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Caso Weinstein: perché in Italia non sarebbe possibile.

Sarebbe stato possibile anche in Italia un Caso Weinstein, il produttore di Hollywood accusato negli Stati Uniti di molestie e violenza sessuale da...

Sarebbe stato possibile anche in Italia un Caso Weinstein, il produttore di Hollywood accusato negli Stati Uniti di molestie e violenza sessuale da ormai oltre 100 donne fra cui alcune delle più note dive del cinema mondiale, non ultima l’italiana Asia Argento? Che cosa caratterizza e in cosa differisce la legge americana da quella italiana?
Passata la celebrazione del 25 novembre, giornata mondiale contro la violenza sulle donne, con il suo clamore ma anche la sua retorica, una riflessione sembra doverosa. Anche perché le differenze legislative sull’argomento ci sono, come si comprende grazie allo schema del sito www.aauw.org che rappresenta la American Association of University Women, la più antica (è nata nel 1881) e probabilmente la più potente organizzazione statunitense per l’affermazione dei diritti delle donne, a cominciare dalla loro rappresentanza legale e dalla difesa dei loro diritti sul lavoro.
Negli USA il tema del sexual harrassment, ovvero delle molestie sessuali, viene inquadrato come una violazione del Titolo settimo del Civil Rights Act (Legge sui diritti civili) del 1964. Il Titolo settimo è una legge federale che proibisce e sanziona tutte le forme di discriminazione in ambito lavorativo siano esse basate su motivi di natura sessuale, razziale, di colore della pelle, di origine nazionale, di religione e si applica a tutte le aziende che abbiano 15 o più dipendenti incluse le amministrazioni federali, statali e locali. Dunque qualsiasi forma di molestia o violenza sessuale, indipendentemente dalla sua rilevanza penale o civile, viene inquadrata come una violazione dei diritti del lavoratore, in qualsiasi aspetto o fase del lavoro si verifichi e, in particolare:

  • Nell’assunzione, ingaggio o licenziamento;
  • Nella determinazione dei compensi, delle mansioni, nella classificazione dell’impiegato o del collaboratore;
  • Nei trasferimenti, nelle promozioni, nell’interruzione o richiamo dei lavoratori:
  • Negli avvisi di ricerca di personale;
  • Nelle fasi e colloqui di assunzione;
  • Nei test di idoneità;
  • Nell’uso di strumenti o strutture aziendali;
  • Nei programmi di addestramento o di riqualificazione;
  • Nell’assegnazione di benefit;
  • Nella retribuzione, nei piani pensionistici e nelle indennità di invalidità;
  • In qualsiasi altro termine o condizione di assunzione o di lavoro.

Già qui una differenza netta con la legislazione italiana che, secondo gli avvocati Giulietta Bergamaschi e Alessandra Rovescalli, autrici di un articolo uscito su Tuttolavoro del Sole 24 ore in occasione del 25 novembre, pone distinzioni nette fra «Gli atti di violenza sessuale e le molestie sul lavoro rispetto agli episodi di mobbing. Inoltre il nostro ordinamento distingue i comportamenti che generano responsabilità penale, civile o sono invece censurabili solo sul piano morale».
La legislazione americana fa una differenza che non è presente in quella italiana fra due forme di sexual harrassment, di cui una viene intrinsecamente considerata più grave:

  • Quid pro quo: quando una decisione riguardo al rapporti di lavoro — tipicamente una promozione, l’assegnazione di un compito o mansione se non addirittura la stessa conservazione del posto di lavoro proprio (o altrui: per esempio quello di un congiunto)— viene subordinata all’accettazione della molestia sessuale.

Quest’ipotesi di molestia, considerata intrinsecamente più grave, deve contenere dunque un aspetto ricattatorio: o subisci le mie (non desiderate) attenzioni sessuali, o vai incontro a effetti negativi sulla tua vita lavorativa. È certamente quella ipotizzabile nel caso Weinstein, dove alle attrici veniva chiesto di accettare le avances del produttore o non avrebbero più lavorato.

  • Creazione di un ambiente di lavoro ostile (mobbizzazione) attraverso intimidazioni, atti persecutori e/o offensivi.

