Lexellent, ancora per le Pari Opportunità.

Codice delle Pari OpportunitàLe norme commentate con dottrina e giurisprudenza. Aggiornato con i Decreti del 17 gennaio 2017 nn. 5.6 e 7 di attuazione della Legge sulle unioni civili.Codice pari opportunità
L’opera è curata da ASLA Women ed è firmata da 19 avvocatesse tra le quali Giulietta Bergamaschi, responsabile del primo dipartimento dedicato alla Gestione delle Diversità all’interno di una boutique giuslavorista, e le colleghe Hulla Bisonni e Alessandra Rovescalli.
L’opera, usando un linguaggio scientifico, si rivolge sia a colleghi avvocati ed esperti del settore risorse umane sia ad un pubblico più eterogeneo interessato al tema.
Ecco la descrizione di ASLAWomen stessa: “il commento che accompagna, unitamente alla giurisprudenza rilevante, ciascuno dei testi normativi consente di ripercorrere la storia della norma e la sua ratio, comprendere lo stato attuale della sua applicazione e cogliere le eventuali problematiche e contraddittorietà”.

Da sottolineare che tutte le autrici hanno scelto di cedere i propri diritti all’associazione affinché vengano investiti in nuovi progetti dedicati al rispetto e alla valorizzazione delle differenze.

Perchè conviene la Diversity nel mercato del lavoro?

2017_8-marzo_LexellentSpesso, quando si parla dei valori dell’inclusione e della diversity in azienda gli interlocutori sembrano pensare che sia solo un argomento “buonista”, che riguarda solo un’eventuale sfera etica del lavoro e non aspetti molto precisi che toccano la produttività e i ricavi di un’azienda. Ma nelle stesse aziende ci capita sempre più spesso, per esempio, di sentire direttori del personale e amministratori delegati che affermano di aver urgente bisogno di «assumere persone qualificate con caratteristiche specifiche che, semplicemente, sul mercato non ci sono». Frasi del genere vengono ripetute talmente tante volte che probabilmente si tratta di un problema urgente e tutt’altro che secondario. Eppure manca la coscienza che una risposta possibile a quest’esigenza può venire proprio da un diverso approccio al problema della diversity.
Il mercato del lavoro sembra vedere masse crescenti di lavoratori non qualificati che vorrebbero entrare nel mondo del lavoro e pochi “eletti” iperqualificati corteggiatissimi che magari riescono anche a spuntare retribuzioni superiori al mercato: troppo pochi per le esigenze delle aziende e nella stragrande maggioranza maschi. E se donne, donne che hanno dovuto venire a patti con numerosi sacrifici, imponendosi un rigore che agli uomini non è richiesto.
Un punto di vista solo parziale? I numeri dimostrano il contrario. Uno studio recente della KPMG  sostiene che nei paesi industrializzati ci sarebbero almeno 100 milioni di donne qualificate, cioè perfettamente in grado di ricoprire posizioni di responsabilità e tecnicamente complesse, che hanno lasciato il loro impiego per dedicarsi alla famiglia. Una scelta irreversibile? Fino a qualche anno fa, sì: o manager o mamma. O la carriera o la famiglia. Oggi le aziende più avvedute, le multinazionali, fanno da apripista perché hanno una visione globale che le aiuta nella capacità di interrogarsi sul futuro, hanno cominciato ad accorgersi di questa “miniera” di competenze e capacità inutilizzate e a puntare ad assunzioni mirate proprio in quest’area. Di qualche giorno fa la notizia di una multinazionale inglese delle telecomunicazioni che punta ad assumere in tre anni mille donne (non solo ex dipendenti) che sono state a casa dopo la maternità fino a dieci anni.
È solo un esempio possibile di un utilizzo inclusivo della diversity che offre alle aziende la possibilità di trovare le risorse che mancano o risorse migliori, più qualificate, più motivate.  Anche le PMI, se vogliono rimanere competitive in un mercato globale sempre più difficile, non possono permettersi di ignorare una “miniera” del genere, ricordando anche qualche altro dato riportato da Istat ed Eurostat nella monumentale ricerca del 2013 sul lavoro femminile in Italia realizzata dall’UE e da Italia Lavoro: nel nostro paese le donne occupate sono meno della metà del totale (il 46,1%) e meno di un terzo (il 30,8%) al sud. Il tasso di laureate occupate (70,1%) è di nuovo il più basso d’Europa, anche se è dimostrato che le laureate italiane sono in media molto più in gamba dei maschi, tant’è che a Berlino e Londra (due delle destinazioni privilegiate per la fuga dei cervelli) lavorano più italiane laureate che italiani, mentre in Italia le donne dirigenti sono meno del 13% del totale. Nel 2010, in Italia, la media delle donne che lasciava il lavoro dopo una maternità era ancora al 25%, nel 2015, secondo l’Ocse, siamo ancora intorno al 22%. In Italia la platea per effettuare la “ricongiunzione” delle madri con il posto di lavoro non è di pochi casi sparuti. Stiamo parlando di un universo di oltre un milione e mezzo donne, fra cui anche laureate in materie tecniche, alcune con esperienze di lavoro molto significative.
Noi di Lexellent stiamo ragionando su questi fattori, perché siamo convinti che è anche da qui che nasceranno le migliori opportunità per le aziende che avranno successo nei prossimi anni. E che l’inclusione sia una delle chiavi di lettura per un mondo del lavoro di oggi e di domani.

Le nascite al minimo storico, il lavoro è colpevole?

