Work-life balance: a che punto siamo?

Un’interessante intervista all’avv. Marco Giangrande in tema di pari opportunità e di come conciliare la vita privata con quella professionale. In Italia il panorama normativo è efficace e chiaro, con leggi, norme e tipologie contrattuali che garantiscono una buona conciliazione vita-lavoro, d’altro canto esiste un blocco culturale che impedisce questo sviluppo soprattutto nelle PMI.
Per seguire l’intervista per esteso, ecco il link.

Lavoro agile: Circolare INAIL n. 48/2017.

L’avv. Giulietta Bergamaschi riprende i punti più interessanti della Circolare INAIL 48/2017 che riporta le istruzioni operative relative alla nuova modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato, introdotta dalla legge n. 81 dello scorso 22 maggio.
Il lavoro agile a seguito delle istruzioni operative contenute nella Circolare INAIL n. 48/2017
Con la presente nota segnaliamo i passaggi più interessanti della recente circolare INAIL in materia di lavoro agile.
La disciplina introdotta dal capo II della legge 22 maggio 2017, n. 81 individua nel lavoro agile una modalità flessibile di lavoro subordinato rispetto all’orario e al luogo della prestazione lavorativa che, per la parte resa fuori dai locali aziendali, è eseguita senza una postazione fissa, il che comporta l’estensione dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali.
Lo svolgimento della prestazione di lavoro in modalità agile fa permanere il possesso dei requisiti oggettivi (lavorazioni rischiose) e soggettivi (caratteristiche delle persone assicurate) previsti ai fini della ricorrenza dell’obbligo assicurativo, rispettivamente, dagli articoli 1 e 4, n. 1) del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124.
Coerentemente con la previsione della norma, la classificazione tariffaria della prestazione lavorativa svolta al di fuori dei locali aziendali segue quella cui viene ricondotta la medesima lavorazione svolta in azienda.
Sia per le attività svolte in azienda, sia per quelle svolte al di fuori di tale ambito, gli strumenti tecnologici sono sempre forniti dal datore di lavoro tenuto a garantirne anche il buon funzionamento e, quindi, a parità di rischio deve necessariamente corrispondere una identica classificazione ai fini tariffari, in attuazione del principio alla stregua del quale il trattamento normativo e retributivo dei lavoratori agili rispetto ai loro colleghi operanti in azienda deve essere il medesimo, ivi compresa l’adozione delle norme di sicurezza sul lavoro
Per quanto concerne gli aspetti peculiari del lavoro agile, gli infortuni occorsi mentre il lavoratore presta la propria attività lavorativa all’esterno dei locali aziendali e nel luogo prescelto dal lavoratore stesso sono tutelati se causati da un rischio connesso con la prestazione lavorativa.
Il lavoratore agile è tutelato non solo per gli infortuni collegati al rischio proprio della sua attività lavorativa, ma anche per quelli connessi alle attività prodromiche e/o accessorie purché strumentali allo svolgimento delle mansioni proprie del suo profilo professionale.
Secondo la posizione assunta dall’INAIL, l’accordo individuale di cui agli articoli 18 e 19 della legge, “si configura come lo strumento utile per l’individuazione dei rischi lavorativi ai quali il lavoratore è esposto e dei riferimenti spazio-temporali ai fini del rapido riconoscimento delle prestazioni infortunistiche”.
Questo sempre secondo l’INAIL comporta che “La mancanza di indicazioni sufficienti desumibili dall’accordo individuale […] comporta che, ai fini dell’indennizzabilità dell’evento infortunistico saranno necessari specifici accertamenti finalizzati a verificare la sussistenza dei presupposti sostanziali della tutela e, in particolare, a verificare se l’attività svolta dal lavoratore al momento dell’evento infortunistico sia comunque in stretto collegamento con quella lavorativa, in quanto necessitata e funzionale alla stessa, sebbene svolta all’esterno dei locali aziendali”.
I datori di lavoro non hanno alcun obbligo di denuncia ai fini assicurativi se il personale dipendente, già assicurato per le specifiche attività lavorative in ambito aziendale, sia adibito alle medesime mansioni in modalità agile che non determinano una variazione del rischio.
Lo svolgimento della prestazione di lavoro in modalità agile forma oggetto di comunicazione ai sensi di quanto previsto dall’articolo 23, comma 1 della norma in argomento.
A tal fine, a partire dal 15 novembre 2017 sul sito del Ministero del lavoro e delle politiche sociali (www.lavoro.gov.it) sarà disponibile un apposito modello ( .pdf o link ) per consentire ai datori di lavoro di comunicare l’avvenuta sottoscrizione dell’accordo per lo svolgimento della prestazione lavorativa in modalità di lavoro agile.per consentire ai datori di lavoro di comunicare l’avvenuta sottoscrizione dell’accordo per lo svolgimento della prestazione lavorativa in modalità di lavoro agile.

