Con il Jobs Act aumenta il contenzioso penale relativo ai rapporti di lavoro. Patologia? No, semplicemente un adeguamento della situazione italiana a quello che succede in campo internazionale.
Dopo l’introduzione del Jobs Act alla sparizione dei ricorsi per licenziamento illegittimo ex articolo 18 dello statuto dei lavoratori ha fatto da contrappeso l’aumento delle cause penali intentate dai lavoratori ai datori di lavoro e vice versa. Perché?
Come l’autore del libro, l’avvocato Sergio Barozzi (giuslavorista di lungo corso e managing partner di Lexellent, studio specializzato in diritto del lavoro e membro dell’European Employment Lawyer Association) spiega molto chiaramente, la riforma del lavoro nota col nome di Jobs Act è stata analizzata soprattutto per gli effetti, attesi o presunti, di breve periodo e in particolare quasi esclusivamente sugli effetti che ha avuto (o non avuto) sull’incremento di assunzioni a tempo indeterminato. Come se l’incremento delle assunzioni in Italia fra 2013 e 2016 fosse dipeso esclusivamente o principalmente dalla legislazione sul lavoro e non anche da fattori economici congiunturali (come il costo del lavoro, l’andamento dei mercati, il livello di investimenti industriali, la contrazione dei consumi) o strutturali come la globalizzazione (e lo spostamento delle produzioni in paesi a basso costo del lavoro), l’avvento di nuove tecnologie che stanno facendo sparire interi settori dell’industria e dei servizi, l’invecchiamento della popolazione.
Quasi nessuno sembra essersi dedicato ad analizzare gli effetti giuridici della riforma nel medio lungo periodo e in particolare gli effetti sul contenzioso all’interno dei rapporti di lavoro. Questo libro si propone di farlo, forte della lunga esperienza dell’autore che ha lavorato all’estero e in Italia per multinazionali e conosce bene la realtà delle cause di lavoro in tutt’Europa.
Prima constatazione, da cui il titolo del libro stesso, una parte consistente delle controversie di lavoro, tipicamente materia civilistica, sembrano aver subito un'”invasione” da parte del diritto penale. Perché il vero effetto dell’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che fino alla riforma era il perno della maggior parte delle cause di lavoro intentate da dipendenti licenziati, è che la tutela dei diritti di quegli stessi lavoratori si è spostata su un complesso di norme che non riguardano più la legittimità o meno dell’interruzione del rapporto di lavoro, ma la legittimità del trattamento personale del lavoratore nel rapporto con il datore di lavoro. L’idea che il lavoratore stesso possa essere stato vittima di un trattamento discriminatorio. In quest’ottica, che è quella che viene registrata nella stragrande maggioranza dei procedimenti che oggi arrivano davanti ai giudici del lavoro, gli aspetti di natura penale assumono un’importanza impensabile fino a qualche anno fa ma che non può stupire chi, come l’avvocato Barozzi, è un profondo conoscitore delle cause di lavoro che normalmente vengono portate davanti alle corti degli altri paesi avanzati. Paesi dove le cause per discriminazione intentate dai lavoratori sono ormai da anni la norma.
Il manuale, oltre a fornire una solida base teorica di quello che sta accadendo, presenta anche una serie di casi pratici e di prontuari per aiutare i responsabili aziendali della gestione delle risorse umane a evitare gli errori più comuni in cui un’azienda può incorrere nella gestione delle relazioni con i dipendenti e una mappa delle strategie di difesa che possono essere messe in atto per evitare di arrivare in giudizio prestando il fianco ad accuse difficili da contestare.
“I reati nella gestione dei rapporti di lavoro” di Sergio Barozzi. Biblioteca del personale AIDP. Guerini Next, euro 22.
Month: December 2016
Un altro grande risultato da Lexellent.
Si aggiudica il premio Italian Employment & Labour Firm of the Year di Lawyer Monthly,
Lexellent sta sicuramente attraversando un periodo di grandi successi, la rivista Lawyer Monthly le ha infatti conferito il premio Italian Employment & Labour Firm of the Year.
La motivazione dice: “Questi premi sono dei riconoscimenti – agli studi legali e ai singoli professionisti – per i risultati raggiunti nell’ultimo anno operando in un mercato molto impegnativo.
Il ruolo di avvocati e studi legali, quali consulenti a fianco di aziende e attività in genere, continua ad essere cruciale non solo per garantire la sopravvivenza delle imprese ma anche la loro prosperità. Il rapporto tra avvocati e studi legali specializzati in diritto d’impresa ha reso possibile la crescita e ha creato nuove opportunità capaci di alimentare l’ottimismo economico globale.
