Il “whistleblowing” prima e dopo la recente Direttiva UE in argomento

L’ultimo articolo del Prof. Francesco Bacchini sul tema “whistleblowing“, per il numero di novembre di HR Online, periodico dedicato alle Risorse Umane di AIDP.

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La figura del whistleblower (colui che, all’interno del proprio ambito lavorativo, segnala frodi, violazioni, reati, irregolarità) trova tutela, in Italia, nella L. n. 179/2017, efficace nel perimetro applicativo del D.Lgs.n. 231/2001 (che sancisce la responsabilità delle persone giuridiche per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato) e quindi rivolta ai lavoratori nei soli enti:

  • destinatari del predetto Decreto (enti forniti di personalità giuridica, società e associazioni anche prive di personalità giuridica, ai sensi dell’art.1, comma 2);
  • che si siano adeguati al sistema di compliance ivi prescritto (adozione di un modello di organizzazione e gestione e nomina dell’organismo autonomo di vigilanza).

La vigente L. 179/2017 interviene, quindi, a fronte dei soli illeciti (inclusi nell’elenco dei c.d. “reati presupposto”)che possono determinare la responsabilità dell’ente.
L’art. 2 della stessa legge impone infatti che i modelli organizzativi adottati dall’ente prevedano, a tutela del denunciante:

  • specifici canali informativi dedicati alle segnalazioni, di cui almeno uno con modalità informatiche, tali da garantire la riservatezza dell’identità del segnalante;
  • il divieto di atti di ritorsione o di discriminazione nei confronti del segnalante;
  • sanzioni per chi viola le misure di tutela del segnalante nonché di chi effettua con dolo o colpa grave segnalazioni poi rivelatesi infondate;
  • la previsione di una giusta causa di rivelazione di notizie coperte dall’obbligo di segreto di cui agli artt. 326, 622 e 623 c.p. e all’art. 2105 c.c.

Direttamente prevista dalla Legge, a beneficio del whistleblower, è l’espressa nullità (presunta, con conseguente onere di prova contraria in capo al datore):

  • del licenziamento (ritorsivo o discriminatorio);
  • del demansionamento;
  • di qualsiasi misura ritorsiva o discriminatoria per motivi collegati direttamente o indirettamente alla segnalazione.

Da tutto quanto sopra emerge, quindi, come la protezione del whistleblower sia oggi parziale e non generale, in quanto prevista solo in relazione ai reati presupposto del d.lgs. n. 231/2001 e comunque rimessa alla discrezionalità dell’ente, il quale trasporrà nel proprio modello organizzativo i mezzi di tutela ritenuti più adeguati in favore del segnalante.
I margini di tutela così tracciati dalla normativa nazionale saranno sensibilmente ampliati grazie alla Direttiva approvata lo scorso 7 ottobre dal Consiglio dell’Unione Europea (da recepirsi entro il 2021), che interviene in favore dei soggetti che denuncino, in imprese private con almeno 50 dipendenti, trasgressioni del diritto eurounitario vigente in settori quali: appalti pubblici, sicurezza dei prodotti, servizi e mercati finanziari, riciclaggio, finanziamento del terrorismo, ambiente, sicurezza degli alimenti, etc…
Tra i “segnalanti” la Direttiva contempla non solo i lavoratori “in senso ampio” (dipendenti, anche pubblici, lavoratori autonomi – quali consulenti o freelance -, volontari, tirocinanti retribuiti e non, soggetti sottoposti alla supervisione e la direzione di appaltatori, subappaltatori e fornitori), ma pure azionisti e titolari di cariche (anche non esecutive) in impresa, oltre a soggetti il cui rapporto lavorativo non sia iniziato (e che siano venuti a conoscenza di violazioni in fase precontrattuale) o sia già concluso, e ancora, i facilitatori e i terzi che assistono l’informatore (ad esempio, colleghi o parenti potenzialmente esposti a ritorsioni sul lavoro).
Sotto il profilo procedurale, il segnalante disporrà di due canali di denuncia (il primo, interno all’azienda, da preferire, il secondo esterno) che, nel rispetto dei requisiti dettati dalla Direttiva, devono assicurare, anzitutto, la riservatezza del segnalante, nonché la tempestività e la trasparenza dell’intera procedura.
La Direttiva tutela inoltre l’informatore (purché quest’ultimo abbia effettuato la denuncia mediante i suddetti canali e sulla base di notizie fondatamente ritenute vere all’atto della segnalazione) con:

