Licenziamento: il giustificato motivo oggettivo e le indennità previste in favore del lavoratore.

Che cosa succede nel caso in cui il licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia dichiarato illegittimo? Quanto deve pagare il datore di lavoro?
È opportuno distinguere tra lavoratori assunti con il contratto a tutele crescenti (dall’8 marzo 2015) e quelli assunti fino al 7 marzo 2015.
Il D.lgs n. 23/2015 che ha introdotto il contratto a tutele crescenti interviene sulla tutela in caso di licenziamento illegittimo. Emerge, in particolare, la volontà di preservare il più possibile dall’ingerenza del giudice la scelta economico-organizzativa del datore di lavoro: infatti, per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 viene esclusa la possibilità di reintegrazione nel posto di lavoro.
Il regime sanzionatorio previsto consiste quindi esclusivamente in un’indennità, il cui ammontare varia a seconda dell’anzianità aziendale e del numero dei dipendenti occupati in azienda.
Nel caso in cui il datore di lavoro abbia alle proprie dipendenze più di 15 dipendenti nell’unità produttiva nella quale è occupato il lavoratore licenziato oppure nell’ambito dello stesso comune, o in ogni caso più di 60 lavoratori globalmente, l’indennità sarà di importo pari a 2 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 4 e non superiore a 24 mensilità. Laddove invece il datore di lavoro non raggiunga tali requisiti dimensionali, l’importo sarà compreso tra 2 e 6 mensilità.
Si tratta dunque di una tutela per equivalente monetario che lascia sostanzialmente impregiudicato l’effetto estintivo del licenziamento, seppur dichiarato illegittimo, preservando così la scelta datoriale sottostante al licenziamento.
È evidente che il D.lgs. 23/2015 ha restituito alla sfera di pertinenza esclusiva del datore di lavoro la valutazione dei presupposti sostanziali alla base del recesso, in quanto il licenziamento rimane efficace indipendentemente da ogni possibile censura sulla sua legittimità.
Diverso è invece il regime sanzionatorio in caso di licenziamento ritenuto illegittimo per i lavoratori assunti prima dell’entrata in vigore del contratto a tutele crescenti, cioè prima del 7 marzo 2015.
In questo caso, se il datore di lavoro raggiunge i requisiti dimensionali sopra indicati e cioè occupa più di 15 dipendenti, troveranno applicazione le conseguenze sanzionatorie previste dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
Qui rimangono margini di incertezza dell’esito del giudizio sulla legittimità del licenziamento, a seconda che:
(i) venga riscontrata la “manifesta insussistenza del fatto materiale posto alla base del licenziamento”, sanzionata con la reintegrazione sul posto di lavoro, oppure
(ii) che non sussistano gli “estremi del giustificato motivo oggettivo” per cui è prevista esclusivamente la tutela indennitaria, graduabile dal giudice tra 12 e 24 mensilità.
Nella prima ipotesi, e cioè nel caso in cui il fatto sia manifestamente infondato, il giudice può ordinare la reintegrazione del lavoratore e condannare il datore di lavoro al pagamento del risarcimento del danno corrispondente a una indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, oltre al versamento dei contributi previdenziali, dedotto sia (i) ciò che il lavoratore ha effettivamente percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, sia (ii) ciò che lo stesso avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. Viene fissato comunque un limite massimo per il risarcimento, pari a 12 mensilità della retribuzione globale di fatto.
Nel secondo caso, laddove non sussistano gli estremi del giustificato motivo oggettivo, la tutela prevista è di tipo esclusivamente indennitario ed è determinata tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all’anzianità di servizio e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti.
Non ci facciamo mancare niente e nell’ipotesi in cui il licenziamento risulti illegittimo per carenza di motivazione o per inosservanza degli obblighi procedurali previsti per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il giudice condanna il datore di lavoro al pagamento di un indennità compresa tra le 6 e le 12 mensilità della retribuzione globale di fatto, da valutarsi in relazione alla gravità della violazione commessa.
Per quei datori di lavoro che occupano alle loro dipendenze fino a 15 lavoratori, si applica invece la tutela obbligatoria prevista dall’art. 8 della legge 604/1966.
Quando il giudice rileva che non ricorrono gli estremi del licenziamento, il datore di lavoro può scegliere se riassumere il lavoratore entro 3 giorni oppure risarcire il danno, corrispondendo un’indennità di importo compreso tra 2,5 e 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Licenziamento: il giustificato motivo oggettivo e l’obbligo di repêchage.

Il lavoratore che impugna il licenziamento per motivo oggettivo fa sorgere in capo al datore di lavoro l’obbligo di provare in giudizio:

  1. l’effettività delle esigenze aziendali indicate nella motivazione del licenziamento, e dunque, la coerenza tra ciò che è stato scritto e ciò che è stato effettivamente realizzato;
  2. il nesso di causalità tra queste esigenze e il licenziamento di quel determinato lavoratore;
  3. l’inevitabilità del licenziamento, ovvero l’impossibilità di una ricollocazione del dipendente in azienda.

