Lexellent partecipa a Global Inclusion

SAVE THE DATE! Bologna, 11 settembre 2019 – Lexellent parteciperà a @Global Inclusion in qualità di sponsor.

L’evento, di cui Lexellent condivide principi e valori, è uno spazio di responsabilità sociale per imprese, associazioni non profit, istituzioni, scuole e università che scelgono la strada dell’inclusione.

A breve riceverete nuove informazioni! www.global-inclusion.org

 

Trasparenza e prevedibilità delle condizioni di lavoro dopo la Direttiva UE

Su Guida al Lavoro –  Il Sole24Ore, l’approfondimento normativo a firma della managing partner di Lexellent Giulietta Bergamaschi, sulla Direttiva UE 20 giugno 2019 n. 1152, in vigore dal prossimo 31 luglio 2019.

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Il legislatore europeo ritorna sul tema della trasparenza delle condizioni di lavoro, in linea con i radicali mutamenti economici degli ultimi anni, che hanno ampliato le esigenze di stabilità nel mondo del lavoro; la direttiva, il cui recepimento segnerà l’abrogazione della n. 533/91, oltre a ridisegnare i confini dell’obbligo informativo gravante sulla parte datoriale, detta le nuove prescrizioni minime indispensabili a garantire la prevedibilità delle condizioni contrattuali da parte del lavoratore.
L’articolo completo è disponibile, per gli abbonati, sul portale di Guida al lavoro.

Lexellent con Saes Getters per il contratto di prossimità di Avezzano

Lexellent con la managing partner Giulietta Bergamaschi e la senior associate Hulla Bisonni, ha supportato Saes Getters SpA, società italiana leader nel campo dei prodotti e delle soluzioni richieste per una grande varietà di applicazioni tecnico/scientifiche ed industriali in cui sono necessarie condizioni di vuoto e gas ultra-puri, nelle fasi prodromiche alla sottoscrizione del contratto di prossimità per l’unità produttiva di Avezzano in accordo con la RSU e le OO.SS. provinciali FIM-CISL e UIM-UILM.
L’intesa, siglata in esecuzione delle deroghe conferite dal legislatore, è stata raggiunta dalle parti al fine di ottenere, attraverso una maggiore flessibilità organizzativa e produttiva, un incremento di competitività e di migliore occupazione dell’unità produttiva, indispensabile per far fronte alle richieste del mercato, con ciò derogando alla disciplina del Decreto Dignità e del CCNL Metalmeccanica Aziende Industriali in tema di contratto a tempo determinato.
Tale accordo riguarda i dipendenti assunti con contratto a tempo determinato e i lavoratori impiegati con contratto di somministrazione presso l’unità produttiva abruzzese, che nel complesso occupa più di 200 persone.
Il contratto, che è stato siglato dalle parti sociali lo scorso 18 luglio, ha durata triennale, dal 1° agosto 2019 al 31 luglio 2022.
La notizia è stata ripresa da:

Burnout lavorativo. Perché l’azienda deve combatterlo e prevenirlo

L’ultimo editoriale del Prof. Francesco Bacchini, per il Quotidiano di IPSOA, parla di burnout lavorativo. Cerchiamo di capire meglio di cosa si tratta.

Sentimenti di esaurimento o esaurimento energetico. Maggiore distanza mentale dal proprio lavoro, negativismo o cinismo. Ridotta efficacia professionale. Sono le tre dimensioni principali del burnout, incluso quale “fenomeno professionale” nell’undicesima revisione della classificazione internazionale delle malattie da parte dell’organizzazione mondiale della sanità, in vigore dal 2022. Il burnout si pone, in modo esplicito, quale effetto del fallimento e dell’insuccesso nella gestione dello stress lavorativo, che si è cronicizzato, diventando irreversibile. Rilevare le disfunzioni nell’organizzazione del lavoro e gestirle è solo un primo passo per l’azienda. Quali sono gli altri?

Secondo la letteratura scientifica propria del settore della psicologia e della psichiatria sociale, declinate in chiave lavoristica, il burnout è l’esito patologico di un processo stressogeno cronico che interessa, in varia misura, diverse tipologie di operatori e di professionisti quotidianamente e ripetutamente impegnati o, più esattamente, compromessi ed emotivamente coinvolti in attività lavorative che implicano relazioni interpersonali.
 
