Insights

Medical malpractice e sentenza 163/2016 della Corte dei Conti Lombardia.

Nuovo contributo di Alberto Tita, Of Counsel presso Lexellent – Milano e consulente in diritto assicurativo e compliance, che nello scorso mese di...

Nuovo contributo di Alberto Tita, Of Counsel presso Lexellent – Milano e consulente in diritto assicurativo e compliance, che nello scorso mese di febbraio aveva per noi analizzato le sfaccettature del Ddl Gelli, soffermandosi su diversi degli aspetti principali sotto il profilo assicurativo anche e soprattutto in tema di medical malpractice. Un aspetto che torna anche in questo secondo articolo, nel quale (insieme ad Italo Partenza, Avvocato in Milano) affronta una sentenza della Corte dei Conti (Lombardia) del 4 ottobre scorso. Per i due autori, la sentenza risulta “illuminata per i medici, con qualche ombra per l’ospedale ma con molti interrogativi sul sistema di responsabilità”
Medical malpractice. La sentenza n.163 della Corte dei Conti (Lombardia) del 4 ottobre scorso: illuminata per i medici, qualche ombra per l’ospedale, molti interrogativi sul sistema di responsabilità – di Italo Partenza (Avvocato in Milano) ed Alberto Tita (Of Counsel, studio legale Lexellent, Milano)
Lo scorso 4 ottobre la Corte dei Conti, sezione giurisdizionale della Lombardia, con sentenza n.163 (che troverete in allegato in calce all’articolo) ha condannato i tre sanitari di una equipe ospedaliera dell’area milanese, perché riconosciuti responsabili (con colpa grave) di un evento avverso occorso ad un neonato durante il parto.
La ricorrenza del grado elevato della colpa dell’equipe era stata precedentemente riconosciuta nel giudizio penale, inducendo:
a. l’ospedale a liquidare subito al danneggiato una provvisionale, stabilita dal giudice penale in euro 240mila circa;
b. l’assicuratrice dell’ospedale a riconoscere in via transattiva al danneggiato ulteriori 450mila euro.
L’ospedale ha fatto in primis l’atto di prontezza sulla provvisionale, senza chiamare in garanzia la propria compagnia assicuratrice.
L’importo rientrava infatti nella franchigia aggregata annua di 750mila euro, operante sulla polizza di r. c. professionale dell’ospedale.
Essendo poi l’entità del sinistro ricompresa nel massimale della copertura, l’eccedenza della provvisionale (e della franchigia) è stata correttamente liquidata dalla compagnia in sede transattiva.
Per altro verso, l’assicuratrice di uno dei tre sanitari responsabili corrispondeva all’ospedale circa 40mila euro, quale quota-parte del danno ascrivibile alla colpa grave del proprio assicurato.
In questo quadro, la Procura regionale della Corte dei Conti ha proceduto per il recupero dell’esborso dell’ospedale.
Il Collegio giudicante, ricorrendo al potere riduttivo della Corte, ha preso piuttosto spunto dall’anzidetta (parziale) liquidazione assicurativa di uno dei medici dell’equipe, per condannare anche gli altri due sanitari, ciascuno al pagamento della stessa somma di 40mila euro.
In sostanza il Collegio ha ritenuto che la perdita di 240mila euro subita dall’ospedale vada ripartita paritariamente tra l’ente e i suoi sanitari (120mila euro ciascuno, l’uno e gli altri).
In altre parole, avendo l’assicuratrice di uno dei tre già corrisposto la propria quota-parte (quella del proprio assicurato) per circa 40mila euro, il Collegio ha condannato anche gli altri due componenti dell’equipe al pagamento ciascuno della medesima somma.
Questo è il dato della sentenza, dal quale vorremmo muovere qualche riflessione.
La valutazione equitativa, o illuminata, come l’abbiamo definita nella titolazione della presente nota, sta nel ricorrere al potere riduttivo nella sanzione – come ha fatto il Collegio – per non gravare sulla professione sanitaria, “ontologicamente difficile e complessa” per riprenderne le espressioni adoperate.
Il Collegio dunque ha dato prova di equanimità e lungimiranza: è opportuno non scoraggiare l’impegno e lo sforzo dei sanitari. E tale sensibilità della Corte è sicuramente da elogiare.
Per altro verso, però, se la colpa grave della equipe sanitaria in questo caso è stata (i) prima accertata in sede penale e, successivamente, (ii) conclamata nella sede del giudizio contabile, l’ospedale avrebbe titolo a richiedere la rifusione per l’intero (dell’onere subito per la provvisionale corrisposta al danneggiato).