Quest’ultimo requisito è definito come obbligo di repêchage, inteso come l’impossibilità di utilizzare il lavoratore in mansioni diverse ma in ogni caso compatibili con la sua professionalità.
Il datore di lavoro deve quindi dar prova di (i) non poter adibire il lavoratore a mansioni analoghe a quelle da ultimo svolte o (ii) a mansioni diverse e comprese nel medesimo livello di inquadramento oppure (iii) mansioni di livello inferiore.
Nell’ipotesi in cui le mansioni, sebbene inquadrate nello stesso livello, richiedano una formazione del lavoratore, queste devono essere escluse dal repêchage, in quanto non esiste in capo al datore di lavoro alcun obbligo di fornire al lavoratore una ulteriore e diversa formazione al fine di preservare il suo posto di lavoro.
Mentre, laddove il datore di lavoro decida di assegnare il lavoratore, in alternativa al licenziamento, a mansioni inferiori, dovrà individuare la posizione fungibile all’interno di quelle comunque fungibili con le competenze professionali acquisite dal lavoratore nel corso della sua attività lavorativa.
In ogni caso, deve trattarsi di mansioni coerenti con il bagaglio professionale posseduto dal lavoratore al momento del licenziamento.
Infatti, l’obbligo di repêchage non può in ogni caso tradursi per il datore di lavoro in uno sforzo di adattamento dell’organizzazione e neppure in un aggravio sotto forma di investimento formativo al fine di adeguare le competenze del lavoratore alle nuove mansioni.
Rientrano invece nell’obbligo di repêchage tutte quelle mansioni che il lavoratore è in grado di svolgere utilizzando le sue attitudini e la formazione da lui acquisita fino al momento del licenziamento, vale a dire mansioni fungibili con il proprio bagaglio professionale.
Laddove poi la mansione a cui il lavoratore venga assegnato in luogo del licenziamento sia inferiore rispetto a quella precedentemente svolta, occorre fare una precisazione con riferimento alla disciplina introdotta con la riforma dell’art. 2103 c.c. (Mansioni del Lavoratore) che, in caso di esercizio del potere datoriale, detta alcune condizioni e limiti riguardo alla possibilità di adibire il lavoratore a mansioni inferiori. In particolare, l’articolo prevede il diritto del lavoratore alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo di cui gode prima della diversa assegnazione.
È però evidente che, in un’ipotesi di licenziamento economico, sarebbe del tutto irragionevole addossare al datore di lavoro un obbligo di repêchage su mansioni inferiori mantenendo la medesima retribuzione, e dunque il maggior costo retributivo delle mansioni superiori svolte in precedenza. Per tale motivo, si ritiene che l’applicazione dell’art. 2103 c.c. non possa essere estesa al caso in cui vengano offerte al lavoratore delle mansioni inferiori, nel contesto di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Paolo Aldrovandi avvocato dell’anno – categoria Penale.

Così ha scelto la giuria di Legal Community ai Labour Awards.
Paolo Aldrovandi, of counsel dello studio legale Lexellent, ha vinto il premio quale migliore avvocato Penale all’interno dei premi del settore Lavoro indetti da Legal Community per il 2016.
Ieri sera la giuria, composta da responsabili RU e affari legali di aziende nazionali e internazionali e associazioni di categoria, ha attribuito all’avvocato Aldrovandi l’ambito premio con la seguente motivazione: “Penalista di alto profilo che opera in una realtà altamente specializzata in diritto del lavoro. Anche per questo è considerato uno dei più esperti penalisti italiani in tematiche riguardanti il mondo del lavoro”
 Paolo Aldrovandi si è unito come of counsel allo studio già dal 2015 dove offre la propria consulenza su questioni di Diritto Penale con taglio giuslavoristico oltre ad essere professore associato di Diritto Penale presso il dipartimento di scienze economico-aziendali e diritto per l’economia dell’Università Bicocca a Milano.
Paolo Aldrovandi ha così commentato: “grande soddisfazione per il premio e ancor di più per la stima che mi è stata riconosciuta. Sono contento di essere parte del team Lexellent e di partecipare attivamente alla crescita del Villaggio Globale del Diritto del Lavoro dove l’aspetto penale sta acquisendo un peso sempre maggiore e quindi contribuisce all’evoluzione della dottrina giuslavorista.”
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Licenziamento: il giustificato motivo oggettivo e le diverse procedure da seguire.