Nell’accezione di cui sopra, il termine burnout, letteralmente bruciato (o bruciarsi), consumato (o consumarsi), ricomprende manifestazioni psicologiche e comportamentali quali fenomeni di affaticamento, logoramento, esaurimento emotivo, depersonalizzazione, ridotta realizzazione personale e improduttività lavorativa, ma anche una costellazione di altri sintomi come somatizzazioni, apatia, eccessiva stanchezza, risentimento, infortuni, connessi, usualmente, allo svolgimento di attività professionali a carattere sociale, più precisamente all’esecuzione di tutte quelle occupazioni che si sostanziano in mansioni di aiuto, ascolto e cura (helping professions).
 
Gli studi e le ricerche più significativi in materia di burnout hanno, infatti, riguardato gli operatori (medici e infermieri) dei reparti psichiatrici, dei pronto soccorso, della terapia intensiva, dei reparti oncologici (o di quelli in cui si assistono i malati di Aids) o, comunque, dei reparti e degli ambulatori per patologie croniche e invalidanti, ma anche gli operatori dei servizi sociali, gli psicologi, i pedagogisti, i docenti degli istituti scolastici, gli educatorie in genere tutti coloro che operano a stretto contatto con soggetti disadattati in contesti sociali degradati, fino ad arrivare agli agenti delle forze dell’ordine, ai vigili del fuoco e agli operatori del volontariato e ciò in quanto il contatto con un’utenza bisognosa di protezione, sofferente, emarginata, comunque problematica, è maggiormente coinvolgente e carico di emotività psichicamente traumatica.
 
Al netto dei fattori soggettivi e delle assai mutevoli caratteristiche personali, al di là della capacità di resistenza alle frustrazioni e di adozione di più o meno efficaci strategie di copying (adattamento), il collasso fisico e mentale a cui, progressivamente, approda il burnout seguendo le quattro dimensioni dell’esaurimento emotivo, della spersonalizzazione, del sentimento di frustrazione e della perdita della capacità di controllo professionale, una volta spogliato del coinvolgimento emotivo tipico delle professioni d’aiuto e rivestito dei panni più larghi del deterioramento dell’impegno e delle emozioni associati generalmente al lavoro, nonché della capacità di adattamento professionale, profilando una sintomatologia da stress potenzialmente riscontrabile in qualsiasi organizzazione di lavoro, configura un rischio psicosociale di portata generale.
 
Si ritiene, infatti, che la sensazione di inaridimento emotivo, di esaurimento, di svuotamento e perdita delle proprie energie e risorse in relazione al proprio lavoro, la sensazione di “non riuscire più a farcela”, a cui segue, prima, un atteggiamento di distacco, cinismo, ostilità, aggressività e, poi, il crollo dell’autostima determinato dalla mancata realizzazione delle proprie aspettative e dalla sensazione di inadeguatezza nello svolgere il proprio ruolo, con apatia, perdita della capacità di controllo nei confronti della propria attività professionale e riduzione del senso critico che determina una errata attribuzione di significato alla sfera lavorativa, possa essere rilevabile in ogni ambito occupazionale.
 
Del resto, analizzando le cause più frequenti del disadattamento da burnout, a partire dal sovraccarico di lavoro (con richieste lavorative così elevate da esaurire le energie individuali e non rendere possibile il recupero), dal senso di impotenza, dalla mancanza di controllo (percezione di avere insufficiente potere o autorità sulle risorse necessarie per svolgere il proprio lavoro in modo efficace), dal riconoscimento inadeguato per il lavoro svolto, dalla mancanza di senso di comunità (quando viene meno il sostegno, la fiducia reciproca e il rispetto), per arrivare all’assenza di equità nell’ambiente di lavoro (in relazione all’assegnazione dei carichi di lavoro, della retribuzione, dei premi, delle promozioni e dell’avanzamento di carriera) e al conflitto di valori all’interno del contesto lavorativo circa le scelte operate a livello organizzativo, è semplice constatarne la trasversalità rispetto a ogni attività lavorativa e a ogni organizzazione aziendale.
 
Poiché nella condizione di burnout convivono svariati indizi: psicosomatici come l’insonnia, psicologici come la depressione, ma anche somatici, espressione del deterioramento del benessere fisico che determina l’insorgenza di patologie varie come: ulcera, cefalea, disturbi cardiovascolari, difficoltà sessuali, ecc., si è consolidato nella letteratura scientifica il suo inserimento fra le sindromi, ovvero la sua collocazione all’interno di quell’insieme di sintomi e segni clinici che costituiscono le manifestazioni di una o di diverse malattie, la cui eziologia distintiva è rappresentata dallo stress lavorativo.
 
