Medical malpractice e sentenza 163/2016 della Corte dei Conti Lombardia.

Nuovo contributo di Alberto Tita, Of Counsel presso Lexellent – Milano e consulente in diritto assicurativo e compliance, che nello scorso mese di febbraio aveva per noi analizzato le sfaccettature del Ddl Gelli, soffermandosi su diversi degli aspetti principali sotto il profilo assicurativo anche e soprattutto in tema di medical malpractice. Un aspetto che torna anche in questo secondo articolo, nel quale (insieme ad Italo Partenza, Avvocato in Milano) affronta una sentenza della Corte dei Conti (Lombardia) del 4 ottobre scorso. Per i due autori, la sentenza risulta “illuminata per i medici, con qualche ombra per l’ospedale ma con molti interrogativi sul sistema di responsabilità”
Medical malpractice. La sentenza n.163 della Corte dei Conti (Lombardia) del 4 ottobre scorso: illuminata per i medici, qualche ombra per l’ospedale, molti interrogativi sul sistema di responsabilità – di Italo Partenza (Avvocato in Milano) ed Alberto Tita (Of Counsel, studio legale Lexellent, Milano)
Lo scorso 4 ottobre la Corte dei Conti, sezione giurisdizionale della Lombardia, con sentenza n.163 (che troverete in allegato in calce all’articolo) ha condannato i tre sanitari di una equipe ospedaliera dell’area milanese, perché riconosciuti responsabili (con colpa grave) di un evento avverso occorso ad un neonato durante il parto.
La ricorrenza del grado elevato della colpa dell’equipe era stata precedentemente riconosciuta nel giudizio penale, inducendo:
a. l’ospedale a liquidare subito al danneggiato una provvisionale, stabilita dal giudice penale in euro 240mila circa;
b. l’assicuratrice dell’ospedale a riconoscere in via transattiva al danneggiato ulteriori 450mila euro.
L’ospedale ha fatto in primis l’atto di prontezza sulla provvisionale, senza chiamare in garanzia la propria compagnia assicuratrice.
L’importo rientrava infatti nella franchigia aggregata annua di 750mila euro, operante sulla polizza di r. c. professionale dell’ospedale.
Essendo poi l’entità del sinistro ricompresa nel massimale della copertura, l’eccedenza della provvisionale (e della franchigia) è stata correttamente liquidata dalla compagnia in sede transattiva.
Per altro verso, l’assicuratrice di uno dei tre sanitari responsabili corrispondeva all’ospedale circa 40mila euro, quale quota-parte del danno ascrivibile alla colpa grave del proprio assicurato.
In questo quadro, la Procura regionale della Corte dei Conti ha proceduto per il recupero dell’esborso dell’ospedale.
Il Collegio giudicante, ricorrendo al potere riduttivo della Corte, ha preso piuttosto spunto dall’anzidetta (parziale) liquidazione assicurativa di uno dei medici dell’equipe, per condannare anche gli altri due sanitari, ciascuno al pagamento della stessa somma di 40mila euro.
In sostanza il Collegio ha ritenuto che la perdita di 240mila euro subita dall’ospedale vada ripartita paritariamente tra l’ente e i suoi sanitari (120mila euro ciascuno, l’uno e gli altri).
In altre parole, avendo l’assicuratrice di uno dei tre già corrisposto la propria quota-parte (quella del proprio assicurato) per circa 40mila euro, il Collegio ha condannato anche gli altri due componenti dell’equipe al pagamento ciascuno della medesima somma.
Questo è il dato della sentenza, dal quale vorremmo muovere qualche riflessione.
La valutazione equitativa, o illuminata, come l’abbiamo definita nella titolazione della presente nota, sta nel ricorrere al potere riduttivo nella sanzione – come ha fatto il Collegio – per non gravare sulla professione sanitaria, “ontologicamente difficile e complessa” per riprenderne le espressioni adoperate.
Il Collegio dunque ha dato prova di equanimità e lungimiranza: è opportuno non scoraggiare l’impegno e lo sforzo dei sanitari. E tale sensibilità della Corte è sicuramente da elogiare.
Per altro verso, però, se la colpa grave della equipe sanitaria in questo caso è stata (i) prima accertata in sede penale e, successivamente, (ii) conclamata nella sede del giudizio contabile, l’ospedale avrebbe titolo a richiedere la rifusione per l’intero (dell’onere subito per la provvisionale corrisposta al danneggiato).
Anzi, qualora non agisse, l’amministrazione dell’ospedale sarebbe lei passibile di azione di rivalsa contabile per non perseguire il proprio diritto-dovere al recupero della somma.
Nella fattispecie, il Collegio ha invece ritenuto di dover coinvolgere nel risarcimento proprio l’ospedale, in ragione degli effetti imprevedibili ed arbitrari della franchigia aggregata sulla polizza di r. c. professionale dell’ospedale.
Secondo il Collegio infatti l’aleatorietà causale-temporale della polizza produce effetti iniqui nella disparità di trattamento tra i sinistri che rimangono a carico totale dell’ospedale, finché la franchigia non è ancora esaurita, e gli altri che, dopo tale soglia, vengono risarciti dalla compagnia assicuratrice.
I primi, pertanto, soggetti a rivalsa erariale; i secondi, affrancati dall’azione del giudice contabile.
Per evitare il quale effetto distorsivo ed iniquo, la sentenza arriva ad ipotizzare due logiche soluzioni: o la stipula di polizze med-mal senza franchigie (ma nella ricostruzione illuminata della sentenza si fa quasi un elogio della funzione correttiva della franchigia, rispetto ai comportamenti non virtuosi degli assicurati), oppure di far stipulare delle polizze ai medici per gli importi lasciati scoperti dalla franchigia della polizza dell’ospedale.
Infatti, se ricorre la colpa grave dei sanitari, come nella fattispecie, ne rispondono loro, eventualmente chiamando in garanzia la loro assicuratrice. Come è stato il caso, di fatto, di uno dei componenti dell’equipe.
Purtroppo l’obbligo assicurativo (per i medici dipendenti), disposto nel 2013 già dalla Balduzzi, non è ancora operante – come ha pronunciato il Consiglio di Stato, con parere n. 486 del 19 febbraio 2015 – finché non sarà emanato il d.p.r. previsto dalla stessa norma a regolare le condizioni minime della polizza obbligatoria.
Ma parliamo sempre di colpa grave. Come è noto, tale è la summa divisio della responsabilità nella sfera pubblica. All’Ente spetta la responsabilità verso il paziente ed il diritto/dovere di rivalsa verso il professionista sanitario dipendente, in caso di colpa grave di questo.
Ne consegue, dunque, che l’operatività della franchigia nella polizza di med-mal dell’ospedale non è l’unica criticità che rileva nella circostanza.
Alcune considerazioni sembrano allora opportune.