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo consente al datore di lavoro di risolvere legittimamente il rapporto di lavoro quando sussistano “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa”.
Presupposti di legittimità del licenziamento sono quindi costituiti (i) dalla effettività e obiettività delle ragioni aziendali addotte a giustificazione del recesso, sì da doversene escludere il carattere pretestuoso od occasionale, e (ii) dalla esistenza di un nesso causale tra le ragioni e il provvedimento datoriale.
Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento, dunque, ricorre sia quando venga modificata la componente materiale dell’organizzazione, come nell’ipotesi tipica in cui le mansioni del dipendente siano soppiantate o ridotte dall’introduzione di nuovi macchinari, sia quando la modifica investa la sola organizzazione del personale, con la soppressione delle attività svolte dal dipendente licenziato, con lo scorporo verso l’esterno dei suoi compiti in conseguenza della stipulazione di contratti di lavoro autonomo o di appalto, ovvero ancora con la ridistribuzione delle sue mansioni fra il restante personale in servizio.
Per i lavoratori assunti prima dell’introduzione del contratto a tutele crescenti, il datore di lavoro, che abbia alle sue dipendenze più di 15 lavoratori nella stessa unità produttiva o nello stesso comune o comunque più di 60 complessivamente, deve seguire una procedura specifica.
Infatti, prima di formalizzare il recesso dal contratto di lavoro, si deve inviare al lavoratore e alla Direzione territoriale del lavoro (DTL) del luogo dove il lavoratore presta la sua attività una comunicazione che deve contenere:

  • l’intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo;
  • gli specifici motivi alla base del licenziamento;
  • le eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore interessato.

Entro 7 giorni dalla ricezione della comunicazione, la DTL convoca il datore di lavoro e il lavoratore per un incontro volto alla conciliazione. Se non si è raggiunto un accordo trascorsi 20 giorni o trascorso il più lungo periodo concordato tra le parti o il periodo di sospensione dovuto a legittimo e documentato impedimento del lavoratore, il datore di lavoro potrà comunicare il licenziamento al lavoratore e dovrà farlo in forma scritta con la specifica indicazione dei motivi che lo hanno determinato.
La procedura descritta non si applica ai datori di lavoro che occupano fino a 15 dipendenti e, in ogni caso, nei confronti dei lavoratori assunti con contratto a tutele crescenti: in questi casi, è sufficiente un’unica lettera con cui il datore di lavoro comunica il licenziamento al lavoratore.
A prescindere dal tipo di procedura da seguire, è utile individuare gli aspetti sui quali è fondamentale prestate attenzione nella preparazione della lettera di licenziamento:

  1. descrivere la posizione occupata dal lavoratore e le mansioni effettivamente svolte;
  2. evidenziare i motivi di carattere economico o tecnico o organizzativo o produttivo posti alla base del licenziamento
  3. spiegare come essi impattano sulla posizione occupata e le mansioni svolte dal lavoratore.
  4. dare atto dell’impossibilità di ricollocare il lavoratore in azienda in una diversa posizione, anche di livello inferiore rispetto al suo inquadramento contrattuale.

RETRIBUZIONE: NEL 2016 IL “TEMPO TUTA” E’ ANCORA ORARIO DI LAVORO E, QUINDI, DEVE ESSERE RETRIBUITO.

La Corte di Cassazione con sentenza n. 1352/2016, depositata il 26 gennaio, ha ribadito che, quando al lavoratore non è data facoltà di scegliere il tempo e il luogo ove indossare la divisa o gli indumenti necessari per la prestazione lavorativa, il c.d. “tempo tuta”, ovvero il tempo impiegato dai dipendenti per indossare gli indumenti di lavoro, è orario di lavoro e deve essere retribuito.
Secondo la Suprema Corte, quindi, solo quando al lavoratore non è lasciata libertà di decidere il tempo e il luogo ove indossare la divisa o gli strumenti da lavoro, allora l’operazione stessa rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad essa necessario deve essere retribuito.
L’eterodeterminazione del tempo e del luogo in cui deve essere indossata la divisa da lavoro può derivare dall’esplicita disciplina d’impresa, o risultare implicitamente dalla natura degli indumenti da indossare o dalla specifica funzione che essi devono assolvere nello svolgimento della prestazione.
Ancora oggi, quindi, epoca di Smart working e telelavoro, la Corte di Cassazione, nel solco della giurisprudenza e degli orientamenti europei in tema di orario di lavoro, ha ribadito la necessità di retribuire il tempo “tuta”.
Si richiama, quindi, l’attenzione delle aziende, che impiegano figure professionali chiamate ad indossare indumenti specifici, a valutare attentamente la situazione interna, così da poter prevenire eventuali contenziosi sul punto.

RETRIBUZIONE: L’INDENNITÀ DA MANEGGIO DI DENARO SPETTA AL DIPENDENTE CHE NORMALMENTE SVOLGE L’ATTIVITÀ DI CASSIERE.