Il disagio vissuto nella dimensione professionale dai soggetti affetti da burnout, si trasla poi facilmente anche sul piano della devianza personale, esponendoli a un rischio elevato per quanto riguarda l’abuso di alcol, di sostanze psicoattive e, finanche, per il compimento di atti autolesionistici che possono arrivare al suicidio.
 
Così, al cospetto e nel solco, vincolante, di una definizione talmente ampia e con una fortissima vocazione sociale da risultare onnicomprensiva, giacché, ex art. 2, co 1, lett. o), D.lgs. n. 81/2008, per salute (sul lavoro) deve intendersi uno “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità”, il fenomeno del burnout, determinando l’esposizione del prestatore a pericoli per la salute discendenti da situazioni di stress, evidentemente correlate al lavoro, deve essere adeguatamente e specificamente valutato dal datore di lavoro, “secondo i contenuti dell’accordo europeo dell’8 ottobre 2004” così come impone l’art. 28 del decreto sopra richiamato, “a far data dal 31 dicembre 2010”, utilizzando le indicazioni metodologiche contenute nella circolare del Ministero del lavoro del 18 novembre 2010 (e nel manuale Inail sulla valutazione e gestione del rischio stress lavoro-correlato del 2011 aggiornato nel 2017).
 
L
’inserimento dell’obbligo di valutazione del rischio da stress (con l’opinabile esclusione delle fattispecie di mobbing) collegato al lavoro, infatti, non è altro che l’inevitabile risultato di un percorso sociale volto a valorizzare sempre di più l’interazione tra le condizioni organizzativo-ambientali e con la salute e la dignità del lavoratore.
 
L’accordo europeo, integralmente recepito dall’accordo interconfederale 9 giugno 2008, definisce lo stress lavoro-correlato come “una condizione, accompagnata da sofferenze o disfunzioni fisiche, psichiche, psicologiche o sociali, che scaturisce dalla sensazione individuale di non essere in grado di rispondere alle richieste o di non essere all’altezza delle aspettative […]. Lo stress non è una malattia, ma una situazione prolungata di tensione che può ridurre l’efficienza sul lavoro e può determinare un cattivo stato di salute”: in tale definizione, rientra, ovviamente a pieno titolo, anche la fattispecie del burnout.
 
Pur non essendo una malattia, lo stress funge da “agente patogeno” in quanto espressione di “disfunzioni dell’organizzazione del lavoro (costrittività organizzative)” relativamente all’insorgenza di malattie professionali inserite nella lista II – “malattie la cui origine lavorativa è di limitata probabilità”, dell’elenco delle malattie professionali (tabellate) per le quali è obbligatoria la denuncia/segnalazione da parte dei medici, ai sensi dell’art. 139 del d.p.r. 1124/1965, all’Inail, all’ITL e all’ASL/ATS (l’ultimo aggiornamento dell’elenco di tali malattie è contenuto nel decreto del Ministero del lavoro del 10 giugno 2014).
 
Si tratta di due classificazioni di patologie psichiche e psicosomatiche: il disturbo dell’adattamento cronico (con ansia, depressione, reazione mista, alterazione della condotta e/o della emotività, disturbi somatoformi) e il disturbo post-traumatico cronico da stress.
 
La denuncia delle malattie di cui sopra quale esito patologico di un processo stressogeno cronico correlato al lavoro, già da tempo esplicitamente possibile, riceverà significativa accelerazione in conseguenza dell’inclusione del burnout nell’11a revisione della classificazione internazionale delle malattie (ICD-11) da parte dell’OMS (organizzazione mondiale della sanità), datata 28 maggio 2019 (che entrerà però in vigore nel gennaio del 2022), quale “fenomeno professionale” (per la verità il burnout era già stato incluso nella revisione precedente, ICD-10, all’interno della stessa categoria ma con una definizione meno dettagliata).
 
Pur non essendo classificato come malattia o condizione di salute (condizione medica), il burnout è descritto nel capitolo: “Fattori che influenzano lo stato di salute o il contatto con i servizi sanitari”, all’interno del quale vengono incluse le cause per cui le persone si rivolgono al sistema sanitario.
 
