Il lavoro all’estero e dall’estero, dal punto di vista del diritto del lavoro.

Alcuni spunti di riflessione emersi alla conferenza “Making It e-Easy” tenutasi a Tallinn
Il nostro studio legale ha avuto il piacere e l’onore di partecipare all’interessante conferenza dal titolo “Making IT e-Easy” che si è tenuta nei giorni scorsi a Tallinn, nel corso del semestre di presidenza europea. Alla conferenza erano presenti aziende ed istituzioni di tutto il mondo ed il messaggio che si è voluto trasmettere era il seguente: la crescente digitalizzazione non deve essere fonte di preoccupazione, ma deve essere guardata come un’opportunità di crescita e miglioramento.
Tale fenomeno, non deve investire solo le aziende, ma il sistema Paese in generale. Nel discorso di apertura, il Presidente della Repubblica Estone ha auspicato l’avvento di un’Unione Europea sempre più forte e coesa nelle politiche sociali così come negli strumenti utilizzati. Non ha mancato, poi, di evidenziare gli importanti risultati fino ad ora raggiunti dall’EU nell’ambito della previdenza ed assistenza sociale.
La libera circolazione delle merci e delle persone, facilitata dalle normative europee che consentono ai cittadini di continuare a versare i contributi previdenziali nel paese di origine e di ricevere trattamenti sanitari nel paese di destinazione alle stesse condizioni dei locali, non è un concetto così scontato in altri posti nel mondo. Non è assolutamente così, ad esempio, negli Stati Uniti d’America.
Quando ci si trasferisce a vivere in un paese diverso da quello di origine, i primi aspetti ad emergere sono la previdenza contributiva, l’assistenza sanitaria, nonché il regime fiscale dei redditi prodotti e la legislazione applicabile al proprio contratto di lavoro. Se il trasferimento avviene all’interno dell’Unione Europea da parte di un cittadino UE, vi sono una serie di facilitazioni, anche se il percorso da seguire è costellato da una serie di atti burocratici. Infatti, il lavoratore subordinato che si muova all’interno di un distacco transazionale (o che svolga contemporaneamente più attività in Stati diversi), così come il lavoratore autonomo, dovranno presentare il modello A1 alla sede INPS di appartenenza (qualora la domanda riguardi un lavoratore subordinato essa deve necessariamente essere presentata dal datore di lavoro o da un suo delegato alla gestione delle posizioni contributive). Tale documento serve a dimostrare che il cittadino versa i contributi previdenziali in un paese UE e che pertanto, non è tenuto a versarli anche in quello di destinazione (al fine di evitare la doppia contribuzione).
Per l’assistenza sanitaria, il cittadino dovrà richiedere al Servizio Sanitario presso il quale è iscritto il certificato S1 che dovrà poi essere consegnato al servizio sanitario del paese in cui ci si reca (a prescindere da tale certificato, se il soggiorno all’estero supera i 30 giorni, il cittadino è tenuto a comunicarlo alla ASL di appartenenza per la sospensione del medico di famiglia). Tale modulo consente al lavoratore distaccato (o autonomo che svolge lavoro all’estero o che lavora contemporaneamente in più stati) ed ai suoi familiari a carico di usufruire dell’assistenza sanitaria nel paese di destinazione. Se il trasferimento avviene in paese extra UE oppure se esso riguarda un cittadino extra comunitario, per conoscere la disciplina applicabile, bisognerà andare a cercare la convenzione bilaterale di sicurezza sociale stipulate dall’Italia con lo specifico paese extracomunitario. Alcune convenzioni prevedono il distacco anche di lavoratori autonomi.
Per tutta la durata del distacco il lavoratore resta assicurato, limitatamente alle forme di tutela previdenziale contemplate dalle singole convenzioni, nel paese in cui ha sede l’azienda che lo ha distaccato o in quello di abituale esercizio dell’attività nel caso di lavoratore autonomo. Ogni convenzione bilaterale prevede un periodo massimo di distacco, la cui durata varia a seconda della convenzione. Per i lavoratori inviati dal proprio datore a lavorare in un paese extracomunitario non legato all’Italia da accordi o convenzioni di sicurezza sociale, non è previsto il rilascio di alcuna certificazione di copertura assicurativa. In questi casi il lavoratore deve essere assicurato in Italia in base alla legge 3 ottobre 1987, n. 398.
Altro aspetto da tenere presente è la tassazione dei redditi, al fine di evitare la doppia imposizione fiscale. Sono considerati residenti all’estero ai fini fiscali, i cittadini che non sono stati iscritti nell’anagrafe dei residenti in Italia per oltre metà anno (ovvero 183 giorni o 184 nel caso di mesi bisestili). Una volta stabilita la residenza fiscale, e appurato che l’intero o una parte del reddito è prodotto all’estero, sarà necessario capire se vi sono o meno convenzioni contro le c.d. “doppie imposizioni”. Per i redditi da lavoro dipendente prodotti (i) in un Paese Extra-Ue con il quale non esiste alcun tipo di convenzione contro le doppie imposizioni, o (ii) in un Paese con il quale esiste una convenzione secondo cui tali redditi devono essere assoggettati a tassazione sia in Italia che all’estero, il contribuente avrà diritto ad un credito per le imposte pagate nel Paese estero a titolo definitivo.
Nel caso in cui, invece, esista una convenzione contro le doppie imposizioni in base alla quale tali redditi devono essere assoggettati a tassazione esclusivamente in Italia, il lavoratore dipendente avrà diritto ad ottenere il rimborso per le imposte eventualmente pagate nello Stato estero, inoltrando richiesta all’autorità estera competente.
In conclusione, è evidente che lavorare all’estero o dall’estero comporta la necessità di confrontarsi con diverse pratiche burocratiche che (quanto meno per i lavoratori subordinati) ricadono sulle aziende. E’ pertanto auspicabile l’avvento di un sistema che, attraverso banche dati ed istituti comuni, faciliti sempre di più la mobilità dei lavoratori.
 