I vincitori dei premi indetti da Lawyer Monthly si sono distinti dai concorrenti per aver dimostrato di aver saputo raggiungere importanti risultati dal punto di vista professionale e livelli di eccellenza nel proprio settore e nel proprio paese.”
Giulietta Bergamaschi, founding partner dello studio conferma: “E’ stato un anno eccezionale per lo studio, numerosi sono stati, infatti, i premi sia a livello nazionale sia internazionale. A partire dalla primavera quando con la vincita del premio di The Lawyer, quale Italian Law Firm of the Year, a cui hanno fatto seguito delle ottime recensioni da parte delle guide legali internazionali come Chambers & Partners e Legal 500, fino alla vincita del premio di Top Legal quale migliore studio nella categoria Lavoro – Contenzioso e per concludere il premio di Lawyer Monthly. Siamo estremamente orgogliosi del nostro gruppo e del lavoro che ha portato a termine e che porterà a termine nel futuro. E’ la professionalità del gruppo che ha reso Lexellent lo studio vincente che è oggi.
Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna – Riflessione dello studio Lexellent.
Oggi, 18 dicembre 2016, ricorrono 37 anni dalla firma della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna (Convention on the Elimination of all Forms of Discrimination Against Women, in breve CEDAW) ratificata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. È un trattato internazionale sui diritti delle donne, entrato in vigore il 3 settembre 1981. Perché ritengo che sia non solo giusto ma importante ricordare questo fatto? Perché anche se moltissimi stati hanno riconosciuto questo testo, alcuni non lo hanno fatto o lo hanno fatto con riserva. E non solo fra i paesi comunemente considerati “meno evoluti”, come ci si aspetterebbe. Sono sette gli stati membri dell’ONU che non hanno ratificato la convenzione: Iran, Nauru, Palau, Somalia, Sudan, Tonga e gli Stati Uniti.
Se per alcuni nazioni islamiche con tendenze integraliste come l’Iran, la Somalia e il Sudan la mancata ratifica non desta stupore così come per i piccoli paesi insulari del Pacifico (Nauru, Palau, Tonga), l’assenza di ratifica da parte degli Stati Uniti è certamente sorprendente e preoccupante. Ancora più emblematico il fatto che solo una nazione al mondo, Taiwan, ha accolto i principi del trattato fra le fonti di diritto della legislazione nazionale. Lo ha fatto nel 2007 dopo molte pressioni da parte di organizzazioni delle donne come l’Alleanza nazionale di associazioni femminili. Dunque, non va registrato solo il fatto che ci sono defezioni a livello internazionale di paesi che non hanno aderito al trattato, ma soprattutto va detto che il testo approvato dall’ONU, in quasi 40 anni di vita, è rimasto nella maggior parte dei casi lettera morta.
Solo buone intenzioni cristallizzate in un trattato internazionale senza effetti pratici nella vita quotidiana e nelle culture dei paesi che pure lo hanno sottoscritto e ratificato? Paesi come il Giappone, la Russia e, sì, anche l’Italia (ma l’elenco potrebbe essere lunghissimo) rimangono saldamente ancorati alla loro tradizione non certo egualitaria tra uomini e donne, aldilà di qualsiasi dichiarazione di buone intenzioni. In altri Paesi la situazione sta peggiorando a vista d’occhio: penso a quanto succede in Afghanistan, Siria, Iraq ma anche in Turchia. Da noi non sta migliorando. Lo si vede da diversi aspetti, non solo dai femminicidi che occupano i titoli dei giornali, ma dalle differenze salariali e di mansioni, dall’accessibilità ai posti di governo di aziende e amministrazioni pubbliche, dalla mancanza di politiche per la conciliazione fra vita e lavoro, da un sostanziale disconoscimento del valore della maternità e della genitorialità. Certo, tutto questo è ancora un retaggio culturale che ha radici profonde nella religione (oltre a Iran, Somalia e Sudan neanche la Città del Vaticano ha firmato il trattato), ma soprattutto è indice di una mentalità che non riesce a evolversi. Le conseguenze del trattamento squilibrato delle differenze di genere, soprattutto sul lavoro (che è l’ambito che, in quanto avvocato giuslavorista, non posso fare a meno di vedere ogni giorno) continuano a essere un problema drammatico, l’«elefante nell’ascensore» del nostro sistema socioeconomico che pretenderebbe di essere evoluto. Un problema non impossibile da mitigare, se non da risolvere, ma che non si vuole vedere, di cui non si riesce mai a parlare seriamente senza retorica e senza capire quanto potrebbe aiutare l’economia e lo sviluppo del paese. Le aziende virtuose sono ancora, infatti, troppo poche.