La Corte di Cassazione, nel febbraio 2016, ha chiarito che l’indennità da maneggio di denaro spetta ogniqualvolta l’attività normale o prevalente del prestatore di lavoro consista nell’incasso di denaro.
La Suprema Corte ha infatti chiarito che “Ai fini del diritto all’indennità di maneggio denaro, la responsabilità per errore, anche finanziaria, è implicita nelle attività di cui l’incasso costituisce la prestazione normale o prevalente, derivando la stessa dall’art. 2104 c.c. che obbliga il dipendente alla diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta”, confermando la decisione di merito che aveva riconosciuto la suddetta indennità, a prescindere ad ogni ulteriore accertamento, ai dipendenti che svolgono in via ordinaria mansioni di cassiere.
La Corte ha precisato che lo svolgimento di attività di maneggio di denaro è di per sé elemento sufficiente per vedersi riconoscere il diritto alla indennità e ciò perché la responsabilità per eventuali ammanchi è da considerarsi implicita nella attività lavorativa che il dipendente che maneggia il denaro svolge, tanto che la contrattazione collettiva riconosce a tale tipologia di prestatori di lavoro il diritto a vedersi riconoscere un’indennità aggiuntiva connessa alla specifica mansione.
La pronuncia della Suprema Corte amplia il risalente principio affermato dal Tribunale di Milano nel lontano 1996, che aveva affermato che “L’indennità di maneggio denaro, prevista dalla contrattazione collettiva, spetta nel solo caso in cui le mansioni normalmente svolte dal lavoratore comportino un continuo maneggio di denaro ed espongano il medesimo dipendente al rischio di errori contabili o finanziari nell’incasso” (Trib. Milano 5.10.96).

Inquietanti scenari sul fronte della criminalizzazione del diritto del lavoro.

Una recente sentenza della Corte di Cassazione Sezione penale in materia di stalking apre nuovi scenari anche nel mondo del lavoro. La sentenza numero 26878 / 2016 ha infatti confermato la condanna per stalking a carico del condomino che aveva esasperato il suo vicino di casa. La sentenza si segnala perché afferma il principio che il reato di stalking non necessariamente è confinato ai rapporti interpersonali, ma si può concretizzare anche nell’ambito di rapporti di natura del tutto diversa quali quelli condominiali. È facile allora arrivare alla trasposizione nel mondo del lavoro. Quello che fino a poco tempo fa veniva qualificato come mobbing, la cui prova richiedeva un rigoroso accertamento da parte del giudice del lavoro, si potrebbe facilmente  trasformare, nel futuro, nel reato di stalking, con gravi e pesanti conseguenze per l’imprenditore. Ma quello che più rileva è  che la concretizzazione, la prova e quindi l’accertamento della fattispecie di reato di stalking sarà più semplice che accertare e dimostrare il mobbing davanti al giudice del lavoro.
Si potrebbero così aprire scenari assai inquietanti ed assistere ad una “criminalizzazione” del diritto del lavoro. Superfluo sottolineare come diventi sempre più necessario vigilare su possibili episodi di molestie ed implememtare policy, e quindi strumenti di controllo della loro applicazione, volti a reprimere comportamenti indesiderati sul luogo di lavoro.

Come misurare l’efficacia del jobs act.

In questi giorni si incrociano sui giornali i pareri di politici ed economisti a commento ai dati sull’occupazione forniti dall’Istat. Da una parte sostenitori del Jobs Act e dall’altra denigratori tirano i dati dalla loro parte per dimostrare l’inconsistenza dell’azione governativa o la sua efficacia.
E’ molto difficile districarsi nei dati forniti dall’Istat, sottrarre i lavoratori con voucher ai lavoratori a tempo determinato e sommarli a quelli a tempo indeterminato, in un balletto di numeri dove si può sostenere tutto ed il contrario di tutto, peraltro sulla base di numeri spesso inaffidabili.
Il problema è poi che con il termine Jobs Act si intendono una serie di provvedimenti legislativi ivi compreso l’incentivo fiscale (sostanziale detassazione triennale della contribuzione previdenziale per gli assunti nel corso dello scorso anno) che non hanno niente a che vedere con la riforma del mercato del lavoro ed in particolare con le norme di semplificazione del recesso.
Diventa quindi difficile focalizzare l’attenzione su quello che era il cuore del provvedimento: l’abolizione dell’art 18 dello Statuto dei lavoratori, che con la sua rigidità in uscita, impediva dall’altra parte un fluido accesso al lavoro, e capire che effetti la riforma abbia davvero prodotto. Credo perciò che più che guardare al numero degli occupati si dovrebbe attendere ancor un po’ per poter disporre dei dati aggiornati su un altro indicatore.
E’ stato a lungo sostenuto che del nanismo delle imprese italiane era responsabile proprio l’art 18 dello Statuto dei Lavoratori, perché gli imprenditori sarebbero stati terrorizzati dal superare la fatidica soglia dei 15 dipendenti. L’abrogazione della reintegra avrebbe così permesso lo sviluppo delle loro aziende eliminando uno dei problemi del nostro settore produttivo.
Ed è proprio a tale dato che occorrerebbe guardare per sapere se la riforma dello Statuto e l’abrogazione della reintegra abbiano effettivamente rappresentato per anni un freno alla occupazione e all’ingresso nel mondo del lavoro. La polemica sui numeri e sulla tipologia dei contratti difficilmente potrà fornire dei risultati univoci.
La prima impressione, che dovrà essere però sottoposta a verificare, è che la sperata crescita delle piccole imprese non ci sia stata, anzi. Ma d’altra parte è difficile pensare che, in una pesante fase recessiva, l’idea che un lavoratore potrà essere licenziato più facilmente possa spingere un imprenditore ad assumere. E’ la salute dell’economia che spinge l’occupazione, più che le leggi, pur utili e più confacenti all’interesse delle imprese, sul recesso o sui controlli a distanza dei lavoratori.