IL PATTO DI NON CONCORRENZA: IL FATTORE ECONOMICO.

Naturalmente l’aspetto economico, ovvero il costo, è uno degli elementi più “sensibili” nella costruzione di un patto di non concorrenza.
Anche in questo caso, come abbiamo già visto in precedenza, prima di addentarsi nei dettagli tecnici è preferibile fissare alcuni principi di carattere generale che diventano fondamentali per non incorrere poi in grossolani errori.
Premesso che non esistono regole certe o semplici algoritmi da applicare per fissare il corrispettivo, va sottolineato che per essere efficace il patto deve rappresentare un effettivo deterrente, deterrente che si costruisce non solo con la penale, ma anche con il “lucro cessante” e cioè la perdita conseguente alla mancata erogazione del corrispettivo per effetto della violazione del patto, a cui peraltro è legato anche l’ammontare della penale.
Quindi non si può essere micragnosi nel fissare il corrispettivo, perché cosi facendo si rende poco efficace la clausola.
Quanto al momento del pagamento questo può avvenire sia durante che dopo la cessazione del rapporto. Entrambe le soluzioni sono valide, ma hanno un effetto psicologico diverso, con il secondo che acquista un valore deterrente maggiore, anche se in realtà gli effetti sono uguali in quanto se il dipendente viola il patto, deve poi restituire quanto percepito in corso di rapporto. E’ però Importante ricordarsi che in caso di pagamento durante il rapporto si rischia di pagare troppo (se il rapporto è molto lungo) o troppo poco, se, viceversa, il rapporto cessa immediatamente, tanto che è preferibile aggiungere, per tutelarsi in questo ultimo caso, una clausola che garantisca un importo minimo.
Quanto agli aspetti fiscali connessi al momento del pagamento le regole sono le seguenti: se il corrispettivo è erogato durante rapporto di lavoro è soggetto a tassazione ordinaria e a contribuzione, mentre se è erogato dopo la cessazione del rapporto, ma era stato previsto da accordi stipulati prima della stessa, come di solito avviene, si paga sempre la contribuzione. ma la somma è soggetta a tassazione separata. E ciò sia che il pagamento avvenga ratealmente o in una soluzione contestualmente al recesso. Diverso il caso in cui l’accordo è raggiunto dopo la cessazione del rapporto, e quindi anche il compenso è erogato successivamente. In questo caso infatti si procederà con la tassazione separata, ma senza che sia soggetto a contribuzione. Come si vede quindi le due soluzioni più comuni non comportano differenze sostanziali né per l’azienda né per il dipendente sotto un profilo fiscale e contributivo.
Vale la pena ricordare infine che se si prevede un pagamento alla fine del rapporto è bene commisurarlo in misura percentuale alla ultima retribuzione e non in cifra fissa per evitare che nel corso del tempo si svaluti in moda tale da renderlo inefficace e che nella retribuzione di riferimento si deve tenere conto anche delle provvigioni o di eventuali bonus aventi carattere obbligatorio e continuativo.