La Corte evidenzia in modo molto chiaro la sostanziale aleatorietà dell’esposizione del dipendente pubblico all’azione di rivalsa allorché l’Ente sanitario abbia contratto una copertura assicurativa con una franchigia c.d. “aggregata”, cioè a progressivo esaurimento fino al raggiungimento da parte dell’ente stesso di un tetto massimo di risarcimenti.
In contratti di questo tipo, infatti, fin tanto che il “tetto” non sia stato raggiunto la copertura non opera e dunque la struttura pubblica in primis dovrà provvedere al pagamento di eventuali danni a terzi con l’utilizzo di denaro pubblico senza potersi avvalere della manleva assicurativa ed il dipendente pubblico in via di eventuale successiva rivalsa potrà essere condannato – se accertata la colpa grave – al pagamento totale o parziale (in caso di esercizio del potere di riduzione da parte della Corte).
Ha dunque ragione la Corte nell’evidenziare quanto ingiusta possa apparire la situazione teorica di due dipendenti potenzialmente responsabili – in tempi differenti – di un errore di pari gravità e che abbia comportato un pari esborso da parte dell’erario allorché uno possa godere della copertura indennitaria della compagnia assicuratrice essendo stato superato il tetto massimo della franchigia (ovvero l’importo massimo di ritenzione del rischio da parte dell’assicurato) attraverso ripetuti pagamenti (o mediante un solo pagamento, ma di importo sufficientemente elevato) e l’altro no, poiché la franchigia aggregata non sia ancora stata esaurita.
In questi due casi, infatti, il primo sanitario non si troverebbe esposto a nessun rischio di pagamento (né verso il terzo per la manleva indennitaria della compagnia assicuratrice, né nei riguardi della Corte dei Conti non essendovi stato alcun pagamento da parte dell’erario ma solo dall’assicuratore), mentre il secondo – per effetto del pagamento da parte del suo datore di lavoro – non potrebbe che dover fronteggiare l’azione per danno erariale.
Due differenti esposizioni legate soltanto ad un evento – il raggiungimento del tetto massimo di pagamenti da parte dell’ente sanitario – rispetto al quale nessuno dei dipendenti ha alcun potere di influenza e, soprattutto, nessuna possibilità previsionale.
Orbene, la circostanza in sé appare profondamente ingiusta e meriterebbe riflessioni sotto il profilo della stessa effettiva facoltà da parte del datore di lavoro di discriminare – di fatto – i propri dipendenti decidendo, in modo anche potenzialmente arbitrario, circa le tempistiche di pagamenti dovuti a terzi e, conseguentemente, selezionando quelli da considerare “meritevoli” di tutela indennitaria e quelli no.
Al di là di tale profilo gius-lavoristico – che, allo stato, parrebbe inesplorato – emerge chiaramente quanto l’esistenza di franchigie di elevato importo o – oramai ovunque – quote di auto-ritenzione del rischio (vere e proprie aree di non assicurazione) rappresenti un vulnus logico nel già complesso e disarticolato sistema del risarcimento al paziente, fra colpa del professionista e colpa organizzativa/datoriale dell’Ente ospedaliero.
Vero è, infatti, che con l’aumentare degli importi in autoassicurazione, meglio in auto-ritenzione (ai più che ritengono la cosiddetta autoassicurazione un sano modello gestionale, in quanto auto-responsabilizzante per le strutture sanitarie, verrebbe da chiedere: perché mai l’auto-responsabilizzazione e la necessaria prevenzione degli errori non dovrebbe essere pretesa/garantita anche in presenza di copertura assicurativa?) aumentano in pari grado le possibilità che al medico venga chiesto il conto di quanto per suo errore pagato.
Da qui l’esigenza per il sanitario di rinvenire una propria copertura professionale che si sostituisca ai vuoti di copertura assicurativa delle Asl e provveda ad evitare il pagamento dell’Ente e dunque il danno erariale, oppure di poter usufruire di una polizza che lo tenga indenne dalla futura rivalsa, quale che sarà il destino della stessa dopo l’attesa riforma Gelli/Bianco.
Permangono, tuttavia, inesplorate praterie all’interno delle quali sollevare sempre maggiori perplessità sulla già citata summa divisio fra colpa semplice (ma esiste davvero?) e colpa grave (ma non dovrebbe il giudizio della Corte dei Conti non essere influenzato da quello del Giudice civile?) stante (i) la responsabilità per fatto altrui dell’Ente ospedaliero ex artt. 2049 e 1228 c.c., (ii) la non sovrapponibilità fra colpa grave in sede erariale e civile (anche se nel caso il Magistrato ha aderito alle valutazioni civilistiche effettuate dal Giudice penale) per le ovvie differenti modalità di accertamento della stessa sotto il profilo degli oneri probatori, (iii) la sistematica violazione di fatto dell’obbligo del datore di lavoro di garantire coperture indennitarie per il proprio personale.
Ma ciò che più preoccupa, invece, è una sorta di pan penalismo nella visione della colpa che risulta del tutto estraneo a ciò che da molti anni avviene nelle Corti civili in casi di risarcimento, e dunque in occasione di effettivo danno erariale: l’incapacità cioè di taluni Magistrati contabili – non certamente quello autore della sentenza in commento – di comprendere le dinamiche processuali relative agli oneri probatori civilistici (dopo la pronuncia delle Sezioni Unite n. 577/2008) e le conseguenti colpe gravi erariali dei sanitari non tanto consistenti nell’effettiva colpa medica3 quanto nel non avere reso possibile, con le proprie negligenze/reticenze una adeguata e convincente prova da parte del proprio datore di lavoro dell’adeguatezza del proprio adempimento, così da sottrarsi alle forche caudine della rigorosa disciplina dell’art.1218 c.c..
E quali sono gli oneri probatori ai quali le parti devono sottostare in sede di giudizio per danno erariale? Quelli propri di tale giudizio (il PM ha chiari oneri probatori a proprio carico, come ricordato da ultimo nella sentenza n. 49 del 7 aprile 2016 dellaCorte dei Conti – Emilia-Romagna sulla malpractice medica) o quelli del giudice penale, che in sede risarcitoria utilizza arbitrariamente il civilistico “più probabile che non”?
E’ su tali, gravi incongruenze processuali e sulle reticenze gestionali del personale sanitario che pregiudicano l’efficace difesa processuale dell’Ente ospedaliero, talvolta incentivate da una malintesa e “coprente” interpretazione di un certo hospital risk management tutto proteso a garantire paci aziendali solo di facciata, che dovrebbe posarsi lo sguardo severo del magistrato contabile. Dimenticandosi delle vestigie penalistiche, che forse gli sono più familiari, ma che dalla sentenza Franzese del 2002 poco hanno a che fare con la responsabilità sanitaria e con le ragioni sottese ad un così elevato dispendio di denaro pubblico, impiegato per risarcire, invece che per curare.

