La presenza delle donne nel mercato del lavoro. La politica retributiva e di gestione del tempo. La conciliazione con il ruolo di cura in famiglia. Se ne è parlato a Milano in un convegno che ha sottolineato le difficoltà di applicazione delle misure di work-life balance. E l’esigenza di una figura di diversity manager anche nelle piccole aziende.
La fuoriuscita delle donne nel mercato del lavoro (in Italia quasi una su due) è una perdita inaccettabile non solo dal punto di vista sociale, ma anche di efficienza e performance aziendali.
È per discutere di questo problema che i migliori esperti in campo di gender gap e diversity management si sono incontrati a Milano, nell’ambito di un convegno organizzato dalla casa editrice specializzata Este.
Le imprese sono pronte a gestire un’ondata sempre maggiore di donne che chiedono di entrare (e restare) nel sistema? La risposta, al momento, non è facile: sia in Italia, sia nel resto del mondo (dove nei prossimi anni circa un miliardo di donne attive premerà sul mercato di lavoro) la complessità dello scenario richiede alle organizzazioni di adeguarsi al cambiamento, alla nuova fisionomia dei lavoratori. Lo ha sottolineato con vigore la sociologa Chiara Saraceno che, nella sua relazione, ha indicato i poli del cambiamento nelle donne, ma anche nella coesistenza di differenti generazioni di lavoratori, nel cambiamento della fisionomia delle famiglie (monoparentali, omogenitoriali), nell’internazionalizzazione della forza lavoro.
Per gestire tutta questa complessità e trasformarla in un vantaggio, servirà uno sguardo diverso e manager in grado di far tesoro dei talenti che emergono all’interno delle differenze, i diversity manager, appunto.
Ma se le multinazionali e le grandi realtà hanno già iniziato a realizzare politiche inclusive e a tener conto delle diverse esigenze dei dipendenti, le piccole e medie imprese hanno maggiori difficoltà. La “cultura organizzativa egemonica”, quella del maschio, bianco, giovane, etero, seppur fittizia, appare forse più rassicurante, più semplice. «Ma l’omogeneità non favorisce la valorizzazione delle risorse umane e l’innovazione: l’unica cosa che gli uomini possono avere in comune, oggi, è di potersi permettere di restare nel mercato del lavoro» ha avvertito Saraceno, ricordando che le donne pagano ancora un prezzo troppo alto per il lavoro di cura che svolgono in famiglia: remunerazione e pensione inferiori, minor crescita di carriera (in Germania, per esempio, ha ricordato la sociologa, il lavoro di cura è riconosciuto a livello pensionistico con un anno di contributi figurativi per ogni figlio).
Le soluzioni? Camilla Gaiaschi, ricercatrice del Centro Genders dell’Università di Milano, spiega che le politiche di work-life balance si fondano su tre pilastri: economico (attraverso assegni familiari, congedi), di creazione di servizi (nidi, badanti, baby sitting), di concessione di tempo (part time, smart working). L’intensità con cui si promuove uno dei pilastri, rispetto all’altro, disegna un diverso modello di famiglia, dove uno solo o entrambi i partner possono “permettersi” di lavorare. Ma anche quando le misure ci sono, non sempre, nella pratica, vengono utilizzate dalle aziende: «Per esempio, perché certe politiche conciliative sono annunciate solo per ragioni di marketing» spiega la ricercatrice. «Oppure perché sono applicate, ma non rispondono ai bisogni reali delle lavoratrici, o addirittura non si conoscono. Infine, alcune politiche non vengono applicate perché sono contrarie alla cultura dell’azienda e quindi si temono conseguenze sulla carriera».
Quanto pesa tutto questo sulle donne e sul desiderio di genitorialità in generale? «Moltissimo: gli italiani sono senza figli perché il lavoro non lo permette» sottolinea Giulietta Bergamaschi, partner e socio fondatore dello studio legale Lexellent, specializzato in diritto del lavoro, che ha presentato i dati di una recente ricerca esclusiva, commissionata a Ipsos, sui dipendenti senza figli di piccole e medie imprese. Le ragioni per non essere diventati padri o madri? La retribuzione insufficiente (52%), la precarietà in azienda (46%), gli orari lunghi (42%).