IL PATTO DI NON CONCORRENZA: IL FATTORE ECONOMICO.

Naturalmente l’aspetto economico, ovvero il costo, è uno degli elementi più “sensibili” nella costruzione di un patto di non concorrenza.
Anche in questo caso, come abbiamo già visto in precedenza, prima di addentarsi nei dettagli tecnici è preferibile fissare alcuni principi di carattere generale che diventano fondamentali per non incorrere poi in grossolani errori.
Premesso che non esistono regole certe o semplici algoritmi da applicare per fissare il corrispettivo, va sottolineato che per essere efficace il patto deve rappresentare un effettivo deterrente, deterrente che si costruisce non solo con la penale, ma anche con il “lucro cessante” e cioè la perdita conseguente alla mancata erogazione del corrispettivo per effetto della violazione del patto, a cui peraltro è legato anche l’ammontare della penale.
Quindi non si può essere micragnosi nel fissare il corrispettivo, perché cosi facendo si rende poco efficace la clausola.
Quanto al momento del pagamento questo può avvenire sia durante che dopo la cessazione del rapporto. Entrambe le soluzioni sono valide, ma hanno un effetto psicologico diverso, con il secondo che acquista un valore deterrente maggiore, anche se in realtà gli effetti sono uguali in quanto se il dipendente viola il patto, deve poi restituire quanto percepito in corso di rapporto. E’ però Importante ricordarsi che in caso di pagamento durante il rapporto si rischia di pagare troppo (se il rapporto è molto lungo) o troppo poco, se, viceversa, il rapporto cessa immediatamente, tanto che è preferibile aggiungere, per tutelarsi in questo ultimo caso, una clausola che garantisca un importo minimo.
Quanto agli aspetti fiscali connessi al momento del pagamento le regole sono le seguenti: se il corrispettivo è erogato durante rapporto di lavoro è soggetto a tassazione ordinaria e a contribuzione, mentre se è erogato dopo la cessazione del rapporto, ma era stato previsto da accordi stipulati prima della stessa, come di solito avviene, si paga sempre la contribuzione. ma la somma è soggetta a tassazione separata. E ciò sia che il pagamento avvenga ratealmente o in una soluzione contestualmente al recesso. Diverso il caso in cui l’accordo è raggiunto dopo la cessazione del rapporto, e quindi anche il compenso è erogato successivamente. In questo caso infatti si procederà con la tassazione separata, ma senza che sia soggetto a contribuzione. Come si vede quindi le due soluzioni più comuni non comportano differenze sostanziali né per l’azienda né per il dipendente sotto un profilo fiscale e contributivo.
Vale la pena ricordare infine che se si prevede un pagamento alla fine del rapporto è bene commisurarlo in misura percentuale alla ultima retribuzione e non in cifra fissa per evitare che nel corso del tempo si svaluti in moda tale da renderlo inefficace e che nella retribuzione di riferimento si deve tenere conto anche delle provvigioni o di eventuali bonus aventi carattere obbligatorio e continuativo.

Il patto di non concorrenza: ulteriori riflessioni.