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Impresa Cultura.

Interessante il contribuito dell’avv. Giovanni Battista Benvenuto nel 12° rapporto annuale Federculture 2016.
Nella pubblicazione Impresa Cultura, tra i tanti temi trattati dai diversi autori, quello legato al rinnovo del CCNL Federculture è affrontato dall’avvocato giuslavorista.
Per leggere il capitolo “Cultura e Lavoro: il rinnovo del CCNL Federculture” ecco il link libro-impresa-cultura
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D’ANDREA: L’IDEA INNOVATIVA VA MESSA ‘IN GHIACCIO’.

Un’interessante intervista a Renato D’Andrea of counsel dello studio, da parte di Réseau Entreprendre Lombardia.
Un modello di business è molto più difficile da tutelare rispetto ad un prodotto, è una realtà, ed è una delle tante ragioni per cui l’avvocato Renato D’Andrea si chiede come mai la maggior parte delle start up puntino invece sull’innovazione legata a web, economia e marketing.
“Anche interpretare e riproporre un prodotto tradizionale in modo differente e originale, ‘aggiornarlo’ usando la tecnologia e rendendolo più utile, è innovazione” spiega questo associato di Réseau Entreprendre Lombardia, con una esperienza tangibile nella tutela degli asset tangibili, come è scritto nel sito dello Studio legale Lexellent di cui è Of Counsel nel dipartimento di Intellectual Property.
Finora racconta che a REL non ha visto nessun neo imprenditore diverso, con un’idea – prodotto da proteggere e gli piacerebbe, ad esempio, sentire una proposta legata alle stampanti 3D. “Oppure al vasto mondo della ristorazione che come fa notare con piglio pragmatico – è poi uno di quelli che da lavoro a molti: a chi cucina e serve in tavola, a chi pulisce, a chi progetta o arreda i locali”.
Attratto dallo “scopo puro” di Réseau, di cui condivide la strategia del “creare imprese per creare posti di lavoro”, D’Andrea mette a disposizione le proprie competenze legali ripagato dalle numerose opportunità di stare a contatto con realtà “molto all’inizio” e con altri associati, professionisti e imprese, con cui poter fare networking.
A un neo imprenditore convinto di avere in mano, o in testa, un prodotto appena ideato e da tutelare, D’Andrea consiglia di investire i primi euro per iniziare un processo di protezione brevettuale. A quel punto, potrà bussare alla porta di Réseau dove, “se non è un inventore della domenica, potrà trovare chi lo aiuta a stendere una strategia per trovare investitori”.
Una idea valida, messa al sicuro con un brevetto e ben incastonata in un progetto, grazie a REL, ha tutte le carte per risultare appetibile agli occhi di soggetti intermediari che fanno scouting di belle trovate per innaffiarle e lanciarle. Il brevetto innanzitutto, però! O almeno avviare il percorso per ottenerlo. Sembra scontato, come il proteggere i propri capitali in moneta sonante, o come il dovere di pagare le tasse, eppure non lo è. “Meno che in passato, ma la difesa della proprietà intellettuale resta sempre un fattore sottovalutato, percepito come non prioritario, poco conosciuto – spiega D’Andrea lo riscontro anche in chi opera in settori come il design. Non ci sono corsi a riguardo nelle facoltà. E’ come insegnare a pescare ma non spiegare la catena del freddo per conservare quanto ottenuto. Non basta generare innovazione, poi va messa ‘in ghiaccio’ “.

