L’inserimento lavorativo delle persone con disabilità – Diritto 24

Pubblichiamo di seguito il contributo a firma della Managing Partner Giulietta Bergamaschi e dell’avvocato Chiara D’Angelo per Diritto24, sul tema dell’occupazione dei soggetti disabili e del loro inserimento nella compagine aziendale in senso ampio: ovvero dalla fase di assunzione a quella di esecuzione delle mansioni.
L’inserimento lavorativo delle persone con disabilità rappresenta senz’altro uno dei principali temi su cui intervengono le attuali politiche occupazionali, sia normative che imprenditoriali.
 Al fine di tracciare i confini del tema in esame, sembra opportuno intendere il termine “inserimento” in senso ampio: riferendolo, cioè, non soltanto all’ingresso del soggetto debole nella realtà produttiva, ma anche al suo effettivo mantenimento alle mansioni durante l’esecuzione del rapporto di lavoro.
La locuzione impiegata, quindi, può abbracciare sia il momento dell’assunzione del lavoratore disabile, sia il percorso successivamente svolto ai fini della piena ed effettiva integrazione della persona nella realtà aziendale.
Quest’ultimo obiettivo, seppur concretamente perseguibile con diverse modalità (tra cui, come si dirà in seguito, la contrattazione integrativa di secondo livello, le policy aziendali e le buone prassi), è unanimemente condiviso dalle fonti sovranazionali vigenti in materia.
In tale ottica, infatti, vanno intese le disposizioni contenute nella Carta di Nizza, nella Direttiva UE 2000/78 e nella Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle Persone con Disabilità, tutte concordi nell’intendere il tema dell’inclusione dei disabili sotto la lente della tutela dei diritti umani.
In particolare, la considerazione dei soggetti svantaggiati quali titolari di interessi meritevoli di tutela ordinamentale comporta, anzitutto, la necessità di quei comportamenti diretti, se non proprio a rimuovere, quanto meno a contenere gli effetti che conseguono allo stato di disabilità, sia in un’ottica di non discriminazione, sia nei termini di vera e propria inclusione.
Tali ultime istanze trovano riscontro, sul piano del diritto interno, sia nella Carta Costituzionale (v. artt. 1, 3, 4, 32, 38), sia in numerose leggi ordinarie, tra cui, in primo luogo, lo Statuto dei Lavoratori (v. art. 15) e l’intera Legge 68/99.
Da ultimo, inoltre, con il D.P.R. del 12 ottobre 2017 è stato adottato il secondo programma di azione biennale per la promozione dei diritti e l’integrazione delle persone con disabilità, ai sensi della legge 18/2009 di ratifica della Convenzione ONU precedentemente citata.
Ciò posto, sembra inoltre pertinente intendere l’inserimento lavorativo dei soggetti disabili alla luce della responsabilità sociale di impresa, tema che costituisce uno dei pilastri della Strategia 2020 elaborata dall’Unione Europea in materia di occupazione, innovazione, istruzione, integrazione sociale e clima/energia.
Secondo la definizione generalmente accolta, infatti, un’impresa è socialmente responsabile in quanto “sostenibile” in ottica sia ambientale che sociale: ne deriva che il rispetto della persona (oltre che del territorio) diventa, pertanto, principale indice dell’attuazione dei princìpi di “etica produttiva”.
Nella stessa direzione, inoltre, va anche letta la L. 208/2015 (v. art. 1, commi 376 -384) sulle c.d. “società benefit”, la cui attività coincide, per espressa previsione normativa, con il conseguimento di un beneficio comune, consistente nel perseguimento di effetti positivi (ovvero di riduzione di effetti negativi) nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali, enti e associazioni.
Come anticipato, le aziende possono raggiungere gli obiettivi della effettiva inclusione lavorativa e del mantenimento al lavoro delle persone con disabilità attraverso percorsi differenti.
In tale prospettiva non può prescindersi dai contratti collettivi nazionali di lavoro applicati da un’azienda al proprio personale dipendente: accordi, questi ultimi, dai contenuti senz’altro variegati, poiché alcuni disciplinano il tema in esame in modo organico, mentre altri, invece, si limitano a trattarlo dedicandovi singole disposizioni.
Muovendo dai contratti collettivi nazionali, le singole imprese disciplinano la materia dell’inclusione dei lavoratori disabili attraverso una delle seguenti modalità: ricorrendo alla contrattazione integrativa di secondo livello, scrivendo policy unilaterali poi divulgate ai lavoratori, ovvero adottando buone prassi senza tuttavia recepirle in un documento scritto.
La prima tecnica, propria delle aziende più grandi e con consolidate relazioni industriali pregresse, si traduce in un approccio mirato ad una disciplina organica di valenza generale, non finalizzata a fronteggiare esigenze “puntuali” emerse in via d’emergenza.
Tale tendenza regolativa consente di adottare un approccio più condiviso al tema, con contestuale creazione, durante la fase di negoziazione, di una cultura aziendale più inclusiva ed incline ad attuare le misure contrattuali.
La policy, invece, viene generalmente adottata all’interno di aziende di medie dimensioni, prive di una solida tradizione di relazioni sindacali, che preferiscono risolvere “in proprio” questioni per cui non vige l’obbligo di contrattare con le altre parti sociali. Muovendo da quest’ultima strategia, poi, l’azienda tende a sensibilizzare il personale alla nuova cultura aziendale attraversattraverso specifici corsi di formazione.
In ultimo luogo, nelle aziende più piccole o dotate di una struttura organizzativa meno articolata, dove l’approccio è fortemente orientato all’ascolto dei bisogni del personale, la difficoltà sta nell’intercettare tali istanze prima che i dipendenti le manifestino.
In tale evenienza, idea ricorrente è quella di predisporre, volta per volta, buone prassi dirette a risolvere una difficoltà singola, e dunque non recepite in un documento scritto.
La disciplina attraverso best practices, se per un verso permette di affrontare i temi trattati con strategie più efficaci perché formulate ad hoc, sotto altro profilo non consente di attuare un’azione regolatrice uniforme ed omogenea, così esponendo l’impresa al rischio di promuovere misure difficilmente riconducibili a logiche equitative.