Perchè conviene la Diversity nel mercato del lavoro?

2017_8-marzo_LexellentSpesso, quando si parla dei valori dell’inclusione e della diversity in azienda gli interlocutori sembrano pensare che sia solo un argomento “buonista”, che riguarda solo un’eventuale sfera etica del lavoro e non aspetti molto precisi che toccano la produttività e i ricavi di un’azienda. Ma nelle stesse aziende ci capita sempre più spesso, per esempio, di sentire direttori del personale e amministratori delegati che affermano di aver urgente bisogno di «assumere persone qualificate con caratteristiche specifiche che, semplicemente, sul mercato non ci sono». Frasi del genere vengono ripetute talmente tante volte che probabilmente si tratta di un problema urgente e tutt’altro che secondario. Eppure manca la coscienza che una risposta possibile a quest’esigenza può venire proprio da un diverso approccio al problema della diversity.
Il mercato del lavoro sembra vedere masse crescenti di lavoratori non qualificati che vorrebbero entrare nel mondo del lavoro e pochi “eletti” iperqualificati corteggiatissimi che magari riescono anche a spuntare retribuzioni superiori al mercato: troppo pochi per le esigenze delle aziende e nella stragrande maggioranza maschi. E se donne, donne che hanno dovuto venire a patti con numerosi sacrifici, imponendosi un rigore che agli uomini non è richiesto.
Un punto di vista solo parziale? I numeri dimostrano il contrario. Uno studio recente della KPMG  sostiene che nei paesi industrializzati ci sarebbero almeno 100 milioni di donne qualificate, cioè perfettamente in grado di ricoprire posizioni di responsabilità e tecnicamente complesse, che hanno lasciato il loro impiego per dedicarsi alla famiglia. Una scelta irreversibile? Fino a qualche anno fa, sì: o manager o mamma. O la carriera o la famiglia. Oggi le aziende più avvedute, le multinazionali, fanno da apripista perché hanno una visione globale che le aiuta nella capacità di interrogarsi sul futuro, hanno cominciato ad accorgersi di questa “miniera” di competenze e capacità inutilizzate e a puntare ad assunzioni mirate proprio in quest’area. Di qualche giorno fa la notizia di una multinazionale inglese delle telecomunicazioni che punta ad assumere in tre anni mille donne (non solo ex dipendenti) che sono state a casa dopo la maternità fino a dieci anni.
È solo un esempio possibile di un utilizzo inclusivo della diversity che offre alle aziende la possibilità di trovare le risorse che mancano o risorse migliori, più qualificate, più motivate.  Anche le PMI, se vogliono rimanere competitive in un mercato globale sempre più difficile, non possono permettersi di ignorare una “miniera” del genere, ricordando anche qualche altro dato riportato da Istat ed Eurostat nella monumentale ricerca del 2013 sul lavoro femminile in Italia realizzata dall’UE e da Italia Lavoro: nel nostro paese le donne occupate sono meno della metà del totale (il 46,1%) e meno di un terzo (il 30,8%) al sud. Il tasso di laureate occupate (70,1%) è di nuovo il più basso d’Europa, anche se è dimostrato che le laureate italiane sono in media molto più in gamba dei maschi, tant’è che a Berlino e Londra (due delle destinazioni privilegiate per la fuga dei cervelli) lavorano più italiane laureate che italiani, mentre in Italia le donne dirigenti sono meno del 13% del totale. Nel 2010, in Italia, la media delle donne che lasciava il lavoro dopo una maternità era ancora al 25%, nel 2015, secondo l’Ocse, siamo ancora intorno al 22%. In Italia la platea per effettuare la “ricongiunzione” delle madri con il posto di lavoro non è di pochi casi sparuti. Stiamo parlando di un universo di oltre un milione e mezzo donne, fra cui anche laureate in materie tecniche, alcune con esperienze di lavoro molto significative.
Noi di Lexellent stiamo ragionando su questi fattori, perché siamo convinti che è anche da qui che nasceranno le migliori opportunità per le aziende che avranno successo nei prossimi anni. E che l’inclusione sia una delle chiavi di lettura per un mondo del lavoro di oggi e di domani.