LA MALATTIA NON E’ UN GIOCO.

Lo svolgimento da parte del lavoratore di altra attività lavorativa o ludica durante il periodo di assenza dal lavoro per malattia costituisce illecito di pericolo e non di danno.
E’ il principio ribadito dalla Sezione lavoro della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 16465 del 5 agosto 2015.
In altri termini, durante la malattia, al lavoratore sono precluse tutte le attività, anche ludiche, che possono colposamente ritardare la ripresa del servizio. Ed il danno, da intendersi quale effettivo ritardo, può essere anche solo potenziale, senza necessità che si realizzi effettivamente.
Il caso sottoposto al giudizio della Suprema Corte è quello di un lavoratore che praticava la pesca subacquea durante un periodo di assenza per malattia, pur confermata da due diverse visite fiscali.
La malattia, effettiva, ed il rientro al termine del periodo certificato e giustificato dai sanitari, non gli hanno – alla fine di un lungo e controverso iter giudiziario – evitato la rivalutazione del suo caso con applicazione del “principio di diritto” menzionato. Il Giudice del rinvio è chiamato ad applicare il principio affermato dalla Suprema Corte rispetto al licenziamento per giusta causa intimato dal datore di lavoro. Al lavoratore assente per malattia è contestato che la pesca subacquea è attività incompatibile con lo stato morbile. Nel caso si trattava di coliche addominali.
Ora, secondo la Cassazione, la condotta del lavoratore è potenzialmente lesiva dell’interesse datoriale a ricevere la prestazione. La valutazione è da svolgersi con “giudizio ex ante”, collocandosi idealmente nel momento in cui ha inizio la condotta censurata, per verificare se sia probabile o meno che la pratica della pesca subacquea può, in astratto, ritardare il naturale evolversi della malattia e la guarigione.
La decisione spetta ora nuovamente alla Corte di Appello.

Il Lavoro di domani: il superamento “dell’orario di lavoro”.

Il rapporto di lavoro è storicamente legato al concetto di orario, il tempo della prestazione.  L’istituto dell’orario di lavoro trova così ampio spazio nella contrattazione, collettiva e individuale, che lo disciplina in positivo con la finalità di individuare il “giusto corrispettivo” ed evitare che la prestazione diventi oltremodo gravosa. Dal punto di vista datoriale, tutto ciò si traduce nell’esigenza di rilevare le presenze, spesso con sistemi complessi e dati più o meno integrati in modo automatico con i centri paghe, interni o esterni all’azienda. Una mole di dati direttamente proporzionale alla complessità organizzativa della singole realtà aziendali. Flessibilità, prestazioni esterne alla sede, straordinari o altri istituti possono ulteriormente incrementare la mole di dati necessari a integrare il complesso delle ore lavorate e complicare il sistema di rilevamento. La tecnologia ha reso possibili soluzioni di monitoraggio più semplici e a costi sempre più accessibili, con la rilevazione di prestazioni spesso disegnate sulle esigenze del singolo datore di lavoro. In alcuni settori, però, si assiste a un fenomeno interessante, che vede lo stesso lavoratore organizzare la sua attività o valutare la prestazione rispetto a parametri che non sono direttamente riconducibili al concetto di tempo. Per esempio una società specializzata in consegne a domicilio ha sperimentato un sistema di rilevamento della prestazione basato sul numero medio di consegne svolte dall’operatore nel territorio di riferimento. Individuata la media delle consegne svolte da quell’operatore, si è valutata “normale” la prestazione prossima a quel numero, per eccesso o per difetto: il tempo impiegato a effettuare le consegne, anche se eventualmente inserito in un “arco di impegno” giornaliero (che possono essere le 24 ore o 16 ore o 12, a seconda dei diversi casi), non è rilevante. Si tratta di un modello sperimentale, che francamente delinea difficoltà di coesistenza con l’ordinamento lavoristico corrente. Ci sono innegabili vantaggi e risparmi connessi allo snellimento del sistema di rilevamento e delle risorse chiamate a gestirlo ma possono emergere anche problemi. Si pensi, per esempio, che anche la prestazione straordinaria dovrà essere valutata sulla base del numero di consegne “eccedente” rispetto al parametro base. È anche chiaro che modelli simili non sono replicabili in tutti i settori produttivi. In ogni caso sono esperimenti indicativi del tentativo di superare il tradizionale concetto di prestazione lavorativa scollegandolo dal parametro esclusivamente temporale.

OLTRE IL “NORMALE ORARIO DI LAVORO”.