Secondo gli ultimi dati ISTAT, apparsi sui principali quotidiani di oggi, in Italia, nel 2016, è stato toccato il minimo storico di nascite. 474mila neonati, rispetto ai 486mila nel 2015, con un calo del 2,4% a livello nazionale.
Ma le aziende sono parte in causa di questo trend? Secondo una ricerca che Lexellent ha commissionato a IPSOS, la risposta è sicuramente affermativa. Gli italiani fanno pochi figli perché le politiche di sostegno al lavoro sono ancora scarse nelle PMI.
Ma quali siano le richieste dei lavoratori e quali gli strumenti di welfare che le aziende possono mettere a disposizione per una buona conciliazione del rapporto vita – lavoro è rivelato dalla ricerca dello studio dal titolo «Lavoro e genitorialità: indagini, proposte e prospettive per un’azienda inclusiva»
 

Posted in UncategorizedTagged

Italiani senza figli perché il lavoro non lo permette Politiche di sostegno alla genitorialità ancora assenti nelle PMI.

Lo rivela una ricerca IPSOS per Lexellent che è stata presentata oggi a Milano.
Quanto incide la situazione lavorativa sulla scelta degli italiani di fare figli o meno? Che cosa dovrebbero fare le aziende per aiutare la creazione e la gestione delle famiglie dei lavoratori? E di quali strumenti, messi a disposizione delle aziende dal nuovo welfare aziendale, i lavoratori preferirebbero disporre per poter conciliare meglio le esigenze di vita e di lavoro in presenza di figli?
Questi sono alcuni dei temi al centro della ricerca promossa da Lexellent, studio legale di diritto del lavoro, e condotta da IPSOS su un campione di mille persone, fra lavoratori e lavoratrici italiane delle piccole e medie imprese, i cui risultati sono stati presentati oggi nel corso del convegno «Lavoro e genitorialità: indagini, proposte e prospettive per un’azienda inclusiva» che si è tenuto a Milano a Palazzo delle Stelline.
Fra i risultati salienti dell’indagine Simone Andrea Telloni di IPSOS ha spiegato che la motivazione lavorativa è una delle ragioni principali per cui gli italiani e le italiane non fanno figli, o almeno così dichiarano ben il 63% degli interpellati senza figli. Ma se l’azienda per cui lavorano avesse messo in atto politiche di conciliazione vita-lavoro valide, i figli li avrebbero fatti? IL 76% ha risposto di sì. Fra quanti i figli ne hanno fatti, invece, il 66% ha risposto che ne avrebbero voluti di più se le condizioni lavorative ed economiche lo avessero permesso. Per quasi un terzo dei rispondenti (sia con figli che senza) il fatto di diventare genitori viene ancora interpretato come un ostacolo alla carriera.
Secondo Telloni le PMI italiane cominciano a offrire servizi per conciliare lavoro e genitorialità come previsto dal Jobs Act, ma la fruizione di queste opportunità, per altro non ancora pienamente sviluppate dalle aziende, è ancora molto bassa da parte dei lavoratori. Ben il 47% dei rispondenti senza figli, per esempio, sostiene di non essere stata informata correttamente sui diritti e le opportunità per i lavoratori genitori. Quasi il 90% dei lavoratori interpellati auspica una maggiore trasparenza nelle comunicazioni fra il dipendente in maternità o paternità e l’azienda stessa.     
Ma cosa vorrebbero i lavoratori per poter vivere meglio la genitorialità sul posto di lavoro? Il 54% dei genitori chiede la possibilità di utilizzare forme di telelavoro. Il 62% vorrebbe buoni acquisto per i libri scolastici e un aiuto per le rette scolastiche.
Fra i non genitori il 55% vorrebbe un aiuto per il carrello della spesa. Sia genitori che non genitori chiederebbero al 52% una maggiore flessibilità degli orari.
«Ci sono due fattori molto importanti che emergono da questi numeri», sostiene Giulietta Bergamaschi, avvocato del lavoro, partner di Lexellent e promotrice del convegno, il quarto organizzato dallo studio sul tema delle pari opportunità, «il primo è che, anche se tutti pensiamo di sapere che quello del lavoro è un tema importante rispetto alla decisione se fare figli o meno, nessuno si è soffermato a indagare quanto effettivamente sia cruciale. Si parla della denatalità dell’Italia come di un fattore ineluttabile o culturale, non si capisce che è anche e soprattutto un dato socioeconomico. Dalla ricerca che abbiamo commissionato a IPSOS risulta che più della metà dei rispondenti, sia genitori sia non genitori sostengono che le politiche aziendali di conciliazione favoriscono un’efficace gestione della genitorialità e rappresenterebbero un incentivo reale ad avere figli. È un dato che dovrebbe far riflettere».
«Il secondo fattore cruciale», prosegue Bergamaschi, «è che le grandi multinazionali hanno capito da tempo che una politica di inclusione che faciliti la conciliazione fra vita e lavoro dei dipendenti è l’unico sistema per attirare e trattenere i migliori talenti e per avere in azienda un clima positivo che favorisca un aumento di produttività e riescono a metterla in pratica. Le PMI italiane, invece, pur avendolo capito, faticano a mettere in campo le politiche di inclusione, tranne in alcuni esempi virtuosi. Una legge avanzata come quella sul welfare aziendale consentirebbe infatti a tutte le società con dipendenti di migliorare le relazioni interne con sforzi relativamente contenuti. Ma per adesso non sta succedendo. Sono convinta che le aziende che per prime capiranno le opportunità della legge e sapranno interpretarle in maniera corretta avranno nei prossimi anni un considerevole aumento di risultati rispetto a quelle che non sapranno andare in questa direzione».
La ricerca completa è disponibile sul sito http://www.lexellent.it/category/pari-opportunita/