  1. divieto di misure ritorsive (tra cui l’art. 19 contempla, in un elenco molto dettagliato: licenziamento, retrocessione di grado, mancata promozione, mutamento di funzioni, cambiamento di luogo o di orario di lavoro, etc…)
  2. misure di sostegno e protezione (artt. 20 e 21):garanzie sul piano informativo, patrocinio gratuito a spese dello Stato, supporto psicologico, integralità del risarcimento dei danni, esonero di responsabilità per lecita acquisizione di dati strumentali alla denuncia;

Tra le misure protettive per le “persone coinvolte” (i denunciati quali responsabili della violazione o i soggetti a questi ultimi collegati) troviamo, invece: il diritto di ricorso ad un giudice imparziale, la presunzione di innocenza, il diritto di difesa, di essere sentito e di accesso al fascicolo, la riservatezza durante le indagini (art. 22).
In ultima analisi, è evidente che il recepimento della Direttiva nel sistema italiano comporterà un significativo passo in avanti verso la tutela del whistleblower, che dovrà operare a livello generale e, quindi, ben al di là di quanto previsto nei modelli di organizzazione e gestione di cui al D. Lgs. 231/2001.
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Un trapianto può salvarti la vita, ma non sempre il posto di lavoro.

E’ quanto è accaduto in questi giorni a Torino, dove un operaio, rientrato in fabbrica dopo aver subito un trapianto di fegato, si è visto recapitare una lettera di licenziamento per inidoneità alla mansione specifica. In buona sostanza, le sue condizioni di salute non gli consentono di continuare a svolgere le sue normali mansioni.
Stando a quanto si legge nei quotidiani, all’operaio non sarebbe stata offerta alcuna alternativa rispetto al licenziamento, mentre questi avrebbe accettato anche di essere demansionato.
Se ciò è vero, il licenziamento potrebbe essere dichiarato illeggitimo (sempre che venga accertata in giudizio la presenza in azienda di altre mansioni, anche inferiori, che avrebbero potuto essere assegnate all’operaio).
L’art. 42 D.L. 81/2008, in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro, prevede espressamente la possibilità che il datore di lavoro possa demansionare il lavoratore nel caso in cui questi non sia più in grado di svolgere le mansioni per le quali era stato assunto e nell’azienda non vi siano disponibili mansione equivalenti. In tal senso si è espressa più volte la Corte di Cassazione (da ultimo si veda la sentenza n. 2008 del 26.01.2017). Prima di comunicare il licenziamento, dunque, il datore di lavoro deve effettuare una mappatura delle eventuali posizioni lavorative vacanti in azienda ed offrire al dipendente, meglio se fatto per iscritto, delle alternative al licenziamento (ove ve ne siano).
Una buona sintesi del comportamento da seguire in tali situazioni è offerta dalla seguente massima della Corte di Cassazione (n. 10018 del 16/05/2016):
In tema di licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica alle mansioni, se l’impossibilità del reimpiego, anche in mansioni inferiori, è condizione necessaria per legittimare l’esercizio del potere di recesso, è onere del soggetto che quel potere si appresta ad esercitare (ovvero il datore di lavoro, ndr) provare che ne sussistano i presupposti e, quindi, prospettare al lavoratore la scelta fra l’accettazione del demansionamento e la risoluzione del rapporto di lavoro. Ne deriva che, ove siano disponibili posizioni lavorative dequalificanti, il licenziamento è reso illegittimo dalla mancanza del consenso del lavoratore all’offerta del datore, il quale non è esonerato dall’obbligo di ricercare soluzioni alternative, eventualmente comportanti il demansionamento, per il solo fatto che il lavoratore non gli abbia, di sua iniziativa, manifestato la disponibilità ad andare a ricoprire mansioni inferiori compatibili con il suo stato di salute“.
In conclusione, solo laddove il dipendente rifiuti le nuove mansioni (e l’eventuale demansionamento), si può procedere al licenziamento.