Le nascite al minimo storico, il lavoro è colpevole?

Secondo gli ultimi dati ISTAT, apparsi sui principali quotidiani di oggi, in Italia, nel 2016, è stato toccato il minimo storico di nascite. 474mila neonati, rispetto ai 486mila nel 2015, con un calo del 2,4% a livello nazionale.
Ma le aziende sono parte in causa di questo trend? Secondo una ricerca che Lexellent ha commissionato a IPSOS, la risposta è sicuramente affermativa. Gli italiani fanno pochi figli perché le politiche di sostegno al lavoro sono ancora scarse nelle PMI.
Ma quali siano le richieste dei lavoratori e quali gli strumenti di welfare che le aziende possono mettere a disposizione per una buona conciliazione del rapporto vita – lavoro è rivelato dalla ricerca dello studio dal titolo «Lavoro e genitorialità: indagini, proposte e prospettive per un’azienda inclusiva»
 

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La carta dei valori della genitorialità in azienda.

Durante il IV convegno sulle Pari Opportunità organizzato dallo Studio, si è parlato di quali fossero i valori più significativi e imprescindibili per le aziende che consentono ai lavoratori di conciliare vita privata e lavorativa. Lexellent ne ha presentati nove, basandosi anche sui risultati emersi dalla ricerca commissionata ad IPSOS sui dipendenti delle PMI, e ha invitato i partecipanti al convegno ad integrare l’elenco.

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Italiani senza figli perché il lavoro non lo permette Politiche di sostegno alla genitorialità ancora assenti nelle PMI.

