Come misurare l’efficacia del jobs act.

In questi giorni si incrociano sui giornali i pareri di politici ed economisti a commento ai dati sull’occupazione forniti dall’Istat. Da una parte sostenitori del Jobs Act e dall’altra denigratori tirano i dati dalla loro parte per dimostrare l’inconsistenza dell’azione governativa o la sua efficacia.
E’ molto difficile districarsi nei dati forniti dall’Istat, sottrarre i lavoratori con voucher ai lavoratori a tempo determinato e sommarli a quelli a tempo indeterminato, in un balletto di numeri dove si può sostenere tutto ed il contrario di tutto, peraltro sulla base di numeri spesso inaffidabili.
Il problema è poi che con il termine Jobs Act si intendono una serie di provvedimenti legislativi ivi compreso l’incentivo fiscale (sostanziale detassazione triennale della contribuzione previdenziale per gli assunti nel corso dello scorso anno) che non hanno niente a che vedere con la riforma del mercato del lavoro ed in particolare con le norme di semplificazione del recesso.
Diventa quindi difficile focalizzare l’attenzione su quello che era il cuore del provvedimento: l’abolizione dell’art 18 dello Statuto dei lavoratori, che con la sua rigidità in uscita, impediva dall’altra parte un fluido accesso al lavoro, e capire che effetti la riforma abbia davvero prodotto. Credo perciò che più che guardare al numero degli occupati si dovrebbe attendere ancor un po’ per poter disporre dei dati aggiornati su un altro indicatore.
E’ stato a lungo sostenuto che del nanismo delle imprese italiane era responsabile proprio l’art 18 dello Statuto dei Lavoratori, perché gli imprenditori sarebbero stati terrorizzati dal superare la fatidica soglia dei 15 dipendenti. L’abrogazione della reintegra avrebbe così permesso lo sviluppo delle loro aziende eliminando uno dei problemi del nostro settore produttivo.
Ed è proprio a tale dato che occorrerebbe guardare per sapere se la riforma dello Statuto e l’abrogazione della reintegra abbiano effettivamente rappresentato per anni un freno alla occupazione e all’ingresso nel mondo del lavoro. La polemica sui numeri e sulla tipologia dei contratti difficilmente potrà fornire dei risultati univoci.
La prima impressione, che dovrà essere però sottoposta a verificare, è che la sperata crescita delle piccole imprese non ci sia stata, anzi. Ma d’altra parte è difficile pensare che, in una pesante fase recessiva, l’idea che un lavoratore potrà essere licenziato più facilmente possa spingere un imprenditore ad assumere. E’ la salute dell’economia che spinge l’occupazione, più che le leggi, pur utili e più confacenti all’interesse delle imprese, sul recesso o sui controlli a distanza dei lavoratori.