoro”, “previdenza complementare e integrativa” e “tutela della salute”, stabilendo, poi, al c. 4, che le materie residuali (non attribuite alla potestà esclusiva dello Stato ovvero a quella concorrente Stato – Regioni) vanno rimesse, in via sussidiaria, alla competenza legislativa regionale.
 
Ciò posto, è agevole intuire come le incertezze sottese alla devoluzione del potere legislativo in materia di lavoro dipendano, in particolare, quanto meno da due fattori: da un lato, l’equivocità della formula “tutela e sicurezza del lavoro”; dall’altro, la difficoltà di far convivere, senza interferenze, l’intervento esclusivo dello Stato e quello concorrente Stato – Regioni in un panorama di materie spesso dotate di confini non definiti, variabili e, per giunta, destinati a intersecarsi.
 
Proprio tali due profili di criticità, per l’appunto, stanno alla base della dubbia legittimità costituzionale della legge in commento.
Vediamone le ragioni.
 
Il primo dato, di certo non destinato a passare inosservato, consiste nel rilievo per cui la disciplina regionale appena entrata in vigore intende innanzitutto promuovere la tutela della salute e la sicurezza del lavoro quali principi fondamentali per garantire alla persona un lavoro protetto e dignitoso, nel rispetto, tra gli altri, proprio dell’art. 117, c. 3, Cost.
Nonostante il legislatore regionale dichiari di agire nel rispetto dei limiti previsti dalla Costituzione in tema di competenza normativa concorrente, non appare che ciò sia, in realtà, avvenuto.
Infatti, posto che, come sopra richiamato, la Costituzione include la materia della “tutela e sicurezza del lavoro” tra quelle di legislazione concorrente, v’è da rilevare come la stessa giurisprudenza costituzionale sia in passato intervenuta a delimitare l’effettiva portata del potere legislativo regionale in tale settore.
 
A questo proposito, in particolare, il Giudice delle leggi ha chiarito che, in concreto, compete alle Regioni soltanto la disciplina dell’organizzazione del mercato del lavoro, nell’accezione del “collocamento” e delle “politiche attive del lavoro”, restando escluse da questo ambito, di esclusiva pertinenza del legislatore nazionale, tutte le norme che incidono sulle reciproche obbligazioni che sorgono tra le parti di un contratto di lavoro.
Si tratta di principi che, in realtà, non sembrano rispettati dalla legge della Regione Lazio: in particolare, è dall’analisi del Capo II (il Capo III, di tipo promozionale, pare, tutto sommato, compatibile) che si evince come il legislatore territoriale sia intervenuto su aspetti fondamentali del rapporto di lavoro, incorrendo così nell’abusodella propria potestà normativa per come intesa nell’interpretazione del giudice costituzionale.
Il rispetto soltanto formale del dato costituzionale si evince, nello specifico, dall’intenzione del Legislatore regionale di disciplinare istituti in realtà riconducibili alla potestà esclusiva dello Stato perché rientranti in materie di cui all’art. 117, c. 2, Cost., quali l’ordinamento civile, la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti sociali e la previdenza sociale.
 
Tra tali istituti rientrano, in particolare, il compenso spettante al lavoratore digitale ex art. 5, nonché le disposizioni relative alle tutele assistenziali e previdenziali a norma dell’art. 4, oltre che la previsione, di cui all’art. 8, in tema di sanzioni amministrative pecuniarie connesse alla violazione delle prescrizioni poste dagli artt. 3 -7 della stessa legge.
 
Gli aspetti per i quali è possibile ipotizzare l’incostituzionalità della legge acquistano ancora più consistenza ove si consideri la mancata denominazione (intenzionale) del rapporto di lavoro dei riders da parte del legislatore regionale.
Il fatto cioè che la Regione non inquadri i lavoratori digitali come autonomi o subordinati, al di là del vizio originario della legge per carenza di potere normativo “a monte”, espone al rischio di antinomie tra i contenuti delle tutele ivi previste e la fisionomia di taluni istituti già disciplinati dal legislatore nazionale.
 
È da rilevare, infatti, come il legislatore regionale, così facendo, estenda, seppur genericamente, tutele tipiche del lavoro subordinato (ad esempio, quelle previdenziali ed assistenziali) a lavoratori la cui qualificazione giuridica è, in realtà, ancora incerta e, comunque, rimessa alla giurisdizione del lavoro.
In ultima analisi, al di là dei profili di incostituzionalità sopra adombrati, la legge in commento si presenta, anche e soprattutto, di dubbia opportunità alla luce delle osservazioni in termini di politica del diritto: sembra, infatti, che la stessa ponga le basi affinché il lavoro digitale sia destinatario di una regolamentazione tutt’altro che omogenea nel contesto nazionale, esponendo al rischio che la disciplina in materia venga affidata esclusivamente all’arbitrio dei singoli legislatori regionali, ingenerando tutt’altro che improbabili rischi di “dumping sociale” ancorché in una prospettiva eminentemente “rimediale”.
 