Il patto di non concorrenza: ulteriori riflessioni.

Il patto di non concorrenza soggiace a precise regole di validità. Il patto infatti deve essere limitato per durata ed area di operatività e deve essere remunerato.
La legge però non fissa dei criteri precisi (fatto salvo per la durata che non puo superare i 3 anni ) e la definizione dei limiti di azione è lasciata alle parti.
Per poter operare correttamente è quindi necessario capire la logica sottostante alla norma: non si può imporre ad un lavoratore di restare totalmente inoperoso ed impedirgli di lavorare, anche se questo sacrificio è concordato e pagato in modo adeguato, neppure se il corrispettivo fosse, per assurdo, superiore all`ultimo stipendio. E la ragione è che non è nell´interesse della collettività togliere dal mercato la professionalità e le capacità di un lavoratore per garantire gli interessi di una singola impresa. La libera circolazione delle forze produttive e delle “menti” non può essere sacrificata all’interesse del singolo.
Una volta comprese le ragioni del legislatore e  ciò che sta dietro la norma, diventa più semplice andare a definire quelli che sono i limiti del patto e come possa essere costruito in modo tale da essere conforme alla legislazione vigente ( che peraltro è più o meno simile in tutte le nazioni europee). I fattori da prendere in considerazione sono quindi molti, ma è fondamentale partire dal principio di proporzionalità e di interrelazione fra tutti gli elementi del patto. Un esempio può essere utile a chiarire il concetto:  tanto maggiore l`area tanto minore il periodo, più lungo il periodo di operatività del divieto, tanto maggiore il corrispettivo.
Ma vediamo quali sono gli elementi da prendere in considerazione. In primis l`area di attività dell`azienda, il che significa la sua ampiezza, la sua specificità, il numero di concorrenti. Poi il mercato, ovvero dove e a chi sono destinati i prodotti, quindi, e questo è qualcosa che spesso si tende a dimenticare, deve essere tenuta in debita considerazione la personalità del lavoratore, intendendosi per tale il suo background culturale, la sua professionalità attuale e pregressa, le mansioni svolte. Parlare di un ricercatore nel campo delle biotecnologie non è la stessa cosa che prevedere un patto per un direttore delle risorse umane. Quest`ultimo infatti può infatti trovare facilmente occupazione, fatta salva qualche speciale eccezione, in un azienda di qualsivoglia settore, mentre il tecnico specialista avrà a propria disposizione una limitata offerta, non potendosi certo riciclare nel settore metalmeccanico o nell`information technology. Ma ovviamente contano anche fattori quali la conoscenza delle lingue o precedenti esperienze internazionali per delimitare  l`area o il settore merceologico.
Infine non si deve dimenticare che il legislatore vuole che il patto sia remunerato per compensare il sacrificio imposto al lavoratore e che tale remunerzione, come detto, sia ragionevole e proporzionata. Questo comporta che non siano possibili scorciatoie, non si potrà quindi avere un compenso simbolico  o pensare di introdurre clausole “scappatoia”, quali quelle che consentono ad una delle parti di liberarsi dell`impegno a propria discrezione, magari quando il risultato è già stato raggiunto, per esempio perché  le informazioni che si pensava di dover proteggere non sono più di interesse, o perché il lavoratore ha comunicato di andare a lavorare in un’azienda non in concorrenza.
In ogni caso, avendo come stella polare la ratio legis, non è impossibile realizzare un patto di concorrenza valido e, sopratutto efficace, in particolare se si tengono a mente le seguenti regole di fondo:

  1. Un patto di non concorrenza non può essere costruito in modo tale da impedire al dependente di trovare una nuova occupazione
  2. Deve esistere un equilibrio tra area, durata  e remunerazione, I tre fattori devono essere tra loro proporzionalmente incrociati e modificati
  3. Oltre all’azienda bisogna prendere in considerazione il lavoratore, la sua professionalità attuale e pregressa.
  4. Non esistono scorciatoie nella costruzione del patto e un equo compenso deve essere sempre pagato, non essendo possibile ottenere risultati a costo zero.