Anzi, qualora non agisse, l’amministrazione dell’ospedale sarebbe lei passibile di azione di rivalsa contabile per non perseguire il proprio diritto-dovere al recupero della somma.
Nella fattispecie, il Collegio ha invece ritenuto di dover coinvolgere nel risarcimento proprio l’ospedale, in ragione degli effetti imprevedibili ed arbitrari della franchigia aggregata sulla polizza di r. c. professionale dell’ospedale.
Secondo il Collegio infatti l’aleatorietà causale-temporale della polizza produce effetti iniqui nella disparità di trattamento tra i sinistri che rimangono a carico totale dell’ospedale, finché la franchigia non è ancora esaurita, e gli altri che, dopo tale soglia, vengono risarciti dalla compagnia assicuratrice.
I primi, pertanto, soggetti a rivalsa erariale; i secondi, affrancati dall’azione del giudice contabile.
Per evitare il quale effetto distorsivo ed iniquo, la sentenza arriva ad ipotizzare due logiche soluzioni: o la stipula di polizze med-mal senza franchigie (ma nella ricostruzione illuminata della sentenza si fa quasi un elogio della funzione correttiva della franchigia, rispetto ai comportamenti non virtuosi degli assicurati), oppure di far stipulare delle polizze ai medici per gli importi lasciati scoperti dalla franchigia della polizza dell’ospedale.
Infatti, se ricorre la colpa grave dei sanitari, come nella fattispecie, ne rispondono loro, eventualmente chiamando in garanzia la loro assicuratrice. Come è stato il caso, di fatto, di uno dei componenti dell’equipe.
Purtroppo l’obbligo assicurativo (per i medici dipendenti), disposto nel 2013 già dalla Balduzzi, non è ancora operante – come ha pronunciato il Consiglio di Stato, con parere n. 486 del 19 febbraio 2015 – finché non sarà emanato il d.p.r. previsto dalla stessa norma a regolare le condizioni minime della polizza obbligatoria.
Ma parliamo sempre di colpa grave. Come è noto, tale è la summa divisio della responsabilità nella sfera pubblica. All’Ente spetta la responsabilità verso il paziente ed il diritto/dovere di rivalsa verso il professionista sanitario dipendente, in caso di colpa grave di questo.
Ne consegue, dunque, che l’operatività della franchigia nella polizza di med-mal dell’ospedale non è l’unica criticità che rileva nella circostanza.
Alcune considerazioni sembrano allora opportune.
La Corte evidenzia in modo molto chiaro la sostanziale aleatorietà dell’esposizione del dipendente pubblico all’azione di rivalsa allorché l’Ente sanitario abbia contratto una copertura assicurativa con una franchigia c.d. “aggregata”, cioè a progressivo esaurimento fino al raggiungimento da parte dell’ente stesso di un tetto massimo di risarcimenti.
In contratti di questo tipo, infatti, fin tanto che il “tetto” non sia stato raggiunto la copertura non opera e dunque la struttura pubblica in primis dovrà provvedere al pagamento di eventuali danni a terzi con l’utilizzo di denaro pubblico senza potersi avvalere della manleva assicurativa ed il dipendente pubblico in via di eventuale successiva rivalsa potrà essere condannato – se accertata la colpa grave – al pagamento totale o parziale (in caso di esercizio del potere di riduzione da parte della Corte).
Ha dunque ragione la Corte nell’evidenziare quanto ingiusta possa apparire la situazione teorica di due dipendenti potenzialmente responsabili – in tempi differenti – di un errore di pari gravità e che abbia comportato un pari esborso da parte dell’erario allorché uno possa godere della copertura indennitaria della compagnia assicuratrice essendo stato superato il tetto massimo della franchigia (ovvero l’importo massimo di ritenzione del rischio da parte dell’assicurato) attraverso ripetuti pagamenti (o mediante un solo pagamento, ma di importo sufficientemente elevato) e l’altro no, poiché la franchigia aggregata non sia ancora stata esaurita.
In questi due casi, infatti, il primo sanitario non si troverebbe esposto a nessun rischio di pagamento (né verso il terzo per la manleva indennitaria della compagnia assicuratrice, né nei riguardi della Corte dei Conti non essendovi stato alcun pagamento da parte dell’erario ma solo dall’assicuratore), mentre il secondo – per effetto del pagamento da parte del suo datore di lavoro – non potrebbe che dover fronteggiare l’azione per danno erariale.
Due differenti esposizioni legate soltanto ad un evento – il raggiungimento del tetto massimo di pagamenti da parte dell’ente sanitario – rispetto al quale nessuno dei dipendenti ha alcun potere di influenza e, soprattutto, nessuna possibilità previsionale.