Nella pratica capita talvolta che la prestazione di fatto svolta dal lavoratore non sia correttamente formalizzata e riportata nel cedolino paga. Spesso si tratta di meri errori, altre volte la differenza può essere il frutto di una deliberata scelta della parte datoriale, diretta a conseguire, ancorché illegittimamente, un contenimento di costi.
Tra questi, il caso più comune, è quello della mancata contabilizzazione delle prestazioni svolte oltre il “normale orario di lavoro”, lo straordinario.
Il confronto giudiziale, in questi casi, non pone le parti sullo stesso piano processuale. Il principio dominante in Giurisprudenza è quello per cui il lavoratore che chiede in via giudiziale il riconoscimento del compenso per lavoro straordinario, ma anche festivo o notturno, ha l’onere di dimostrare di avere lavorato oltre l’orario contrattualmente previsto, in occasione di una festività o in orario notturno (v. per tutte, Cass., Sez. lavoro, 25/05/2016, n. 12434). In assenza di prova , il Giudice non potrà supplire la lacuna con una valutazione equitativa.
Si tratta di una tra le diverse applicazioni del principio generale secondo cui spetta al lavoratore di provare l’inadeguatezza della retribuzione in rapporto alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato. L’accertamento riguarda la prestazione, dunque un “fatto”, in quanto tale incensurabile in Cassazione.
Gli effetti processuali, sono devastanti rispetto alle domande di condanna al pagamento delle prestazioni straordinarie, del festivo o notturno, ove non assistite da adeguato supporto allegatorio e probatorio. E’ infatti verosimile la soccombenza della parte istante e, per l’effetto, la sua condanna a rifondere le spese di lite.
La domanda, perché possa essere accolta, dovrà essere correttamente rappresentata nei suoi elementi di fatto e di diritto. I primi dovranno essere provati attraverso i consueti mezzi previsti dalle norme processuali: documenti, prove orali ma anche presunzioni.

FERIE O NON FERIE, PER IL DATORE DI LAVORO QUESTO PUO’ ESSERE IL DILEMMA.

Estate, tempo di vacanze e relax. Non per tutti. Sicuramente non per alcuni responsabili HR, da quando l’INPS entra a pieno titolo tra i soggetti diversamente interessati alla gestione delle ferie maturate dai dipendenti dell’azienda.
Il tema può essere così brevemente riassunto. L’art. 10, comma 1, del D. Lgs. n. 66/2003, nella versione attualmente in vigore, prevede l’obbligo di godimento delle ferie, in caso di richiesta del lavoratore, per almeno due settimane consecutive nell’anno di maturazione e, per le restanti due settimane, nei 18 mesi successivi al termine dell’anno di maturazione. Il datore di lavoro è obbligato a versare i contributi sulle ferie maturate dai propri dipendenti, se non godute entro il termine previsto dalla legge. Il termine di 18 mesi è sospeso solo se la fruizione delle ferie è impedita da malattia, infortunio, maternità o altro legittimo impedimento.
Negli altri casi, nel cedolino di luglio deve essere riportato anche l’importo “figurativo” corrispondente alle ferie scadute e non godute, mentre i contributi sono versati entro il successivo 16 agosto. Se il lavoratore usufruisce delle ferie dopo la loro scadenza o il rapporto si interrompe, il datore di lavoro opera i conguagli. Se deriva un credito contributivo, opera la compensazione ed il recupero tramite flusso UniEMens.
Il tema è sensibile, non solo per l’impatto che i maggiori oneri contributivi possono avere sul conto economico di alcune organizzazioni aziendali. Il Legislatore ha, infatti, disciplinato anche un articolato sistema di sanzioni amministrative per il quale non trova applicazione il beneficio della diffida (art. 18bis del D.Lgs. n. 66/2003, nella versione attualmente in vigore).
Trova quindi facile spiegazione l’attenzione posta da molte aziende nel sollecitare i propri dipendenti al godimento delle ferie in prossimità della loro scadenza.

Il patto di prolungamento del periodo di preavviso.

Nel rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato ciascuna delle parti può recedere dal contratto, dando preavviso, la cui durata viene normalmente stabilita dalla contrattazione collettiva.
Ma le parti sono libere di accordarsi per prolungare il periodo di preavviso?
Vi sono alcuni contratti collettivi che espressamente prevedono la facoltà delle parti di derogare alla durata prevista dal CCNL: è il caso del CCNL del settore credito che prevede che il lavoratore sia tenuto a presentare le dimissioni per iscritto con il preavviso di un mese, salvo diverso termine concordato dalle parti. Ebbene una volta ammessa dalla contrattazione collettiva, non può che affermarsi la legittimità della disciplina individuale che, ad esempio, preveda il prolungamento del periodo di preavviso da uno a dodici mesi.
Anche la giurisprudenza ammette pacificamente una tale facoltà anche al di là di quanto specificatamente previsto dalla contrattazione collettiva: il preavviso costituisce condizione di liceità del recesso e pertanto non può essere escluso al momento della stipulazione del contratto di lavoro né essere limitato rispetto a quanto previsto dalla normativa collettiva, ma può essere esteso per effetto della volontà delle parti debitamente manifestata.
La pattuizione di un prolungamento del periodo di preavviso deve, secondo la giurisprudenza, rispettare alcuni limiti.
In primo luogo un tale patto deve avere un’efficacia temporanea, al termine della quale le parti sono libere di recedere dal patto stesso, tornando quindi in vigore la durata del preavviso stabilita dal contratto collettivo.
Inoltre se il patto di prolungamento del periodo di preavviso riguarda il recesso del lavoratore, questo dovrà essere compensato adeguatamente: infatti dare un maggiore preavviso per il lavoratore significa essere più legati all’azienda della quale si è dipendenti e, quindi, essere meno liberi di proporsi sul mercato del lavoro.
Quanto alla possibilità di prolungare il preavviso rendendolo più lungo rispetto a quello di licenziamento, i Giudici affermano che una tale facoltà di deroga sia possibile ove prevista dal contratto collettivo ed il lavoratore riceva, quale corrispettivo per il maggior termine un compenso in denaro.
E se un’azienda intende assumere un lavoratore che ha un patto di prolungamento del periodo di preavviso?
In tal caso le alternative possono essere: pagare il periodo di preavviso, in modo che il lavoratore si possa liberare subito oppure chiedere al lavoratore di contrattare una diminuzione o una rinuncia totale al preavviso da parte della società datrice di lavoro.
Quando nessuna di queste strade risulta percorribile, si può sempre chiedere al lavoratore di comportarsi in modo da farsi licenziare per giusta causa.