Il patto di non concorrenza soggiace a precise regole di validità. Il patto infatti deve essere limitato per durata ed area di operatività e deve essere remunerato.
La legge però non fissa dei criteri precisi (fatto salvo per la durata che non puo superare i 3 anni ) e la definizione dei limiti di azione è lasciata alle parti.
Per poter operare correttamente è quindi necessario capire la logica sottostante alla norma: non si può imporre ad un lavoratore di restare totalmente inoperoso ed impedirgli di lavorare, anche se questo sacrificio è concordato e pagato in modo adeguato, neppure se il corrispettivo fosse, per assurdo, superiore all`ultimo stipendio. E la ragione è che non è nell´interesse della collettività togliere dal mercato la professionalità e le capacità di un lavoratore per garantire gli interessi di una singola impresa. La libera circolazione delle forze produttive e delle “menti” non può essere sacrificata all’interesse del singolo.
Una volta comprese le ragioni del legislatore e  ciò che sta dietro la norma, diventa più semplice andare a definire quelli che sono i limiti del patto e come possa essere costruito in modo tale da essere conforme alla legislazione vigente ( che peraltro è più o meno simile in tutte le nazioni europee). I fattori da prendere in considerazione sono quindi molti, ma è fondamentale partire dal principio di proporzionalità e di interrelazione fra tutti gli elementi del patto. Un esempio può essere utile a chiarire il concetto:  tanto maggiore l`area tanto minore il periodo, più lungo il periodo di operatività del divieto, tanto maggiore il corrispettivo.
Ma vediamo quali sono gli elementi da prendere in considerazione. In primis l`area di attività dell`azienda, il che significa la sua ampiezza, la sua specificità, il numero di concorrenti. Poi il mercato, ovvero dove e a chi sono destinati i prodotti, quindi, e questo è qualcosa che spesso si tende a dimenticare, deve essere tenuta in debita considerazione la personalità del lavoratore, intendendosi per tale il suo background culturale, la sua professionalità attuale e pregressa, le mansioni svolte. Parlare di un ricercatore nel campo delle biotecnologie non è la stessa cosa che prevedere un patto per un direttore delle risorse umane. Quest`ultimo infatti può infatti trovare facilmente occupazione, fatta salva qualche speciale eccezione, in un azienda di qualsivoglia settore, mentre il tecnico specialista avrà a propria disposizione una limitata offerta, non potendosi certo riciclare nel settore metalmeccanico o nell`information technology. Ma ovviamente contano anche fattori quali la conoscenza delle lingue o precedenti esperienze internazionali per delimitare  l`area o il settore merceologico.
Infine non si deve dimenticare che il legislatore vuole che il patto sia remunerato per compensare il sacrificio imposto al lavoratore e che tale remunerzione, come detto, sia ragionevole e proporzionata. Questo comporta che non siano possibili scorciatoie, non si potrà quindi avere un compenso simbolico  o pensare di introdurre clausole “scappatoia”, quali quelle che consentono ad una delle parti di liberarsi dell`impegno a propria discrezione, magari quando il risultato è già stato raggiunto, per esempio perché  le informazioni che si pensava di dover proteggere non sono più di interesse, o perché il lavoratore ha comunicato di andare a lavorare in un’azienda non in concorrenza.
In ogni caso, avendo come stella polare la ratio legis, non è impossibile realizzare un patto di concorrenza valido e, sopratutto efficace, in particolare se si tengono a mente le seguenti regole di fondo:

  1. Un patto di non concorrenza non può essere costruito in modo tale da impedire al dependente di trovare una nuova occupazione
  2. Deve esistere un equilibrio tra area, durata  e remunerazione, I tre fattori devono essere tra loro proporzionalmente incrociati e modificati
  3. Oltre all’azienda bisogna prendere in considerazione il lavoratore, la sua professionalità attuale e pregressa.
  4. Non esistono scorciatoie nella costruzione del patto e un equo compenso deve essere sempre pagato, non essendo possibile ottenere risultati a costo zero.

Novità in tema di distacco internazionale.

Immediatamente prima delle vacanze estive è entrato in vigore il Decreto L.gs.136/2016 (G.U. 17 luglio 2016) in attuazione alla direttiva 2014/67/UE (c.d. direttiva “Enforcement”) in materia di controlli sui distacchi dei lavoratori da un paese comunitario ad un altro, anche nell’ambito di operazioni infra gruppo o tramite agenzie di somministrazione.
La novità più sostanziale e che potrebbe essere destinata ad avere rilevanti effetti è quella in tema di ispezioni e controlli. Fino ad oggi infatti non esisteva un efficace meccanismo di controllo e sostanzialmente i lavoratori transfrontalieri restavano in limbo di anonimità.
Con la nuova legge viene invece introdotto l’obbligo di notifica al Ministero del Lavoro entro le ore 24 del giorno antecedente l’inizio del distacco e di comunicare tutte le successive modificazioni entro 5 giorni. Al fine ovviamente di consentire un controllo sula legittimità dell’operazione, che ove manchi, porterà il lavoratore ad essere è considerato a tutti gli effetti alle dipendenze del soggetto che ne ha utilizzato la prestazione ed all’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria, a carico tanto del distaccante che dell’utilizzatore, pari a 50 euro per ogni lavoratore e per ogni giornata di occupazione, con un minimo di 5.000 euro e un massimo di 50.000.
A fini di controllo il decreto indica specificatamente gli indici a cui l’ispettorato potrà ricorrere per determinare se il distacco sia o meno autentico.
Fra questi il luogo in cui l’impresa ha la propria sede legale e amministrativa, i propri uffici, reparti o unità produttive; il luogo in cui i lavoratori sono assunti e distaccati; la disciplina applicabile ai contratti conclusi dall’impresa distaccante con i suoi clienti e con i suoi dipendenti; il luogo in cui l’impresa esercita la propria attivita’ economica principale e in cui risulta occupato il suo personale amministrativo; il numero dei contratti eseguiti o l’ammontare del fatturato realizzato dall’impresa nello Stato di stabilimento; il contenuto, la natura e le modalita’ di svolgimento dell’attivita’ lavorativa e la retribuzione del lavoratore; la circostanza che il lavoratore eserciti abitualmente la propria attivita’ nello Stato membro da cui e’ stato distaccato; la temporaneita’ dell’attivita’ lavorativa svolta in Italia e che il lavoratore torni o si preveda che torni a lavorare nello Stato membro da cui e’ stato distaccato e che il datore di lavoro che distacca il lavoratore provveda alle spese di viaggio, vitto o alloggio e le modalita’ di pagamento o rimborso; eventuali periodi precedenti in cui la medesima attivita’ e’ stata svolta dallo stesso o da un altro lavoratore distaccato.
Da un punto di vista sostanziale il decreto poco innova. Viene ribadito il principio che il lavoratore distaccato ha diritto ad una retribuzione non inferiore a quella di un suo collega che lavora dove egli è distaccato, ovviamente a parità di mansioni e quindi in particolare si applicano ai lavoratori distaccati le condizioni di lavoro qui vigenti con riferimento alle seguenti aree: periodi massimi di lavoro e periodi minimi di riposo; durata minima delle ferie annuali retribuite; trattamenti retributivi minimi, compresi quelli maggiorati per lavoro straordinario; condizioni di cessione temporanea dei lavoratori; tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro; provvedimenti di tutela per determinate categorie (gestanti, bambini e giovani); parità di trattamento uomo/donna e altre norme in materia di non discriminazione.
Inoltre si ribadisce il fatto che i lavoratori distaccati che prestino o abbiano prestato attività lavorativa in Italia possono far qui valere sia in sede amministrativa che giudiziale i diritti loro derivanti.