In linea con la proposta ricostruzione, l’OMS definisce il burnout “una sindrome concettualizzata come conseguenza dello stress cronico sul posto di lavoro che non è stato gestito con successo”.
 
Nella definizione offerta dall’OMS il burnout si pone, dunque, in modo esplicito, quale effetto del fallimento, dell’insuccesso nella gestione dello stress lavorativo, che, conseguentemente si è cronicizzato divenendo irreversibile.
 
Tale definizione, perfettamente in linea con la letteratura scientifica, ripropone la centralità del processo di gestione aziendale dello stress correlato al lavoro ossia, innanzitutto, la sua valutazione (preliminare e approfondita), poi la classificazione degli interventi di gestione del rischio stress in termini di prevenzione primaria, secondaria e terziaria, da attuare in conseguenza, rispettivamente, dell’orientamento al contrasto delle fonti, della finalità di gestione e di impedimento delle situazioni, della focalizzazione sulla gestione negativa dello stress che si è già manifestato.
 
Anche in relazione all’individuazione degli elementi descrittivi del burnout l’OMS, seppur in modo sintetico, conferma la caratterizzazione proposta dalle ricerche epidemiologiche, evidenziando tre dimensioni principali: sentimenti di esaurimento o esaurimento energetico; maggiore distanza mentale dal proprio lavoro, così come sentimenti di negativismo o cinismo relativi al proprio lavoro; ridotta efficacia professionale.
 
Ricordato che, così come lo stress, anche il burnout si riferisce specificamente ai fenomeni che si manifestano nel contesto occupazionale e non dovrebbe essere applicato per tracciare esperienze di inaridimento emotivo, di esaurimento, di svuotamento, insorgenti fuori dal rapporto di lavoro in altri ambiti della vita, soprattutto familiare, a dispetto della comunicazione mediatica evidentemente attratta dalla connessione indiretta, fra stress lavorativo e malattia psicosociale, la novità è più di forma che di sostanza, più di indirizzo scientifico che di diretta ricaduta sul piano strettamente giuridico il quale, per ora, resta del tutto invariato.
 
Comunque sia, le fonti e le situazioni che possono determinare la sindrome da burnout aspettano solo di essere valutate prima e gestite poi: dignità e produttività del lavoro se ne gioveranno largamente e con esse la salute del singolo così come il benessere aziendale.

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DL Crescita, si parte. Aziende, Pa e studi legali testano le novità – Italia Oggi-

Giulietta Bergamaschi, managing partner di Lexellent, è stata sentita da Antonio Ranalli relativamente alle novità introdotte dal Decreto Crescita in cui ha spiegato cos’è il contratto di espansione e quali sono le regole per le aziende per poter accedere a questo tipo di incentivo.

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Sul fronte lavoro, il DL Crescita abroga i contratti di solidarietà, mentre, tra gli ammortizzatori sociali, introduce il contratto di espansione. «Il legislatore ha eliminato un ammortizzatore strutturale – i contratti di solidarietà espansiva – che era a disposizione di un ampia platea di datori di lavoro, per sostituirla con una misura in via sperimentale (anni 2019 e 2020), destinata a un più ristretto pubblico di imprese», spiega Giulietta Bergamaschi, managing partner di Lexellent. «Il contratto di espansione è destinato, infatti, a imprese con un organico superiore a 1.000 unità lavorative che vogliano intraprendere un processo finalizzato al progresso e allo sviluppo tecnologico e che per fare ciò abbiano necessità di razionalizzare le competenze professionali in organico, di assumere nuove professionalità e di fare a meno di altre. Le nuove assunzioni mirano al ricambio generazionale all’interno dell’organico aziendale, dando la possibilità di inserimento ai tanti giovani in cerca di lavoro. Visto il requisito in termini di organico aziendale, saranno però solo le grandi imprese, e non anche quelle medio-piccole che in Italia sono la maggior parte, a poter contare sugli incentivi messi a disposizione dal nuovo istituto per il caso in cui si affrontino percorsi di ristrutturazione e riorganizzazione aziendale. La misura prevede inoltre un piano di esodo per alcuni dipendenti che hanno maturato i requisiti richiesti (e cioè che si trovino a non più di 60 mesi dal conseguimento del diritto alla pensione). Per l’accesso a tali benefici sono previsti limiti complessivi di spesa per cui, esauriti i fondi a disposizione da qui al 2021, le domande non saranno più prese in considerazione dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali».
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Lexellent Summer Party

Ieri sera presso lo Studio Lexellent si è tenuto il nostro consueto Summer Party, aperto alla squadra, ai clienti, agli amici. Un momento di festa in un clima “easy”, come piace noi, ma sempre con uno sguardo a ciò che accade intorno.