Lo rivela una ricerca IPSOS per Lexellent che è stata presentata oggi a Milano.
Quanto incide la situazione lavorativa sulla scelta degli italiani di fare figli o meno? Che cosa dovrebbero fare le aziende per aiutare la creazione e la gestione delle famiglie dei lavoratori? E di quali strumenti, messi a disposizione delle aziende dal nuovo welfare aziendale, i lavoratori preferirebbero disporre per poter conciliare meglio le esigenze di vita e di lavoro in presenza di figli?
Questi sono alcuni dei temi al centro della ricerca promossa da Lexellent, studio legale di diritto del lavoro, e condotta da IPSOS su un campione di mille persone, fra lavoratori e lavoratrici italiane delle piccole e medie imprese, i cui risultati sono stati presentati oggi nel corso del convegno «Lavoro e genitorialità: indagini, proposte e prospettive per un’azienda inclusiva» che si è tenuto a Milano a Palazzo delle Stelline.
Fra i risultati salienti dell’indagine Simone Andrea Telloni di IPSOS ha spiegato che la motivazione lavorativa è una delle ragioni principali per cui gli italiani e le italiane non fanno figli, o almeno così dichiarano ben il 63% degli interpellati senza figli. Ma se l’azienda per cui lavorano avesse messo in atto politiche di conciliazione vita-lavoro valide, i figli li avrebbero fatti? IL 76% ha risposto di sì. Fra quanti i figli ne hanno fatti, invece, il 66% ha risposto che ne avrebbero voluti di più se le condizioni lavorative ed economiche lo avessero permesso. Per quasi un terzo dei rispondenti (sia con figli che senza) il fatto di diventare genitori viene ancora interpretato come un ostacolo alla carriera.
Secondo Telloni le PMI italiane cominciano a offrire servizi per conciliare lavoro e genitorialità come previsto dal Jobs Act, ma la fruizione di queste opportunità, per altro non ancora pienamente sviluppate dalle aziende, è ancora molto bassa da parte dei lavoratori. Ben il 47% dei rispondenti senza figli, per esempio, sostiene di non essere stata informata correttamente sui diritti e le opportunità per i lavoratori genitori. Quasi il 90% dei lavoratori interpellati auspica una maggiore trasparenza nelle comunicazioni fra il dipendente in maternità o paternità e l’azienda stessa.     
Ma cosa vorrebbero i lavoratori per poter vivere meglio la genitorialità sul posto di lavoro? Il 54% dei genitori chiede la possibilità di utilizzare forme di telelavoro. Il 62% vorrebbe buoni acquisto per i libri scolastici e un aiuto per le rette scolastiche.
Fra i non genitori il 55% vorrebbe un aiuto per il carrello della spesa. Sia genitori che non genitori chiederebbero al 52% una maggiore flessibilità degli orari.
«Ci sono due fattori molto importanti che emergono da questi numeri», sostiene Giulietta Bergamaschi, avvocato del lavoro, partner di Lexellent e promotrice del convegno, il quarto organizzato dallo studio sul tema delle pari opportunità, «il primo è che, anche se tutti pensiamo di sapere che quello del lavoro è un tema importante rispetto alla decisione se fare figli o meno, nessuno si è soffermato a indagare quanto effettivamente sia cruciale. Si parla della denatalità dell’Italia come di un fattore ineluttabile o culturale, non si capisce che è anche e soprattutto un dato socioeconomico. Dalla ricerca che abbiamo commissionato a IPSOS risulta che più della metà dei rispondenti, sia genitori sia non genitori sostengono che le politiche aziendali di conciliazione favoriscono un’efficace gestione della genitorialità e rappresenterebbero un incentivo reale ad avere figli. È un dato che dovrebbe far riflettere».
«Il secondo fattore cruciale», prosegue Bergamaschi, «è che le grandi multinazionali hanno capito da tempo che una politica di inclusione che faciliti la conciliazione fra vita e lavoro dei dipendenti è l’unico sistema per attirare e trattenere i migliori talenti e per avere in azienda un clima positivo che favorisca un aumento di produttività e riescono a metterla in pratica. Le PMI italiane, invece, pur avendolo capito, faticano a mettere in campo le politiche di inclusione, tranne in alcuni esempi virtuosi. Una legge avanzata come quella sul welfare aziendale consentirebbe infatti a tutte le società con dipendenti di migliorare le relazioni interne con sforzi relativamente contenuti. Ma per adesso non sta succedendo. Sono convinta che le aziende che per prime capiranno le opportunità della legge e sapranno interpretarle in maniera corretta avranno nei prossimi anni un considerevole aumento di risultati rispetto a quelle che non sapranno andare in questa direzione».
La ricerca completa è disponibile sul sito http://www.lexellent.it/category/pari-opportunita/

Italiani senza figli perché il lavoro non lo permette Politiche di sostegno alla genitorialità ancora assenti nelle PMI.

