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Immagine dell’azienda e ruolo del dipendente.

Nell’era del marketing H24 i social media stanno assumendo una rilevanza neppure immaginabile anche solo pochi anni fa. Si aprono così nuovi...

Nell’era del marketing H24 i social media stanno assumendo una rilevanza neppure immaginabile anche solo pochi anni fa. Si aprono così nuovi scenari che rendono obsoleto il mondo a cui eravamo abituati. Ovviamente e inevitabilmente il mondo del lavoro non può restare estraneo a questa evoluzione alla quale stiamo assistendo e che fa dell’immagine e della reputazione uno dei beni più preziosi dell’azienda. Diventa quindi fondamentale porsi il problema di quale sia il rapporto fra la reputazione dell’azienda, le opinioni personali e financo il marketing individuale, nel momento in cui le opinioni personali e i comportamenti privati possono raggiungere un numero di destinatari del tutto impensabile solo dieci anni or sono. Un esempio aiuta a chiarire. Pochi giorni fa Coca-Cola, per bocca del proprio CEO, ha preso posizione contro il bando emanato dalla Casa Bianca per impedire l’accesso negli Stati Uniti ai cittadini di alcuni Stati a maggioranza musulmana. Si tratta di una posizione non solo politica, ma soprattutto mediatica, certamente valutata attentamente dai responsabili marketing della società. Che cosa succederebbe se un gruppo di dipendenti, o anche solo un singolo, aprisse su Facebook una pagina a sostegno dell’iniziativa di Trump? Soprattutto se questo dipendente fosse un dirigente di primo piano della multinazionale. Trattandosi di un comportamento incompatibile con la strategia di marketing aziendale potrebbe in teoria darsi luogo a provvedimenti nei suoi confronti. Ma il dipendente ha però esercitato il proprio diritto a esprimere un’opinione politica. Come si conciliano questi due opposti? Può l’azienda assumere provvedimenti disciplinari nei confronti di quei dipendenti, non tanto per le opinioni espresse, ma per essersi mossi in contrasto con le indicazioni di marketing aziendale? La questione può essere affrontata anche da un punto di vista diametralmente opposto. Pensiamo al venditore di un’azienda che opera utilizzando i propri rapporti personali e fa della conoscenza diretta dei clienti il suo punto di forza. Immaginiamo anche che il nostro venditore agisca in America nella cosiddetta Bible Belt. Che succederebbe se vedesse la propria azienda prendere una posizione simile a quella di Coca-Cola, che può pregiudicare in modo consistente le proprie relazioni con un possibile grave danno economico? Può dimettersi per giusta causa anche in assenza di un inadempimento del datore di lavoro che gli sta creando un grave danno reputazionale che potrebbe avere conseguenze anche nel futuro? Gli esempi possono continuare all’infinito. Pensiamo ad esempio al lavoratore che pubblica sul proprio sito personale o sulla sua pagina Facebook una vignetta o un video dai contenuti antisemiti o connotati da elementi di razzismo. Magari anche in modo inconsapevole come è accaduto due settimane fa al famoso blogger Pew Die Pie. Stante la diffusione che una pubblicazione di questo tipo può avere, il datore di lavoro deve far finta di non saperne niente e perciò rinunciare a prendere qualsivoglia iniziativa, anche se la pubblicazione produce danni diretti (ad esempio all’azienda che produce fra l’altro cibo Kosher o che agisce in zone territoriali particolari)? Nell’era delle nuove tecnologie non si possono ancora ritenere efficaci e applicabili norme certamente condivisibili, ma che oggi sembrano obsolete. L’art. 8 dello Statuto vieta le indagini sulle opinioni del lavoratore, ma come si può parlare di “indagini” quando una semplice visita su Facebook consente di avere un quadro preciso della personalità, delle idee, degli orientamenti politici, sessuali religiosi del dipendente? Questi semplici esempi, che sono però tratti da episodi realmente accaduti, ci fanno ben capire come le aziende debbano attrezzarsi per regolamentare in modo preciso e puntuale l’uso dei social network, alla luce della loro interazione con la vita aziendale in modo da prevenire fenomeni che potrebbero avere conseguenze anche gravi sulla reputazione e sul business. La policy prevista dall’art 4 dello Statuto per regolamentare il controllo a distanza dei lavoratori non è sufficiente, occorre qualcosa di più approfondito che impedisca che il lavoratore danneggi l’azienda senza con questo pregiudicarne il diritto di opinione.