Come misurare l’efficacia del jobs act.

In questi giorni si incrociano sui giornali i pareri di politici ed economisti a commento ai dati sull’occupazione forniti dall’Istat. Da una parte sostenitori del Jobs Act e dall’altra denigratori tirano i dati dalla loro parte per dimostrare l’inconsistenza dell’azione governativa o la sua efficacia.
E’ molto difficile districarsi nei dati forniti dall’Istat, sottrarre i lavoratori con voucher ai lavoratori a tempo determinato e sommarli a quelli a tempo indeterminato, in un balletto di numeri dove si può sostenere tutto ed il contrario di tutto, peraltro sulla base di numeri spesso inaffidabili.
Il problema è poi che con il termine Jobs Act si intendono una serie di provvedimenti legislativi ivi compreso l’incentivo fiscale (sostanziale detassazione triennale della contribuzione previdenziale per gli assunti nel corso dello scorso anno) che non hanno niente a che vedere con la riforma del mercato del lavoro ed in particolare con le norme di semplificazione del recesso.
Diventa quindi difficile focalizzare l’attenzione su quello che era il cuore del provvedimento: l’abolizione dell’art 18 dello Statuto dei lavoratori, che con la sua rigidità in uscita, impediva dall’altra parte un fluido accesso al lavoro, e capire che effetti la riforma abbia davvero prodotto. Credo perciò che più che guardare al numero degli occupati si dovrebbe attendere ancor un po’ per poter disporre dei dati aggiornati su un altro indicatore.
E’ stato a lungo sostenuto che del nanismo delle imprese italiane era responsabile proprio l’art 18 dello Statuto dei Lavoratori, perché gli imprenditori sarebbero stati terrorizzati dal superare la fatidica soglia dei 15 dipendenti. L’abrogazione della reintegra avrebbe così permesso lo sviluppo delle loro aziende eliminando uno dei problemi del nostro settore produttivo.
Ed è proprio a tale dato che occorrerebbe guardare per sapere se la riforma dello Statuto e l’abrogazione della reintegra abbiano effettivamente rappresentato per anni un freno alla occupazione e all’ingresso nel mondo del lavoro. La polemica sui numeri e sulla tipologia dei contratti difficilmente potrà fornire dei risultati univoci.
La prima impressione, che dovrà essere però sottoposta a verificare, è che la sperata crescita delle piccole imprese non ci sia stata, anzi. Ma d’altra parte è difficile pensare che, in una pesante fase recessiva, l’idea che un lavoratore potrà essere licenziato più facilmente possa spingere un imprenditore ad assumere. E’ la salute dell’economia che spinge l’occupazione, più che le leggi, pur utili e più confacenti all’interesse delle imprese, sul recesso o sui controlli a distanza dei lavoratori.