Orbene, la circostanza in sé appare profondamente ingiusta e meriterebbe riflessioni sotto il profilo della stessa effettiva facoltà da parte del datore di lavoro di discriminare – di fatto – i propri dipendenti decidendo, in modo anche potenzialmente arbitrario, circa le tempistiche di pagamenti dovuti a terzi e, conseguentemente, selezionando quelli da considerare “meritevoli” di tutela indennitaria e quelli no.
Al di là di tale profilo gius-lavoristico – che, allo stato, parrebbe inesplorato – emerge chiaramente quanto l’esistenza di franchigie di elevato importo o – oramai ovunque – quote di auto-ritenzione del rischio (vere e proprie aree di non assicurazione) rappresenti un vulnus logico nel già complesso e disarticolato sistema del risarcimento al paziente, fra colpa del professionista e colpa organizzativa/datoriale dell’Ente ospedaliero.
Vero è, infatti, che con l’aumentare degli importi in autoassicurazione, meglio in auto-ritenzione (ai più che ritengono la cosiddetta autoassicurazione un sano modello gestionale, in quanto auto-responsabilizzante per le strutture sanitarie, verrebbe da chiedere: perché mai l’auto-responsabilizzazione e la necessaria prevenzione degli errori non dovrebbe essere pretesa/garantita anche in presenza di copertura assicurativa?) aumentano in pari grado le possibilità che al medico venga chiesto il conto di quanto per suo errore pagato.
Da qui l’esigenza per il sanitario di rinvenire una propria copertura professionale che si sostituisca ai vuoti di copertura assicurativa delle Asl e provveda ad evitare il pagamento dell’Ente e dunque il danno erariale, oppure di poter usufruire di una polizza che lo tenga indenne dalla futura rivalsa, quale che sarà il destino della stessa dopo l’attesa riforma Gelli/Bianco.
Permangono, tuttavia, inesplorate praterie all’interno delle quali sollevare sempre maggiori perplessità sulla già citata summa divisio fra colpa semplice (ma esiste davvero?) e colpa grave (ma non dovrebbe il giudizio della Corte dei Conti non essere influenzato da quello del Giudice civile?) stante (i) la responsabilità per fatto altrui dell’Ente ospedaliero ex artt. 2049 e 1228 c.c., (ii) la non sovrapponibilità fra colpa grave in sede erariale e civile (anche se nel caso il Magistrato ha aderito alle valutazioni civilistiche effettuate dal Giudice penale) per le ovvie differenti modalità di accertamento della stessa sotto il profilo degli oneri probatori, (iii) la sistematica violazione di fatto dell’obbligo del datore di lavoro di garantire coperture indennitarie per il proprio personale.
Ma ciò che più preoccupa, invece, è una sorta di pan penalismo nella visione della colpa che risulta del tutto estraneo a ciò che da molti anni avviene nelle Corti civili in casi di risarcimento, e dunque in occasione di effettivo danno erariale: l’incapacità cioè di taluni Magistrati contabili – non certamente quello autore della sentenza in commento – di comprendere le dinamiche processuali relative agli oneri probatori civilistici (dopo la pronuncia delle Sezioni Unite n. 577/2008) e le conseguenti colpe gravi erariali dei sanitari non tanto consistenti nell’effettiva colpa medica3 quanto nel non avere reso possibile, con le proprie negligenze/reticenze una adeguata e convincente prova da parte del proprio datore di lavoro dell’adeguatezza del proprio adempimento, così da sottrarsi alle forche caudine della rigorosa disciplina dell’art.1218 c.c..
E quali sono gli oneri probatori ai quali le parti devono sottostare in sede di giudizio per danno erariale? Quelli propri di tale giudizio (il PM ha chiari oneri probatori a proprio carico, come ricordato da ultimo nella sentenza n. 49 del 7 aprile 2016 dellaCorte dei Conti – Emilia-Romagna sulla malpractice medica) o quelli del giudice penale, che in sede risarcitoria utilizza arbitrariamente il civilistico “più probabile che non”?
E’ su tali, gravi incongruenze processuali e sulle reticenze gestionali del personale sanitario che pregiudicano l’efficace difesa processuale dell’Ente ospedaliero, talvolta incentivate da una malintesa e “coprente” interpretazione di un certo hospital risk management tutto proteso a garantire paci aziendali solo di facciata, che dovrebbe posarsi lo sguardo severo del magistrato contabile. Dimenticandosi delle vestigie penalistiche, che forse gli sono più familiari, ma che dalla sentenza Franzese del 2002 poco hanno a che fare con la responsabilità sanitaria e con le ragioni sottese ad un così elevato dispendio di denaro pubblico, impiegato per risarcire, invece che per curare.