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Quando le relazioni interpersonali all’interno del luogo di lavoro assumono una rilevanza penale.

Il "rapporto di lavoro" è inteso come la relazione contrattuale e professionale sussistente tra il datore di lavoro ed il lavoratore che trova la...

Il “rapporto di lavoro” è inteso come la relazione contrattuale e professionale sussistente tra il datore di lavoro ed il lavoratore che trova la sua piena realizzazione nel “luogo di lavoro” inteso come il luogo in cui il lavoratore si reca per prestare l’attività lavorativa ed esprimere la propria personalità e professionalità.
In questo contesto, a fronte dei cambiamenti apportati dal Jobs Act, l’accezione di “rapporto di lavoro” potrebbe essere destinata a mutare e la recente costrizione delle tutele ad oggi accordate ai lavoratori – meno incisive da un punto di vista sanzionatorio – potrebbe portare all’utilizzo strumentale di un altro tipo di tutela (quella penale).
La responsabilità del datore di lavoro, giuridicamente definita dall’art. 2087 del codice civile, va oggi contestualizzata in una realtà in cui gli strumenti a tutela del lavoratore mutano e si espandono. Questo è possibile perché il datore di lavoro è responsabile, non solo, della gestione della prestazione lavorativa, ma anche della prevenzione di tutte quelle situazioni patologiche che potrebbero portare alla commissione di un reato ai danni di un proprio dipendente.
In quest’ottica, se il datore di lavoro è ritenuto responsabile della sicurezza dei propri lavoratori sul luogo di lavoro, tale “sicurezza” va intensa non solo quale prevenzione di infortuni sul luogo di lavoro, ma anche quale prevenzione di condotte che potrebbero configurare ipotesi di reati. Secondo la Corte di Cassazione nella sentenza n. 4067 del 2008 il datore di lavoro ha l’obbligo di tutelare la “personalità morale” (oltre a quella fisica) di tutti i propri dipendenti; questo principio, ormai consolidato, oggi potrebbe trovare una nuova reviviscenza.
Ed è proprio la “tutela del bene giuridico” la chiave di lettura della responsabilità civile riconducibile in capo al datore di lavoro per ogni atto illecito commesso ai danni di un dipendente all’interno del luogo di lavoro.
Il bene giuridico – inteso come interesse tutelato dalle norme penali (in luogo di quello protetto dalle norme civilistiche) – potrebbe avere oggi una maggior attrattiva a fronte di un vuoto giuridico che si è verificato con l’introduzione delle c.d. tutele crescenti.
Sussiste la responsabilità del datore ogni volta in cui si verifichi una colpevole inerzia nella rimozione del fatto lesivo. Pensiamo, ad esempio, ai “reati contro l’onore” e nello specifico ai reati di ingiuria e di diffamazione; tali reati trovano un terreno fertile nel luogo di lavoro ove le relazioni interpersonali sono “forzate” e l’utilizzo di strumentazione informatica è in continua espansione.
Le relazioni interpersonali tra colleghi o con i superiori sono spesso fonte di confronto costruttivo, altre volte, però, il confronto degenera sino a travalicare i confini del lecito costituendo così una violazione del bene giuridico indentificato nell’onore ed il decoro di una persona. Nel luogo di lavoro il rischio che si commetta questa tipologia di reato sussiste ogni volta in cui venga esercitato, ad esempio, il potere disciplinare in modo improprio ovvero quando il “rimprovero” diventa “un’offesa dispregiativa” idonea a mortificare ed offendere la persona.
La libertà di critica e la libertà imprenditoriale, anch’essi beni costituzionalmente tutelati tanto quanto il diritto alla salute, quale protezione trovano all’interno del rapporto di lavoro?
La risposta va data in base al caso concreto; tuttavia, la Corte di Cassazione, in una recente sentenza del 20 agosto 2015, n. 35013 ha avuto modo di chiarire che la frase rivolta dal capo ufficio alla propria sottoposta (“le leccavi il c… ed i piedi”) lungi dal restare circoscritta nell’ambito della lecita censura del comportamento della dipendente, andando ben oltre e mortificando la figura morale.
Nel contesto lavorativo è, quindi, lecito criticare una specifica “azione”, ma non la “persona” autrice di quella azione: così, facendo, altrimenti, si sconfinerebbe in un attacco personale sul piano individuale e non in un rimprovero che abbia lo scopo di preservare l’attività aziendale.
Pensiamo anche al reato di diffamazione, che ad oggi, grazie allo sviluppo tecnologico, è facilmente realizzabile, anche in assenza di una precisa finalità dolosa.
L’introduzione nel luogo di lavoro di computer, cellulare, internet e di varie tecnologie ha portato con sé una serie di problematiche che il datore di lavoro deve saper identificare, stigmatizzare e soprattutto prevenire.
Uno di questi casi è quello del lavoratore che, durante l’orario di lavoro, accede, attraverso la strumentazione di lavoro, ai social network (azione di per sé disciplinarmente rilevante) e commette un reato. Il dipendente in questione è stato ritenuto penalmente responsabile per aver pubblicato sul proprio profilo Facebook un post contenente frasi ingiuriose ed offensive nei confronti di un collega o di un superiore (la Corte di Cassazione con la sentenza del 22.01.2014, n. 16712, sul punto, ha ritenuto sussistere il reato di diffamazione anche in forma anonima).
Ciò potrebbe comportare anche una responsabilità nei confronti del datore di lavoro laddove lo stesso non abbia adeguatamente protetto la salute dei propri dipendenti dalla riprovazione nell’ambiente di lavoro.
Tenuto conto di tutti i cambiamenti cui stiamo assistendo nel mondo del lavoro, oggi ancor più che nel passato è importante che le aziende siano consapevoli del fatto che il nesso di occasionalità sussistente tra il luogo di lavoro e lavoratori e tra questi ultimi ed il datore di lavoro possono determinare in capo alla società una responsabilità civile in ambito penale e, pertanto, la gestione delle risorse deve poter garantire un’adeguata tutela da tale rischio attraverso l’adozione di misure preventive e proattive all’interno dell’organizzazione aziendale.