Obbligo di repêchage e divieto di demansionamento alla luce delle modifiche dell’articolo 2103 c.c.

La modifica, ad opera del d. lgs. 81/2015 che ha interessato l’art. 2103 c.c. sulle mansioni, sembra dispiegare i suoi effetti anche nell’ambito dell’onere di repêchage, termine con il quale si fa riferimento alla prova che il datore di lavoro è chiamato a dare sull’inevitabilità del licenziamento, intesa come impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse rispetto a quelle ricoperte al momento del licenziamento.
La domanda che ci si pone è se l’ampliamento determinato dalla modifica dell’art. 2103 c.c. del potere datoriale di ius variandi determini un parallelo ampliamento del repêchage, e cioè un carico aggiuntivo per il datore di lavoro che voglia procedere ad effettuare un licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
La riforma infatti incide anche sull’obbligo di repêchage, determinando in capo al datore di lavoro un obbligo di provare in giudizio non solo l’inutilizzabilità del lavoratore sulle mansioni analoghe a quelle da ultimo svolte, bensì anche su mansioni diverse, non necessariamente coerenti con il bagaglio professionale del lavoratore, purché ricomprese nello stesso livello di inquadramento ovvero nel livello inferiore, ai sensi dei commi 1 e 2 dell’art. 2103 c.c.
Nel momento in cui l’art. 2103 c.c. non adotta più come criterio l’equivalenza professionale come limite all’esercizio dello ius variandi, ma un diverso criterio di delimitazione delle mansioni esigibili, quale quello della loro riconducibilità allo stesso livello e categoria legale di inquadramento, il repêchage potrebbe anch’esso estendersi fino a ricomprendere automaticamente mansioni anche inquadrate nel livello inferiore e non necessariamente coerenti con la professionalità posseduta dal lavoratore.
La versione pre-riforma dell’art. 2103 c.c. prevedeva, all’ultimo comma, la nullità di ogni patto contrario al generale divieto di modifica in peius delle mansioni del lavoratore. Non solo quindi non era possibile prevedere una disciplina del rapporto di lavoro che consentisse l’assegnazione del lavoratore a mansioni inferiori, ma non era nemmeno prospettabile una pattuizione individuale avente ad oggetto uno specifico spostamento peggiorativo dello stesso.
La riforma del 2015 è intervenuta significativamente sul generale divieto di demansionamento, introducendo direttamente nel testo dell’art. 2103 c.c. alcune deroghe espresse. Tra le ipotesi legittime di demansionamento, è stata riconosciuta, da un lato, alla contrattazione collettiva la facoltà di introdurre specifici casi di demansionamento, e, dall’altro, a quella individuale di concordare mutamenti peggiorativi delle mansioni, nonché dell’inquadramento e della retribuzione spettante al lavoratore. In base alla nuova disciplina i patti che introducono modifiche peggiorative delle mansioni potranno quindi considerarsi nulli solo laddove non ricorrano le condizioni di demansionamento legittimo previste dalla legge o dalla contrattazione collettiva, ovvero nell’ipotesi in cui tali patti siano concordati dalle parti al di fuori in una delle sedi indicate dal sesto comma dell’art. 2103 c.c. e in assenza di uno specifico interesse del lavoratore.
A queste ipotesi si aggiungono quelle già introdotte dal legislatore per le lavoratrici madri, laddove il tipo di attività o le condizioni ambientali siano pregiudizievoli alla loro salute; per la sopravvenuta inabilità allo svolgimento delle mansioni per infortunio o malattia; e, infine, nel caso di accordo sindacale, concluso nell’ambito della consultazione sindacale relativa a una procedura di licenziamento per riduzione di personale, che prevede il riassorbimento totale o parziale dei lavoratori esuberanti.