LAVORARE TROPPO PUO’ FAR MALE ALLA SALUTE DEI DIRIGENTI .. E AL LORO PORTAFOGLIO.

Un orientamento consolidato della Giurisprudenza, anche di legittimità, afferma che il dirigente perde il diritto all’indennità sostitutiva delle ferie non godute quando, pur potendo determinare il periodo di godimento, non sfrutta questa possibilità.
Il caso sottoposto a giudizio è quello, frequente, di un dirigente che, al momento della cessazione del rapporto di lavoro, si vede negare la liquidazione dell’indennità sostitutiva delle ferie maturate e non godute entro i successivi 18 mesi. Si tratta, spesso, di somme importanti, che danno luogo a contenzioso. La norma utile a comprendere il principio più volte espresso dalla Cassazione è l’art. 10 del D. Lgs. n. 66/2003, richiamata negli anni successivi dal Legislatore e dalla contrattazione collettiva. La norma prevede l’obbligo di godimento, in caso di richiesta del lavoratore, per almeno due settimane nell’anno di maturazione e, per le restanti due settimane, nei 18 mesi successivi al termine dell’anno di maturazione.
Fermo il principio espresso anche dalla Suprema Corte (tra le più commentate, v. Cass., Sez. lavoro, n. 12226/2006), al dirigente non rimane che provare la ricorrenza di eccezionali e obiettive necessità aziendali che impediscono tale godimento. Si tratta di prova ardua, che deve riguardare un periodo temporale molto lungo, l’anno in cui le ferie sono maturate e l’anno e mezzo in cui dovevano essere necessariamente godute. L’impedimento deve riguardare tutto il periodo.
L’esimente è stata pure valutata dalla Suprema Corte, secondo cui non può desumersi una presunzione per tutti i dirigenti di piena autonomia decisionale nella scelta del se e quando godere delle ferie, essendo evidente che tale potere non spetta a tutti i dirigenti in quanto tali. (a partire da Cass., Sez. lavoro, n. 13953/2009). Anche il potere di autodeterminare le proprie ferie costituisce, per l’effetto, oggetto di prova “sul fatto”, dovendosi condividere che non accompagna sempre la qualifica di dirigente. Sul dirigente ricade l’onere di provare anche questo elemento.
La pratica di accumulare ferie residue da liquidare al momento della cessazione del rapporto in modo da incrementare le competenze di fine rapporto è, dunque, rischiosa. Tale scelta, nel caso di superamento dei limiti indicati, espone il dirigente al rischio di perdere le ferie e la loro monetizzazione.

Il danno causato dal lavoratore e la trattenuta in busta paga.

Nel caso del risarcimento del danno causato dal lavoratore, il rapporto da cui scaturiscono le reciproche obbligazioni è unico: il lavoratore vanta un credito di tipo retributivo fondato sul contratto di lavoro subordinato ed il datore di lavoro vanta un credito risarcitorio anch’esso fondato sul contratto di lavoro, in quanto conseguente ad un illecito commesso dal lavoratore nell’esecuzione del citato contratto. L’eventuale trattenuta realizzerebbe, quindi, una compensazione impropria.
Il danno causato dal lavoratore in conseguenza della commissione di un atto illecito può essere “riparato” con una trattenuta in busta paga?
La compensazione impropria viene pacificamente ammessa dalla Giurisprudenza, la quale individua quale requisito indispensabile ai fini della legittimità della compensazione, la preventiva contestazione al lavoratore del danno subito, da intendersi non in senso tecnico quale atto che avvia il procedimento disciplinare, ma quale atto che porta a conoscenza del lavoratore l’esistenza del danno subito nonché l’entità dello stesso.
Se tali sono i principi generali applicabili alle trattenute operate per il risarcimento del danno causato dal lavoratore, non possono essere taciute le previsioni di alcuni contratti collettivi che richiedono precisi adempimenti perché la trattenuta possa effettivamente considerarsi valida.
Si prenda ad esempio il contratto collettivo logistica, trasporto merci e spedizioni a norma del quale l’impresa che intenda chiedere il risarcimento dei danni al lavoratore deve preventivamente adottare almeno il provvedimento disciplinare del rimprovero scritto, specificando l’entità del danno. In tal caso non sarà affatto sufficiente una generica contestazione del danno, ma sarà necessaria una contestazione, da intendersi questa volta in senso tecnico, che avvii un procedimento disciplinare che si deve necessariamente conclude con l’irrogazione di un provvedimento disciplinare se si intende poi operare la trattenuta.
Un altro aspetto fondamentale della questione riguarda il limite del quinto che, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza, non trova applicazione nell’ambito delle trattenute operate dal datore di lavoro per danni causati dal lavoratore, trattandosi di contrapposti crediti originati da un unico rapporto, quello lavorativo.
Limiti quantitativi vengono comunque imposti dalla contrattazione collettiva. Ne è un esempio il CCNL Industria Chimica il quale prevede che “Le trattenute per risarcimento danni devono essere rateizzate in modo che la retribuzione mensile non subisca riduzioni superiori al 10% del suo importo.”
Il datore di lavoro che vorrà procedere alla trattenuta dello stipendio del proprio lavoratore, che gli ha causato un danno, dovrà quindi avere ben presente le norme del CCNL per evitare qualsiasi contestazione.