Ma cosa dice di così sconvolgente il CEDAW da essere ignorato e disapplicato in tanti Paesi? La convenzione sostiene che: «Va eliminata ogni distinzione, esclusione o restrizione, che ha l’effetto o lo scopo di compromettere o annullare il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, da parte delle donne (a prescindere dal loro stato civile) dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo». Il CEDAW stabilisce, inoltre, un programma di azione per porre fine alla discriminazione basata sul sesso: gli stati che ratificano la convenzione sono tenuti a sancire la parità di genere nella loro legislazione nazionale, ad abrogare tutte le disposizioni discriminatorie nelle loro leggi e a emanare nuove disposizioni per premunirsi contro la discriminazione delle donne. Devono, inoltre, consentire l’accesso ai tribunali e alle istituzioni pubbliche per garantire alle donne una protezione efficace contro la discriminazione e adottare
misure per eliminare tutte le forme di discriminazione praticata nei confronti delle donne da parte di individui, organizzazioni e imprese.
Sconvolgente? Rivoluzionario? O piuttosto solo l’ABC? Eppure, come dicevo, solo un paese al mondo, Taiwan, ha riconosciuto questi “banali” principi come parte integrante della sua legislazione. Come operatrice del diritto credo che inserire i principi CEDAW nella nostra legislazione non sia solo opportuno, ma urgente.
In azienda non è più tempo di gender gap.
La presenza delle donne nel mercato del lavoro. La politica retributiva e di gestione del tempo. La conciliazione con il ruolo di cura in famiglia. Se ne è parlato a Milano in un convegno che ha sottolineato le difficoltà di applicazione delle misure di work-life balance. E l’esigenza di una figura di diversity manager anche nelle piccole aziende.
La fuoriuscita delle donne nel mercato del lavoro (in Italia quasi una su due) è una perdita inaccettabile non solo dal punto di vista sociale, ma anche di efficienza e performance aziendali.
È per discutere di questo problema che i migliori esperti in campo di gender gap e diversity management si sono incontrati a Milano, nell’ambito di un convegno organizzato dalla casa editrice specializzata Este.
Le imprese sono pronte a gestire un’ondata sempre maggiore di donne che chiedono di entrare (e restare) nel sistema? La risposta, al momento, non è facile: sia in Italia, sia nel resto del mondo (dove nei prossimi anni circa un miliardo di donne attive premerà sul mercato di lavoro) la complessità dello scenario richiede alle organizzazioni di adeguarsi al cambiamento, alla nuova fisionomia dei lavoratori. Lo ha sottolineato con vigore la sociologa Chiara Saraceno che, nella sua relazione, ha indicato i poli del cambiamento nelle donne, ma anche nella coesistenza di differenti generazioni di lavoratori, nel cambiamento della fisionomia delle famiglie (monoparentali, omogenitoriali), nell’internazionalizzazione della forza lavoro.
Per gestire tutta questa complessità e trasformarla in un vantaggio, servirà uno sguardo diverso e manager in grado di far tesoro dei talenti che emergono all’interno delle differenze, i diversity manager, appunto.
Ma se le multinazionali e le grandi realtà hanno già iniziato a realizzare politiche inclusive e a tener conto delle diverse esigenze dei dipendenti, le piccole e medie imprese hanno maggiori difficoltà. La “cultura organizzativa egemonica”, quella del maschio, bianco, giovane, etero, seppur fittizia, appare forse più rassicurante, più semplice. «Ma l’omogeneità non favorisce la valorizzazione delle risorse umane e l’innovazione: l’unica cosa che gli uomini possono avere in comune, oggi, è di potersi permettere di restare nel mercato del lavoro» ha avvertito Saraceno, ricordando che le donne pagano ancora un prezzo troppo alto per il lavoro di cura che svolgono in famiglia: remunerazione e pensione inferiori, minor crescita di carriera (in Germania, per esempio, ha ricordato la sociologa, il lavoro di cura è riconosciuto a livello pensionistico con un anno di contributi figurativi per ogni figlio).
Le soluzioni? Camilla Gaiaschi, ricercatrice del Centro Genders dell’Università di Milano, spiega che le politiche di work-life balance si fondano su tre pilastri: economico (attraverso assegni familiari, congedi), di creazione di servizi (nidi, badanti, baby sitting), di concessione di tempo (part time, smart working). L’intensità con cui si promuove uno dei pilastri, rispetto all’altro, disegna un diverso modello di famiglia, dove uno solo o entrambi i partner possono “permettersi” di lavorare. Ma anche quando le misure ci sono, non sempre, nella pratica, vengono utilizzate dalle aziende: «Per esempio, perché certe politiche conciliative sono annunciate solo per ragioni di marketing» spiega la ricercatrice. «Oppure perché sono applicate, ma non rispondono ai bisogni reali delle lavoratrici, o addirittura non si conoscono. Infine, alcune politiche non vengono applicate perché sono contrarie alla cultura dell’azienda e quindi si temono conseguenze sulla carriera».