Per questa occasione, abbiamo coinvolto l’associazione WeWorld Onlus, ospitato la magnifica mostra fotografica di Isabella Balena dal titolo “Effetti Collaterali – quando le donne non si danno per vinte”, e concluso con una raccolta benefica a sostegno dei progetti in difesa di donne e bambini, in Italia e nel Mondo.
 
Vogliamo ringraziare tutti per aver partecipato numerosi, per aver risposto calorosamente alla raccolta fondi a sostegno di una missione importante, ma sopratutto per aver condiviso con noi il momento di festa e aver contribuito a renderla speciale.
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Licenziamento illegittimo per cui spetta la sola tutela risarcitoria quando la condotta che ha determinato il licenziamento non coincide con nessuna fattispecie prevista nel CCNL – Diritto 24

Commento alla sent. Cass. civ., sez. lav., n. 13533/2019 (dep. il 20.5.19).
a cura dall’avvocato Giorgio Scherini, partner di Lexellent
“In presenza di licenziamento ritenuto illegittimo per difetto di proporzionalità della sanzione espulsiva (…) spetta la sola tutela risarcitoria ove la condotta in addebito non coincida con alcuna delle fattispecie per le quali i contratti collettivi ovvero i codici disciplinari applicabili prevedono una sanzione conservativa“.
Questo il principio di diritto recentemente ribadito con la pronuncia n. 13533/19, resa dalla Corte di Cassazione (e depositata lo scorso 20 maggio) ad esito dei fatti di causa così sintetizzati.
Un dipendente di un noto istituto di credito, nell’espletamento delle mansioni di cassiere allo sportello, si rendeva autore di due distinti episodi, a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro, consistiti nell’andare in escandescenze nei confronti della clientela.
A ciò faceva seguito l’instaurazione di un procedimento disciplinare conclusosi con la sanzione del licenziamento per giusta causa.
Rigettata l’impugnazione del licenziamento sia in fase sommaria del rito c.d. “Fornero” che nella successiva fase di opposizione, la Corte d’Appello di Brescia, ritenuta la sanzione espulsiva comminata dal datore di lavoro sproporzionata all’entità degli addebiti mossi al dipendente, dichiarava il rapporto lavorativo risolto a far data dal licenziamento, condannando la Società al pagamento dell’indennità risarcitoria di cui al vigente art. 18, comma 5, St. lav.
L’istituto di credito proponeva, quindi, ricorso per cassazione, lamentando che il Giudice di seconda istanza avesse escluso la giusta causa del provvedimento disciplinare, sminuendo, specie sotto il profilo soggettivo, la portata della vicenda in esame.
Tale doglianza, tuttavia, è stata ritenuta infondata dalla suprema Corte: ciò in quanto – rammenta la Cassazione -, perché in sede di legittimità possa censurarsi la violazione delle clausole generali di “giusta causa” del licenziamento e “proporzionalità” della sanzione, è necessario che il ricorrente individui gli standard comportamentali concretamente trascurati dal Giudice di merito nella valutazione circa la fondatezza e la congruità del provvedimento espulsivo.
Non sembra, tuttavia, ad avviso dei Giudici di ultima istanza, che la Corte d’appello abbia errato nel ponderare le irregolarità commesse dal lavoratore.
Piuttosto, il Giudice di seconde cure, ritenuti i fatti occorsi gravi fino a risultare incompatibili con le più elementari regole della buona educazione, ha però escluso la colpa grave del ricorrente, alla luce del più ampio contesto della problematicità dei rapporti con la datrice di lavoro, della particolare situazione di malessere nella quale versava il lavoratore e, soprattutto, dell’assenza di precedenti disciplinari nell’ambito di un rapporto di lavoro durato circa ventisei anni.
In estrema sintesi, il Giudice di merito, pur riconoscendo il fatto materiale oggetto dell’addebito, ha però escluso che il licenziamento fosse proporzionato e sorretto da giusta causa, così concludendo per l’applicazione della tutela indennitaria ex art. 18, comma 5, St. lav.
Proprio tale ultimo capo della decisione – la concessione del rimedio pecuniario in luogo della reintegrazione – è stato oggetto di controricorso da parte del lavoratore.