Lo rivela una ricerca IPSOS per Lexellent che verrà presentata domani a Milano.
Quanto incide la situazione lavorativa sulla scelta degli italiani di fare figli o meno? Che cosa dovrebbero fare le aziende per aiutare la creazione e la gestione delle famiglie dei lavoratori? E di quali strumenti, messi a disposizione delle aziende dal nuovo welfare aziendale, i lavoratori preferirebbero disporre per poter conciliare meglio le esigenze di vita e di lavoro in presenza di figli?
Questi sono alcuni dei temi al centro della ricerca promossa da Lexellent, studio legale di diritto del lavoro, e condotta da IPSOS su un campione di mille persone, fra lavoratori e lavoratrici italiane delle piccole e medie imprese, i cui risultati verranno presentati il 4 novembre nel corso del convegno «Lavoro e genitorialità: indagini, proposte e prospettive per un’azienda inclusiva» che si terrà a Milano a Palazzo delle Stelline a partire dalle 9 del mattino.
Fra i risultati salienti dell’indagine emerge prepotentemente che la motivazione lavorativa è la ragione principale per cui gli italiani e le italiane non fanno figli, o almeno così dichiarano. Alla domanda «Quanto ha inciso la vostra situazione lavorativa sulla decisione di non avere figli» ben il 63% degli interpellati senza figli ha risposto che è stata rilevante: determinante per il 30% dei rispondenti, importante per il 33%.
Venendo ai servizi e alle facilitazioni che le aziende possono dare ai lavoratori per facilitare la conciliazione fra vita e lavoro – rese ancora più convenienti dalla legge sul welfare privato che ha accompagnato la riforma del lavoro (Jobs Act) – si scopre che le PMI, per ora, non hanno ancora aderito ai nuovi modelli di welfare aziendale e, nella stragrande maggioranza dei casi, non hanno percepito quanto importanti questi benefit possano essere per i lavoratori e il miglioramento del clima aziendale.
«Ci sono due fattori molto importanti che emergono da questi numeri», sostiene Giulietta Bergamaschi, avvocato del lavoro, partner di Lexellent e promotrice del convegno, il quarto organizzato dallo studio sul tema delle pari opportunità, «il primo è che, anche se tutti pensiamo di sapere che quello del lavoro è un tema importante rispetto alla decisione se fare figli o meno, nessuno si è soffermato a indagare quanto effettivamente sia cruciale. Si parla della denatalità dell’Italia come di un fattore ineluttabile o culturale, non si capisce che è anche e soprattutto un dato socioeconomico. Dalla ricerca che abbiamo commissionato a IPSOS risulta che la metà dei rispondenti, sia genitori sia non genitori sostengono che le politiche aziendali di conciliazione favoriscono un’efficace gestione della genitorialità e rappresenterebbero un incentivo reale ad avere figli. È un dato che dovrebbe far riflettere».
«Il secondo fattore cruciale», prosegue Bergamaschi, «è che le grandi multinazionali hanno capito da tempo che una politica di inclusione che faciliti la conciliazione fra vita e lavoro dei dipendenti è l’unico sistema per attirare e trattenere i migliori talenti e per avere in azienda un clima positivo che favorisca un aumento di produttività e riescono a metterla in pratica. Le PMI italiane, invece, pur avendolo capito, faticano a mettere in campo le politiche di inclusione, tranne in alcuni esempi virtuosi. Una legge avanzata come quella sul welfare aziendale consentirebbe infatti a tutte le società con dipendenti di migliorare le relazioni interne con sforzi relativamente contenuti. Ma per adesso non sta succedendo. Sono convinta che le aziende che per prime capiranno le opportunità della legge e sapranno interpretarle in maniera corretta avranno nei prossimi anni un considerevole aumento di risultati rispetto a quelle che non sapranno andare in questa direzione».

il lavoro agile.