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IL PATTO DI NON CONCORRENZA: LE REGOLE PER AVERE UNA PROTEZIONE EFFICACE.

La tutela del patrimonio aziendale è uno dei principali obiettivi di ogni imprenditore. Non solo dei beni materiali, i beni cosiddetti immateriali hanno altrettanto, se non maggior valore. Segreti industriali, informazioni commerciali, software hanno rappresentano spesso un valore superiore a quello dei beni fisici.
E’ ovvio perciò che molte aziende cerchino gli strumenti per proteggere questo patrimonio. Il patto di non concorrenza è una delle possibilità a cui l’imprenditore può ricorrere. Oggi peraltro è uno strumento particolarmente popolare, ma d’altronde anche nel campo giuridico, come in ogni altro campo: dal cibo all’abbigliamento, dalle auto ai viaggi, la moda e le tendenze la fanno da padrone.
Ma come per la moda esiste l’hautecouture e le sfilate dei grandi stilisti e, d’altra parte, le borse falsificate, così per il patto di non concorrenza si rischia di avere un prodotto di scarto e inutile, se non ci si attrezza in modo adeguato per avere una clausola limitativa della concorrenza effettivamente efficace. Per questo vanno seguite poche, ma determinanti regole.
Innanzitutto deve essere sottolineato che lo scopo del patto è sostanzialmente quello di impedire che il dipendente si trasferisca da un concorrente, portando con se quel bagaglio di conoscenze e soprattutto informazioni acquisite nel corso del rapporto di lavoro.
Come prima regola bisogna quindi tenere presente che il patto di non concorrenza non è utile ed efficace in se, ma lo è in funzione dell’obiettivo che si vuole proteggere. Si deve perciò effettuare una precisa analisi di “quale pericolo“ rappresenterebbe “quel” dipendente quando se ne dovesse andare, per capire se effettivamente il pericolo c’è e se il patto di non concorrenza è lo strumento giusto, o non esistano alternative altrettanto se non più valide.
Da questa premessa discende l’ovvio corollario che non esiste “il patto di non concorrenza “ma esistono tanti patti, ognuno dei quali deve essere adeguato all’obiettivo perseguito e anche, se non forse soprattutto, alla professionalità e alla personalità del lavoratore . E che non sempre il suo know how o le informazioni che detiene, per quanto importanti, sono esportabili alla concorrenza e rendono per questo necessario limitare la trasferibilità.
Deve essere inoltre sempre rammentato che la clausola è un “patto” e come tale coinvolge almeno due parti con tutto quello che ne consegue, in primis il fatto che ogni modifica deve passare da un accordo di entrambi i contraenti, e che sono soggetti a limitazioni. E non esistono scappatoie
Si tratta poi di un accordo oneroso. Questo vuol dire non solo che non è possibile ottenere una protezione a costo zero, come è ben noto, ma che la protezione che si ottiene è direttamente proporzionale al costo sostenuto. Pertanto, un patto sottopagato è un patto poco efficace.
Inoltre bisogna evitare la sindrome del piccione che attanaglia i cani quando vengono portati in una grande piazza cittadina: iniziano ad inseguire tutti gli uccelli presenti e finiscono la loro passeggiata stremati a leccare la base della fontanella dell’acqua senza averne acchiappato uno. Il patto di non concorrenza deve essere stipulato solo dove e per chi davvero serve, evitando di estenderlo a tutta la platea dei dipendenti.
Quindi provando a riassumere le regole auree per avere una buona protezione contro la concorrenza dell’ex dipendente:

  1. Individuare le aree e le informazioni chiave che effettivamente meritano di essere protette
  2. Individuare i dipendenti che sono portatori di informazioni e know how davvero sensibili ed esportabili.
  3. Verificare se il patto di non concorrenza è effettivamente lo strumento più adatto a proteggere gli interessi aziendali
  4. Non ricorrere a clausole standard (clausole google) ma personalizzare le clausole in funzione dei soggetti e dei beni coinvolti
  5. Non cercare escamotage per risparmiare perché potrebbero compromettere l’efficacia dello strumento.