Quest’ultimo deduce a tal riguardo che, ai fini della tutela reale, non è necessario che la condotta oggetto dell’addebito dell’addebito sia specificamente e tassativamente sanzionata dal contratto collettivo con una misura conservativa, essendo consentito al giudice di valutare la sussumibilità della stessa anche in fattispecie generalmente formulate; in particolare, la difesa del lavoratore osserva che altra interpretazione del predetto art. 18 condurrebbe a possibili iniquità, poiché eventuali genericità dei contratti collettivi in tema di sanzioni disciplinari priverebbero il lavoratore della tutela di reintegrazione, così operando a suo detrimento.
Tale argomento, tuttavia, ad avviso del Collegio, non coglie nel segno: la valutazione circa i rischi di un’eventuale disparità di trattamento nei termini appena prospettati, infatti, non compete in alcun modo alle parti processuali, costituendo, invece, espressione di una libera scelta del Legislatore (del medesimo art. 18), fondata sulla valorizzazione e il rispetto dell’autonomia collettiva in materia.
Piuttosto, opina la Corte, la questione in oggetto va risolta in continuità all’orientamento giurisprudenziale al riguardo consolidato (v. Cass. n. 25534 del 12.10.2018, Cass. n. 26013 del 17.10.18, Cass. n. 18823 del 16.7.2018, Cass. n. 13178 del 25.5.2017, Cass. 23669 del 6.11.2014).
Segnatamente, alla luce di tale indirizzo ermeneutico, è da ritenersi che, a fronte di un licenziamento disciplinare sproporzionato rispetto all’infrazione commessa, qualora il contegno rimproverato al lavoratore non sia espressamente sanzionato con misura conservativa dal ccnl di categoria o dai regolamenti disciplinari debba escludersi la tutela reale ed applicarsi unicamente quella indennitaria c.d. “forte”, posto che il caso appena descritto rientrerebbe tra le “altre ipotesi” di cui all’art. 18, comma 5, St. lav.
Secondo questa linea interpretativa, in ultima analisi, perché l’accertamento giudiziale dell’illegittimità del licenziamento possa approdare ad un ordine di reintegra nei confronti del datore, è necessario che, ferma la sussistenza del fatto contestato nella sua dimensione storica, la contrattazione collettiva sanzioni espressamente il medesimo accadimento con una misura di carattere conservativo.
Con la sentenza in commento, i Giudici di legittimità rimettono, dunque, all’autonomia negoziale delle parti sociali il potere di delineare l’apparato sanzionatorio in sede disciplinare, nella misura in cui individuano il discrimen fra tutela reale o pecuniaria ex art. 18 St. lav. proprio nella circostanza che il fatto accaduto sia stato, o meno, tipizzato in seno ai contratti collettivi o ai codici disciplinari vigenti.
La pronuncia in esame, in linea con l’orientamento consolidato già descritto, mostra, infatti, di aderire ad un’accezione di “fatto contestato”, ai fini dell’art. 18 St. Lav., che non si esaurisce nel solo accadimento materiale, ma va ampliata fino a ricomprendere anche elementi di giuridicità, quali, innanzitutto, la connotazione illecita eventualmente attribuita dalle parti sociali allo stesso episodio.
Non irrilevanti sono le conseguenze scaturenti da siffatta impostazione, specie ipotizzandone le ripercussioni sulla disciplina dei licenziamenti dettata dal D. Lgs. 23/2015 con riferimento ai c.d. “contratti a tutele crescenti”.
A tale proposito, si osservi che la descritta interpretazione del “fatto contestato” di cui all’art. 18 St. Lav. è stata recentemente recepita dalla Corte di Cassazione anche in rapporto al sistema di tutele di cui allo stesso D. Lgs. n. 23: con la recente pronuncia n. 1217 dello scorso 8 maggio, infatti, i Giudici di legittimità hanno elaborato una nozione di “insussistenza del fatto contestato” che comprende “non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare”.
Ciò che ne deriva è, verosimilmente, il rischio di una possibile smentita della ratio legis sottesa al Jobs Act, consistente nell’intenzione di prevedere la reintegrazione nei casi di mancata prova in giudizio del solo fatto “materiale”: aggettivo, questo, espressamente inserito dal Legislatore dell’art. 3, comma 2, D. Lgs. 23/2015 proprio al fine di circoscrivere la portata della tutela reale.