Torniamo brevemente sul tema del lavoro agile. La legge che ne prevede l’introduzione nell’ordinamento giuridico italiano non è ancora stata approvata (i tre disegni di legge sul tema sono ancora all’esame delle commissioni competenti del Senato); tuttavia, l’attenzione su questa modalità di prestazione dell’attività lavorativa non è venuta meno. Molte pagine sono state scritte sul numero limitato di imprese che per il momento hanno attuato progetti di lavoro agile, con particolare attenzione al fatto che sarebbero le ragioni culturali proprie del nostro paese a impedire di fondare sulla fiducia il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore. Perché il lavoro agile abbia successo bisogna però porre l’attenzione anche sul punto di vista dei lavoratori, senza dare per scontato che accolgano con entusiasmo la proposta del datore di lavoro di prestare attività lavorativa in modo flessibile. Considerato che la prestazione di lavoro agile si attuerà, per quanto sembra, su base volontaria, perché la legge abbia successo occorrerà che l’offerta del datore di lavoro di lavorare fuori dall’azienda incontri l’esigenza di flessibilità dei lavoratori. Ciascun datore dovrà, quindi, porre particolare attenzione alle diverse istanze di flessibilità dei quali i suoi lavoratori si diranno portatori, in modo da dare loro risposte adeguate e concrete. Diversamente, se all’offerta di flessibilità non corrisponderà un’idonea domanda, la legge sarà destinata a risultati non soddisfacenti. Le esigenze dei lavoratori nei confronti del datore di lavoro mutano in ragione delle stagioni della vita. Da uno studio effettuato da www.smartworking.srl in occasione dell’ultima giornata del lavoro agile del 18 febbraio 2016, è risultato che l’età media dei lavoratori che usufruiscono degli spazi di coworking è di 38 anni. Questo potrebbe significare che i lavoratori più giovani, da poco inseriti nel mondo del lavoro, preferiscono recarsi in ufficio anziché godere della flessibilità. E ciò può anche significare che laddove non ci sia il bisogno, lo strumento messo a disposizione dal datore di lavoro rimane poco utilizzato. Attenzione, quindi, a non perdere di vista le esigenze dei lavoratori, una delle chiavi attraverso le quali le aziende potranno davvero lavorare con maggiore impegno sugli obiettivi, con benefici in termini di competitività.

maternità e lavoro.

Ieri, domenica 8 maggio, è stata la Festa della Mamma, un’occasione per ricordarci di tutte le donne che fanno il lavoro più difficile al mondo. Ma quali sono, oggi, le tutele e gli aiuti che la legge e la società garantiscono a quelle donne che non vogliono rinunciare né al lavoro né alla maternità?
Innanzitutto la donna lavoratrice gode di un congedo obbligatorio di cinque mesi fruibili in maniera flessibile in base allo stato di salute, per i quali viene retribuita all’80% dall’INPS ed il restante 20% dal datore di lavoro, se previsto dalla contrattazione collettiva di settore. La maternità obbligatoria riguarda oggi un vasto numero di lavoratrici, essendo, infatti, garantita a coloro che sono disoccupate, se il congedo di maternità inizia entro 60 giorni dall’ultimo giorno di lavoro, nonché alle lavoratrici c.d. parasubordinate.
In caso di gravi complicanze nella gravidanza, che devono essere attestate dall’ASL o dalla Direzione Territoriale del Lavoro, è inoltre possibile ottenere la maternità anticipata, che precede il congedo obbligatorio di maternità.
Successivamente alla maternità obbligatoria vi è, poi, la possibilità di fruire della maternità facoltativa per un periodo di sei mesi.
Queste sono le tutele previste in riferimento all’astensione lavorativa. ma cosa succede quando la neomamma decide di tornare al lavoro?
A questo punto, benché la lavoratrice sia tutelata dai permessi per l’allattamento, dei quali può fruire fino all’anno del bambino, da un lato e dal divieto di licenziamento, nonché dall’obbligo di convalida delle dimissioni, dall’altro, la gestione quotidiana del figlio diventa più difficile. Le strutture che accudiscono i bambini sono costose e spesso hanno liste di attesa molto lunghe e l’asilo nido aziendale è una realtà ancora non molto diffusa, se non all’interno delle aziende più grandi.
Sotto questo punto di vista un grande aiuto potrebbe arrivare alle madri dall’implementazione di progetti di lavoro agile all’interno di strutture che offrono servizi focalizzati sulla cura dei figli piccoli, senza gravare ulteriormente sulle aziende.
Ad ogni modo la grave difficoltà per le donne di conciliare il lavoro e la maternità è evidente anche soltanto analizzando i dati: un recente rapporto diffuso dall’organizzazione Save the Children rileva che ancora oggi in Italia circa il 30% delle donne sceglie di abbandonare il lavoro dopo la nascita di un figlio.
Tale situazione richiede un intervento di supporto che non si limiti ad una tutela “conservativa”, certamente importante, ma che si spinga a fornire un aiuto concreto per quelle donne che scelgono di non rinunciare al lavoro più importante del mondo: essere mamme.