Quanto pesa tutto questo sulle donne e sul desiderio di genitorialità in generale? «Moltissimo: gli italiani sono senza figli perché il lavoro non lo permette» sottolinea Giulietta Bergamaschi, partner e socio fondatore dello studio legale Lexellent, specializzato in diritto del lavoro, che ha presentato i dati di una recente ricerca esclusiva, commissionata a Ipsos, sui dipendenti senza figli di piccole e medie imprese. Le ragioni per non essere diventati padri o madri? La retribuzione insufficiente (52%), la precarietà in azienda (46%), gli orari lunghi (42%).
Il costo del tracollo demografico.
Welfare aziendale: La prima ricerca sul rapporto fra lavoro e genitorialità nelle PMI italiane.
Più del 66% delle persone intervistate dichiara che avrebbe desiderato una famiglia più ampia se le condizioni socioeconomiche glielo avessero permesso. e ben il 76% del campione pensa che una politica aziendale diversa potrebbe fare la differenza….
Per leggere l’intero articolo.
I reati nella gestione del rapporto di lavoro.
Nuova pubblicazione di Guerini Next curata dallo studio Lexellent.
Lexellent vince il Top Legal Awards 2016 nella Categoria Lavoro, Contenzioso.
In occasione della X edizione dei Top Legal Awards,lo studio legale giuslavoristico Lexellent, partner Federculture, lo scorso lunedì 21 novembre ha ricevuto il premio come Studio dell’anno nella categoria Lavoro – Contenzioso.
Top Legal, testata di riferimento nel mercato legale italiano che ogni anno premia in migliori studi italiani che si sono distinti nei vari settori, ha consegnato a Lexellent il premio nella categoria Lavoro – Contenzioso con la seguente motivazione: “Ha creato, per conto del proprio cliente Ryanair, un importante precedente giudiziale di rilevanza europea in un caso contro l’Inps. Si tratta della prima pronuncia della Corte Superiore in tema di regime previdenziale applicabile a una compagnia aerea straniera.”
L’avv. Sergio Barozzi, managing partner dello studio, commenta così: “Il contenzioso previdenziale che interessa la compagnia aerea è di rilevanza nazionale ed europea e potrebbe avere risvolti anche sulle pronunce della Corte di Giustizia. L’expertise che lo studio ha sviluppato in materia previdenziale ci ha dato l’opportunità di approfondire un settore di nicchia nel mondo del diritto del lavoro, come quello del contenzioso con gli Enti di previdenza e assistenza, consentendoci di sostenere le società anche da questo delicato punto di vista”.
Diversità e Inclusione nel mondo del lavoro: storie e percorsi di successo.
Per celebrare i 15 anni di Fondazione Adecco per le Pari Opportunità e per dare voce a chi affianca la fondazione per incentivare e valorizzare un mercato del lavoro sempre più inclusivo, tra il 30 novembre e il 15 dicembre è stata organizzata una serie di convegni e tavole rotonde in giro per l’Italia.
A quella del 5 dicembre è stata inviata Alessandra Rovescalli che, all’interno dello studio, dedica particolare impegno alla promozione di interventi volti a sostenere le aziende nella sfida delle diversità e dell’inclusione.
Ecco il programma della giornata
hr. 15,45 – Arrivo e accredito
hr 16,00 – 15 anni della Fondazione Adecco per le Pari Opportunità
Buone prassi di inclusione lavorativa e modelli di diversity
Giovanni Rossi, Direttore Operativo Fondazione Adecco per le Pari Opportunità
Monia Dardi, Respondabile Progetti Fondazione Adecco per le Pari Opportunità
hr. 17,00 – Pillole di Diversità
L’inclusione di persone di origine straniera, Alessandra Rovescalli, studio legale Lexellent
L’inclusione LGBTQ nei luoghi di lavoro, Simona Massei, Associate Director Operation Finance & Public Sector Parks
Genere e Disabilità, Elena Malaguti, Professore Associato di Didattica e Pedagogia Speciale Università di Bolongna
hr. 18,00 – Mediazione e Cooperazione
Teatro Forum con gruppo Art. 4 Centro Risorse, a cura di Francesco Ridolfi, psicoterapeuta Coop Cat
hr. 19,00 – Cocktail