Le riflessioni in merito a quali siano gli strumenti oggi utilizzabili al fine di disciplinare il lavoro digitale si rivelano, inoltre, ancor più attuali, arricchendosi negli ultimi giorni, di un nuovo ambito di contrattazione collettiva.
Risale, infatti, allo scorso 8 maggio la notizia riguardante un’azienda fiorentina attiva (solo da un paio di mesi) nel settore della consegna di cibo a domicilio, la quale ha siglato con i sindacati locali (provincia di Firenze) un accordo di secondo livello finalizzato all’assunzione di 20 riders a tempo indeterminato, nonché al riconoscimento dei diritti spettanti al lavoratore subordinato: ciò sul fronte sia della retribuzione mensile, sia del diritto alle ferie, ai permessi o alle assenze per malattia e infortunio (tutte prerogative ancora non conferite, come anticipato, da norme nazionali valide in senso generale ed astratto, nei confronti di tali tipologie di lavoratori).
A destare perplessità è, anzitutto, la qualificazione formale del contratto in esame, intitolato, testualmente, “Verbale di accordo quadro – riders Toscana”.  Scarsamente comprensibili sono le ragioni di tale dicitura.
 
L’incipit del testo in esame, infatti, enuncia la volontà delle parti di stabilire un accordo quadro sperimentale per la Provincia di Firenze e successivamente anche per la Regione Toscana. Ciò dichiarato sul piano delle aspettative di diffusione dell’iniziativa in oggetto, rimane comunque fermo cha a sottoscrivere l’accordo è stata unicamente la società datrice e non, invece, il complesso delle organizzazioni esponenziali di categoria: conseguentemente, nessun dubbio pare possa nutrirsi rispetto alla validità di tale atto nell’ambito, per ora, della sola azienda firmataria e non a livello regionale.
 
Ciò posto, l’accordo in oggetto, con il dichiarato intento di disciplinare la figura professionale del “rider” anche in relazione a nuovi modelli produttivi ed organizzativi introdotti dalla GIG economy, richiama il CCNL nazionale Merci, logistica e spedizioni (per come modificato dall’ipotesi di rinnovo risalente al dicembre 2017 che ha, tra l’altro, abolito il divieto di utilizzo del lavoro a chiamata) e, spiegano gli stessi sindacati, dovrebbe comportare, in favore dei neoriders fiorentini, il pagamento delle ore effettivamente lavorate e non in base alle consegne, utilizzando la cornice tipologica del personale viaggiante impiegato in mansioni discontinue (una sorta di variazione sul tema del lavoro intermittente) di cui ai Regi Decreti n. 692 e 2657 del 1923 (sia consentito sottolineare il paradosso che per regolare il lavoro dei “fattorini telematici” della GIG economy digitale, si debba fare riferimento e utilizzare norme pensate nel lontanissimo e “arcaico” 1923).
Questa affermazione, da un’analisi del medesimo accordo, si rileva, comunque, infondata.
 
Le previsioni negoziali, infatti, definiscono l’orario di lavoro del rider come il tempo dedicato a tutte le operazioni di trasporto del prodotto (ritiro, tragitto e consegna; v. Punto D, 1), aggiungendo poi che esulano dall’orario effettivo di lavoro tutti i tempi non ricompresi nel precedente punto 1 e che per i tempi di disponibilità è dovuto unicamente il trattamento di indennità oraria pari a 0,60 euro lordi (Punto D, 2).
Di conseguenza, in virtù delle previsioni richiamate, il rider avrà diritto alla retribuzione oraria prevista dal CCNL di categoria soltanto ove riceva ordini di consegna; per converso, qualora nessun utente del portale chieda di fruire del servizio a domicilio, al lavoratore sarà riservato il trattamento economico orario pari a 0,60 euro lordi.
 
Siffatta disciplina, in concreto, smentisce, quindi, le premesse annunciate in merito alla stima del compenso sulla base delle ore di lavoro e non, invece, in base a ciascuna consegna portata a compimento.
In attesa, dunque, di un intervento sistematico del legislatore nazionale inteso a tutelare il lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni”, e visti i richiamati profili di possibile e probabile incostituzionalità delle iniziative normative regionali, appare ragionevole ritenere che lo strumento più idoneo a disciplinare la materia in esame continui ad essere quello della contrattazione collettiva, anche di secondo livello; in tale caso, tuttavia, non sembra che l’accordo in commento abbia colto nel segno.
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