CORSI 2016.

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Come ogni anno Lexellent presenta una serie di appuntamenti di approfondimento professionale sui temi più “scottanti” del Diritto del Lavoro. Gli addetti ai lavori delle Aziende sono invitati a partecipare scegliendo gli argomenti e i settori merceologici appropriati, come indicato nel programma.

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Intere mattinate, nelle date programmate, dedicate ad argomenti specifici, analizzati dai nostri esperti, con ospiti di rilievo provenienti dai settori attinenti al tema trattato, con dibattito aperto a tutti. Partecipazione aperta previa conferma.

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[li icon=”circle” iconcolor=”#003399″]17 febbraio 2016 ore 9-13
Novità in tema di Sicurezza sul lavoro e DVR
anche alla luce del rischio terrorismo: aspetti formali e sostanziali.[/li]
[li icon=”circle” iconcolor=”#003399″]9 marzo 2016 ore 9-13
La contrattazione di secondo livello
: nuove prospettive alla luce delle novità del Jobs Act e della Legge di Stabilità.[/li]
[li icon=”circle” iconcolor=”#003399″]11 maggio 2016 ore 9-13
I controlli a distanza
: come utilizzare le potenzialità offerte dal Jobs Act.[/li]
[li icon=”circle” iconcolor=”#003399″]15 giugno 2016 ore 9-18
Tecniche di negoziazione e redazione di accordi aziendali
. Incontro a pagamento della durata di una giornata.[/li]
[li icon=”circle” iconcolor=”#003399″]4 novembre 2016 ore 9-13
Convegno  annuale sulle Pari Opportunità. “Lavoro e genitorialità: indagini, proposte e prospettive per essere un’azienda inclusiva”
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Intavoliamo un discorso? Alla nostra tavola aspettiamo, nostri ospiti, i Responsabili delle Risorse Umane per dibattere della Contrattazione di II livello. Saranno serviti validi argomenti insieme ad ottimi condimenti: un vero pranzo di lavoro per unire convivialità e formazione sul tema della contrattazione di secondo livello.

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[li icon=”circle” iconcolor=”#4180ab”]16 marzo 2016 ore 12-15
Riservato al settore chimico farmaceutico[/li]
[li icon=”circle” iconcolor=”#4180ab”]22 marzo 2016 ore 12-15
Riservato al settore moda[/li]
[li icon=”circle” iconcolor=”#4180ab”]31 marzo 2016 ore 12-15
Riservato al settore assicurativo finanziario e bancario[/li]
[li icon=”circle” iconcolor=”#4180ab”]4 aprile 2016 ore 12-15
Riservato al settore metalmeccanico[/li]
[li icon=”circle” iconcolor=”#4180ab”]13 aprile 2016 ore 12-15
Riservato alle aziende di servizi[/li]
[li icon=”circle” iconcolor=”#4180ab”]20 aprile 2016 ore 12-15
Riservato al settore alimentare[/li]
[li icon=”circle” iconcolor=”#4180ab”]4 maggio 2016 ore 12-15
Riservato al settore trasporti[/li][/ul]
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Sede corsi: Milano – Via Borghetto 3
I corsi sono a numero chiuso. Si prega di prenotare con il dovuto anticipo.
Informazioni e prenotazioni: 02 8725171 – lexellent@lexellent.it
 
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La legge Cirinnà e i datori di lavoro.

Venerdì 16 settembre, Giulietta Bergamaschi prenderà parte alla tavola rotonda, organizzata dall’Associazione Parks – Liberi e Uguali, dedicata alla presentazione del libro “La legge Cirinnà e i datori di lavoro”, di cui l’avvocato è anche uno degli autori.
L’incontro si svolge all’interno del programma della 5° edizione di LGBT People at Work, il Business Forum sull’orientamento sessuale e l’identità di genere nei luoghi di lavoro.
L’ingresso è aperto agli interessati previa registrazione sul sito dedicato http://www.lgbtpeopleatwork.it/
Milano, Teatro Elfo Puccini, 16 settembre 2016 – ore 9.

EXPERT GUIDES – WOMEN IN BUSINESS LAW 2016.

E’ con piacere che lo studio ha appreso che l’avv. Bergamaschi è tra i professionisti suggeriti nell’edizione 2016 di Expert Guides nella categoria Women in Business Law.
Expert Guides si occupa del mercato legale da oltre 20 anni ed è tra le più importanti forti di informazione per chi vuole acquistare servizi legali.
Per ulteriori informazioni www.expertguides.com

Diversità e inclusione nel posto di lavoro in Italia.

L’avv. Bergamaschi ha pubblicato un articolo sul tema dell’inclusione nel posto di lavoro su Expert Guides, per leggere l’intero articolo, in inglese
https://www.expertguides.com/articles/diversity-and-inclusion-in-the-workplace-in-italy/arjtwped

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