La responsabilità per danni del lavoratore nei confronti del datore di lavoro.

Nell’ambito del rapporto di lavoro si possono verificare violazioni da parte del lavoratore che danno luogo ad una responsabilità risarcitoria.
Sono individuabili due forme di responsabilità a cui il lavoratore può dover far fronte: la responsabilità contrattuale, che discende dagli specifici obblighi assunti con la stipulazione del contratto di lavoro e che si realizza quando il lavoratore risulta inadempiente rispetto a tali obblighi, nonché la responsabilità extracontrattuale, che prescinde da quanto statuito nel contratto di lavoro e che discende da un illecito, penale o amministrativo, commesso dal lavoratore.
Le due tipologie di responsabilità trovano il proprio fondamento legislativo in norme differenti ed in particolare la prima fa riferimento agli artt. 2104 e seguenti, i quali prevedono che in capo a qualsiasi lavoratore sia posto il dovere di diligenza, l’obbligo di fedeltà nonché l’obbligo di lealtà, mentre la seconda tipologia ha quale riferimento l’art. 2043 del codice civile, a norma del quale “qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.
Le due tipologie di responsabilità possono andare di pari passo laddove il lavoratore nell’adempimento delle proprie attività lavorative violi uno degli obblighi sullo stesso incombenti in qualità di lavoratore e, contestualmente, commetta un illecito.
Si pensi ad esempio al caso in cui il prestatore di lavoro subordinato si appropri, nell’esercizio delle sue mansioni, di somme di danaro affidategli dal datore di lavoro. Tale appropriazione integra innanzi tutto un illecito contrattuale, in quanto costituisce la violazione del dovere di eseguire la prestazione lavorativa nell’osservanza delle regole di correttezza (ex art. 1175 c.c. ) e di diligenza (ex art. 2104 c.c. ). Il medesimo comportamento costituisce poi un illecito poiché lede il diritto assoluto all’integrità del patrimonio, di cui è titolare, indipendentemente dal contratto di lavoro, il datore di lavoro.
Ma può il datore di lavoro rivalersi per il danno subito sul lavoratore?
La Cassazione afferma che il datore di lavoro sia legittimato ad agire in giudizio per il risarcimento del danno sia in via contrattuale, sia in via extracontrattuale. La diversità delle due azioni ha rilievo ad esempio in ordine al regime dell’onere probatorio, posto che per la prima tipologia di responsabilità è sufficiente che il datore dimostri l’esigibilità del diritto al corretto adempimento, mentre per la seconda tipologia sarà necessario provare oltre al diritto anche il nesso di causalità tra il fatto e il danno subito.
È bene quindi tenere presente che, indipendentemente dalla fonte della specifica responsabilità, il datore di lavoro ha diritto ad ottenere il risarcimento quando il lavoratore provochi un danno al suo patrimonio.

Obbligo di repêchage e divieto di demansionamento alla luce delle modifiche dell’articolo 2103 c.c.

La modifica, ad opera del d. lgs. 81/2015 che ha interessato l’art. 2103 c.c. sulle mansioni, sembra dispiegare i suoi effetti anche nell’ambito dell’onere di repêchage, termine con il quale si fa riferimento alla prova che il datore di lavoro è chiamato a dare sull’inevitabilità del licenziamento, intesa come impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse rispetto a quelle ricoperte al momento del licenziamento.
La domanda che ci si pone è se l’ampliamento determinato dalla modifica dell’art. 2103 c.c. del potere datoriale di ius variandi determini un parallelo ampliamento del repêchage, e cioè un carico aggiuntivo per il datore di lavoro che voglia procedere ad effettuare un licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
La riforma infatti incide anche sull’obbligo di repêchage, determinando in capo al datore di lavoro un obbligo di provare in giudizio non solo l’inutilizzabilità del lavoratore sulle mansioni analoghe a quelle da ultimo svolte, bensì anche su mansioni diverse, non necessariamente coerenti con il bagaglio professionale del lavoratore, purché ricomprese nello stesso livello di inquadramento ovvero nel livello inferiore, ai sensi dei commi 1 e 2 dell’art. 2103 c.c.
Nel momento in cui l’art. 2103 c.c. non adotta più come criterio l’equivalenza professionale come limite all’esercizio dello ius variandi, ma un diverso criterio di delimitazione delle mansioni esigibili, quale quello della loro riconducibilità allo stesso livello e categoria legale di inquadramento, il repêchage potrebbe anch’esso estendersi fino a ricomprendere automaticamente mansioni anche inquadrate nel livello inferiore e non necessariamente coerenti con la professionalità posseduta dal lavoratore.
La versione pre-riforma dell’art. 2103 c.c. prevedeva, all’ultimo comma, la nullità di ogni patto contrario al generale divieto di modifica in peius delle mansioni del lavoratore. Non solo quindi non era possibile prevedere una disciplina del rapporto di lavoro che consentisse l’assegnazione del lavoratore a mansioni inferiori, ma non era nemmeno prospettabile una pattuizione individuale avente ad oggetto uno specifico spostamento peggiorativo dello stesso.
La riforma del 2015 è intervenuta significativamente sul generale divieto di demansionamento, introducendo direttamente nel testo dell’art. 2103 c.c. alcune deroghe espresse. Tra le ipotesi legittime di demansionamento, è stata riconosciuta, da un lato, alla contrattazione collettiva la facoltà di introdurre specifici casi di demansionamento, e, dall’altro, a quella individuale di concordare mutamenti peggiorativi delle mansioni, nonché dell’inquadramento e della retribuzione spettante al lavoratore. In base alla nuova disciplina i patti che introducono modifiche peggiorative delle mansioni potranno quindi considerarsi nulli solo laddove non ricorrano le condizioni di demansionamento legittimo previste dalla legge o dalla contrattazione collettiva, ovvero nell’ipotesi in cui tali patti siano concordati dalle parti al di fuori in una delle sedi indicate dal sesto comma dell’art. 2103 c.c. e in assenza di uno specifico interesse del lavoratore.
A queste ipotesi si aggiungono quelle già introdotte dal legislatore per le lavoratrici madri, laddove il tipo di attività o le condizioni ambientali siano pregiudizievoli alla loro salute; per la sopravvenuta inabilità allo svolgimento delle mansioni per infortunio o malattia; e, infine, nel caso di accordo sindacale, concluso nell’ambito della consultazione sindacale relativa a una procedura di licenziamento per riduzione di personale, che prevede il riassorbimento totale o parziale dei lavoratori esuberanti.

