Il prossimo numero dell’Impresa, quello di febbraio, avrà come tema centrale la crisi della globalizzazione. Dalle prime dichiarazioni (e iniziative) protezionistiche di Trump alla hard Brexit con le nuove leadership populiste delle due più antiche e consolidate democrazie mondiali, gli Stati Uniti e il Regno Unito.
Ce ne parlano un politologo, Vittorio Emanuele Parsi, un giuslavorista, Sergio Barozzi, un economista, Francesco Daveri, un consulente industriale, Luca Rossi, capo europeo di A.T. Kearney.
Nel frattempo citiamo più volte anche il Forum di Davos, la riunione che si è tenuta a metà gennaio in Svizzera fra i grandi della terra e da cui emerge uno spaccato del probabile nuovo ordine mondiale e di come si svilupperà l’economia dei prossimi anni.
Al di là di quello che raccontiamo sulla rivista, questa edizione di Davos rimarrà probabilmente negli annali come quella di una presa di coscienza: la classe media dei paesi sviluppati non ci sta più a contare sempre meno, il sistema democratico nato alla fine della Seconda Guerra Mondiale o se ne rende conto o rischia di collassare, a partire dall’Unione Europea. Il fatto che l’1% della popolazione mondiale abbia a disposizione risorse pari al rimanente 99%, come ha certificato l’ONG Oxfam nel suo rapporto presentato a Davos, non è più tollerato dagli elettorati europei e nordamericani. Paradossalmente non sembra dare fastidio invece ai paesi in via di sviluppo, che negli ultimi 30 anni hanno visto il loro tenore di vita alzarsi costantemente. Non è un caso se, a Davos, l’unico alfiere della globalizzazione così come l’abbiamo conosciuta fino a oggi è stato Xi Jinping segretario del Partito comunista cinese e presidente della Repubblica popolare cinese, cioè il numero uno della nazione che, negli ultimi 30 anni, più di ogni altra ha tratto vantaggi dall’apertura dei mercati portata dalla globalizzazione.
Una crisi legata dunque solo a temi economici? No: la parola d’ordine che è emersa con urgenza e con prepotenza a Davos dagli elettorati delle grandi democrazie non è stata “dateci più soldi”, ma dateci purpose, uno scopo. Questo è quello che manca, più ancora del reddito deteriorato, alle classi medie occidentali. Prima ancora che impoverite appaiono prive di una direzione di marcia, di un obiettivo nella vita, di un ruolo che gli è stato sottratto dal lavoro che scompare e che si svaluta. La tecnologia è bella, comoda e letale. E negli ultimi 30 anni tutte le risorse create dalla modernizzazione sono andate a remunerare la finanza (compresa quella che tiene in piedi le pensioni, non solo quella di pochissimi e cattivissimi “speculatori”) non il lavoro. È anche per questo che le ipotesi di un reddito di cittadinanza agitato dai 5 Stelle (ma anche da altre forze politiche in molte altre parti del mondo) non convince: se diamo i soldi alla gente per non lavorare come facciamo a dar loro anche la dignità, un ruolo e, appunto, uno scopo? Non ci bastano segnali come i 2.000 euro all’anno spesi mediamente da ogni italiano in giochi d’azzardo (120 miliardi, l’8% del PIL!), la valanga di tempo, energie e cattive idee che tracimano da Facebook e dai social? Una società opulenta, o almeno nutrita, di persone senza nessuna “direzione di casa” (come cantava il neo premio Nobel Bob Dylan in Like a Rolling Stone già 52 anni fa) è una società improduttiva, sterile, rancorosa, senza valori e tendenzialmente instabile. Ne parleremo ancora.
Un po’dispiace che questa verità, la mancanza di uno scopo per la classe media, a Davos non sia stato un grande pensatore, un guru della società postmoderna a portarlo all’attenzione generale ma una leader conservatrice di complemento come Theresa May, arrivata al potere apparentemente quasi per caso. Ciò non toglie che abbia colto quello che il resto della leadership mondiale sembra non aver colto. Che il re è nudo…