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Quando il controllo del datore di lavoro sul lavoratore assume rilevanza penale.

Si sta parlando molto della riforma dei controlli a distanza che ha riscritto l'art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, nel tentativo di rendere più...

Si sta parlando molto della riforma dei controlli a distanza che ha riscritto l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, nel tentativo di rendere più attuale la sua applicazione, alla luce della diffusione delle moderne tecnologie, che hanno creato nuovi strumenti di lavoro che possono essere, allo stesso tempo, strumenti di controllo.
Lo scopo dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori è quello di contemperare, da un lato, gli interessi dell’impresa, e quindi la libertà di organizzazione del lavoro e della produzione e, dall’altro, il diritto del lavoratore a non essere sottoposto a “controlli a distanza”, durante lo svolgimento delle sue mansioni sul luogo di lavoro.
Tralasciando gli aspetti prettamente giuslavoristici, in questo articolo ci soffermeremo su alcune situazioni riconducibili a diversi casi di controllo del datore di lavoro nei confronti dei lavoratori, realizzati sia mediante la registrazione di comunicazioni audio sia attraverso video riprese effettuate negli uffici aziendali dei lavoratori.
Il primo di questi casi è quello di un datore di lavoro che, dopo essersi introdotto all’interno dell’ufficio dell’amministratore delegato, chiuso a chiave, vi fa installare a sua insaputa un registratore con annessa telecamera e microfono.
L’altro, riguarda invece il titolare di uno studio dentistico che, al fine di controllare se i propri dipendenti ricevessero i pagamenti direttamente dai clienti, fa installare in segreto, all’interno dei locali in cui veniva svolta la prestazione dentistica da parte dei suoi sottoposti, delle telecamere nascoste con sistema audio integrato e collegate ad un registratore posto nel proprio ufficio privato che, attraverso il personal computer, gli consente l’ascolto e la visione, in diretta e in differita, di immagini e conversazioni dei dipendenti.
Con una pronuncia relativamente recente la Corte di Appello di Milano ha ritenuto che i due casi integrassero i reati di violazione di domicilio (art. 614 c.p.) e interferenza illecita nella vita privata (art. 615 bis c.p.), piuttosto che la sola violazione dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori (Corte App. Milano, Sez. V, 26.02.2014, n. 1630).
La Corte milanese giunge a tale soluzione, ritenendo che l’ufficio privato in cui si svolge attività lavorativa rientra nella nozione di “domicilio”, di cui all’art. 614 c.p., cui rinvia l’art. 615 bis c.p.
In questo senso, la citata sentenza della Corte di Appello di Milano, nell’individuazione del “domicilio”, ha valorizzato, richiamando la giurisprudenza della Sezioni Unite (Cass. S.U., 28.3.2006, n. 26795), non tanto il luogo in sé, ma il rapporto sussistente tra persona e luogo, precisando in particolare che “gli atti della vita privata non vanno confusi con quella della vita intima e familiare”, ma comprendono altre attività “lavorative, ricreative, politiche, culturali, religiose” nelle quali si estrinseca la personalità dell’individuo (Corte App. Milano, Sez. V, 26.02.2014, n. 1630).
In quest’ottica, è opportuno richiamare le ultime decisioni giurisprudenziali, secondo cui a caratterizzare i “luoghi di privata dimora” sarebbero l’ammissibilità dell’interclusione al pubblico, con la possibilità di svolgere attività al riparo da interferenze esterne e la natura privata dell’attività che il luogo è destinato ad accogliere. In tale luogo, infatti, il titolare vanta, oltre allo ius excludendi, anche il diritto alla riservatezza di quanto si svolge al suo interno (Cass. Pen., 04/03/2006, n. 26795).
Il punto focale, nel senso dell’applicabilità delle norme penali, è rappresentato dunque dal luogo in cui sono state effettuate le registrazioni audio e le video riprese, e cioè l’ufficio personale delle vittime, un luogo “assolutamente privato”, per le ragioni evidenziate sopra.
A tal riguardo, ci viene in aiuto l’esempio cui ricorrono i giudici della Corte di Appello di Milano. Una telecamera installata sopra una catena di montaggio, alla quale è addetto un numero imprecisato di lavoratori, ove non autorizzata, integrerà la mera violazione dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori; mentre la medesima telecamera installata nell’ufficio di un impiegato, che possa chiuderne a chiave la porta, integrerà i reati di violazione di domicilio (art. 614 c.p.) e interferenza illecita nella vita privata (art. 615 bis c.p.).
Alla luce delle considerazioni svolte, si può ritenere senz’altro che non si possa configurare il reato di interferenza illecita nell’altrui vita privata nel caso in cui venga accertato che la telecamera, installata all’ingresso di un luogo di lavoro, non sia in grado di riprendere l’attività lavorativa svolta all’interno dello stabilimento (Cass. Pen., Sez. V, 09/010/2012, n. 1044).
Parimenti, non si configura il reato previsto dall’art. 615 bis c.p., nel caso di notizie o immagini, sotto forma di riprese filmate, acquisite negli ambienti di lavoro di uno stabilimento industriale, non potendo tali locali essere qualificati, a differenza di quanto deve ritenersi con riguardo agli uffici che costituiscono sede dell’impresa, luoghi di privata dimora (Cass. Pen., Sez. V, 04/06/2001, n. 35947).
In definitiva, il reato di interferenze illecite nella vita privata punisce le intrusioni nel domicilio altrui realizzate mediante insidiosi mezzi tecnici, quali ad esempio strumenti di ripresa visiva o sonora, all’insaputa o contro la volontà di chi ha lo ius excludendi. Così, con le illecite interferenze, la lesione della riservatezza può consumarsi anche nei locali ove si svolge il lavoro dei privati, come ad esempio lo studio professionale, il ristorante, il bar, il negozio in genere, ma anche l’ufficio personale di un lavoratore dipendente.
È importante dunque che le aziende siano consapevoli che le condotte poste in essere per il controllo a distanza dei lavoratori possono, in alcuni casi, superare i limiti previsti dall’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori e sfociare in ambito penale.