LA LEGGE CIRINNà E I DATORI DI LAVORO.

L’avv. Giulietta Bergamaschi, responsabile del dipartimento Gestione e Cultura delle Diversità dello studio, ha partecipato alla stesura del libro “La Legge Cirinnà e i Datori di Lavoro”, edito da Parks, associazione datoriale tesa ad aiutare le aziende socie a creare ambienti di lavoro inclusivi e attivare strategie di Diversity Management valide sia sul piano etico sia per la crescita aziendale.
Lo studio, oltre ad essere socio di Parks, è da sempre attivo sul tema dell’inclusione che approfondisce con il convegno annuale sulle pari opportunità del 4 novembre. Le energie convogliate nel Diversity Management sono testimoniate dall’intero dipartimento dedicato – un unicum nel panorama delle boutique legali – e soprattutto sono riconosciute dai premi nazionali (Legal Community) e internazionali (The Lawyer).
Il libro è disponibile in versione digitale, per sfogliarne o scaricarne una copia http://www.parksdiversity.eu/attivita-di-parks/pubblicazioni/
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TOP LEGAL AWARDS: lexellent tra i finalisti.

Ancora una volta lo studio e i suoi professionisti in vetta alle classifiche.
I Top Legal Awards 2016 vedono infatti lo studio Lexellent tra i candidati al premio Settore Lavoro – Squadra e l’avvocato Sofia Bargellini come professionista emergente.
I migliori auguri dello studio a tutti i finalisti!

Mansioni del lavoratore: quali sono le modifiche introdotte dal Jobs Act?

Prima della riforma, l’art. 2103 c.c. riconosceva al lavoratore il diritto a essere adibito alle mansioni per le quali era stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore eventualmente acquisita in seguito o, ancora, a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Il datore di lavoro che avesse voluto modificare le mansioni del lavoratore avrebbe potuto farlo solo conferendogli mansioni superiori o equivalenti.
Il decreto legislativo n. 81 del 15 giugno 2015, entrato in vigore il 25 giugno 2015, ha sostituito integralmente la regolamentazione previgente e, al fine di aumentare la flessibilità non solo in entrata e in uscita ma anche nella gestione dei rapporti di lavoro, ha attribuito un importante spazio all’autonomia collettiva e individuale.
A seguito delle novità introdotte, il criterio dell’equivalenza delle mansioni viene sostituito dal riferimento più specifico alle mansioni “riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento”.
La riforma promuove, in questo ambito, un ruolo primario della contrattazione collettiva a cui viene affidata la determinazione del parametro sulla base del quale operare la classificazione contrattuale della professionalità dei lavoratori. L’autonomia collettiva diventa così il nuovo arbitro della mobilità in orizzontale, nel senso che, nell’ipotesi in cui le mansioni rientrino nella stessa categoria, non si potrà più eccepire la non equivalenza delle mansioni. Ne deriva una maggiore flessibilità organizzativa per il datore di lavoro, dato l’ampliamento del raggio d’azione dello ius variandi.
L’art. 2103 c.c. viene novellato poi con riguardo al potere del datore di attribuire mansioni inferiori. Se prima il lavoratore avrebbe potuto vedersi conferite solo mansioni superiori o al massimo equivalenti, ora invece vengono previste tre specifiche ipotesi di demansionamento: la determinazione unilaterale del datore di lavoro a seguito di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore; la conclusione di accordi collettivi in specifiche ipotesi; la stipulazione di accordi individuali nell’interesse del lavoratore. Ai sensi del comma 5 dell’art. 2103 c.c., il lavoratore demansionato ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo di cui gode al momento del mutamento, fatta eccezione per quelle erogazioni collegate a specifiche modalità della prestazione.
Con riferimento invece alla mobilità verso l’alto, il novellato art. 2103 c.c., da un lato, ha mantenuto inalterato il diritto del lavoratore a ricevere il trattamento economico corrispondente all’attività svolta, dall’altro, ha introdotto modifiche in materia di assegnazione definitiva alle mansioni superiori.
L’assegnazione diventa definitiva trascorso il periodo fissato dai contratti collettivi, salvo diversa volontà del lavoratore, volontà che deve essere slegata da ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio. In mancanza di una fissazione del periodo da parte dei contratti collettivi, l’assegnazione diventa definitiva trascorsi 6 mesi, laddove la previgente disciplina prevedeva al fine di far scattare il diritto alla promozione un periodo inferiore, pari a 3 mesi. La novella chiarisce anche che il periodo per la maturazione dell’assegnazione definitiva a mansioni superiori deve essere continuativo.