In entrambi i casi, negli USA, il reato di molestia viene riconosciuto come tale senza bisogno di ulteriori profili di violazione di legge (come minaccia, violenza, insulto…) che possono costituire ovviamente delle aggravanti. In Italia, invece, secondo Bergamaschi e Rovescalli è necessaria la violazione di una specifica norma penale perché la molestia possa avere rilievo, comunque distinto dalla violenza: «Sul piano della responsabilità penale, commette il reato di violenza sessuale chi costringe un’altra persona a compiere o subire atti sessuali con violenza, minaccia, abuso di autorità o delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto, o ancora, ingannando la persona offesa perché il colpevole si sostituisce ad altri. Dunque, in un certo senso l’harrassment quid pro quo dell’ordinamento americano viene comunque compreso nell’ipotesi di violenza sessuale prevista dall’ordinamento italiano, fatto salvo il fatto che l’aspetto ricattatorio previsto dall’ordinamento americano integra comunque il reato, anche se l’atto sessuale non viene poi né tentato né effettivamente consumato. In Italia
la pena per violenza sessuale è la reclusione da cinque a dieci anni. Integra, invece, il reato di molestia chi reca a un’altra persona molestia o disturbo, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero per telefono, con insistenza o per altro motivo condannabile. La pena è l’arresto fino a sei mesi o l’ammenda fino a 516 euro. Considerata la poca incisività di questa contravvenzione, è compito dei giudici ricondurre i casi concreti all’ipotesi incriminatrice della violenza sessuale o delle molestie. Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, sezione penale, integra il reato di violenza sessuale e non quello di molestia chi tocca in modo non casuale i glutei della dipendente, ancorché sopra i vestiti. Si configura, invece, il reato delle molestie solo in presenza di espressioni verbali a sfondo sessuale o di atti di corteggiamento invasivo e insistente diversi dall’abuso sessuale».
Terza differenza è, negli Stati Uniti, l’obbligo per tutte le aziende con più di 15 dipendenti di dotarsi di una policy (codice di comportamento interno) sulle molestie e di individuare un responsabile (per le aziende di dimensioni maggiori un comitato) deputato a ricevere eventuali denunce di harrassment o di altre forme di discriminazione. Il responsabile (o il comitato) è poi tenuto a trasmettere eventuali denunce di comportamenti discriminatori o di molestie all’ EEOC (Equal Employment Opportunity Commission, Commissione per le pari opportunità sul lavoro, https://www.eeoc.gov), ente federale bipartisan composto da cinque membri parlamentari nominati direttamente dal Presidente degli Stati Uniti con poteri di indagine e giudiziari. In sostanza è quasi sempre la EEOC a determinare l’entità del danno subito dal lavoratore vittima di abusi o molestie sessuali. La sede è a Washington DC e i dipendenti della commissione sono oltre 300. In Italia non esiste un’authority comparabile.
In Italia le aziende invece possono adottare policy antidiscriminatorie e contro le violenze sessuali e le molestie per disincentivare il compimento di atti discriminatori o reati. Inoltre, le stesse possono istituire procedure di denuncia predeterminate, agevolando così le segnalazioni di comportamenti discriminatori, di violenza sessuale e di molestie. Segnalazioni che devono comunque essere trasmesse all’autorità giudiziaria.
Secondo Bergameschi e Rovescalli «Anche il legislatore mantiene alta l’attenzione in materia, tanto è vero che ha appena introdotto forme di tutela per coloro che denunciano, anche questa tipologia di condotte illecite, approvando lo scorso 15 novembre la legge “Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato“. Ogni azienda dovrà, dunque, aggiornare i modelli di organizzazione e gestione di cui alla legge n. 231 del 2001».
Sempre in Italia, sotto il profilo civilistico il Codice delle Pari Opportunità definisce le molestie e le molestie sessuali comportamenti indesiderati, posti in essere con lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo. Le prime sono compiute per ragioni legate al sesso, mentre le seconde hanno una connotazione sessuale e si esprimono in forma fisica, verbale o non verbale.
In ambito di diritto antidiscriminatorio, al lavoratore o alla lavoratrice che subisce molestie o molestie sessuali è riconosciuta la facoltà di ricorrere al Giudice del lavoro (del luogo dove è avvenuto il fatto denunciato) che, nei due giorni successivi, convocate le parti e raccolte informazioni sommarie, se ritiene sussistente la violazione, ordina all’autore del comportamento denunciato la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale (nei limiti della prova fornita).
Dunque, per rispondere alla domanda iniziale, anche la legislazione italiana prevede una tutela delle lavoratrici (o aspiranti tali) da molestie e violenze. Tuttavia, dato che le molestie poste con modalità quid pro quo rientrano, nel nostro ordinamento, nei casi di violenza sessuale, sarebbe difficile ipotizzare una rilevanza penale di un caso come quello Weinstein, visto che i comportamenti sanzionati devono essere denunciati dalla vittima entro 180 giorni. Le molestie che Weinstein avrebbe imposto alle giovani attrici riguardano infatti casi che risalgono ad anni addietro: senza nulla togliere alla riprovazione morale che suscitano atti di questo tipo, in Italia un’eventuale denuncia penale verrebbe molto probabilmente archiviata.
Al di là delle differenze legislative, tuttavia, è soprattutto nella pratica dei tribunali che la strada sembra ancora lunga e si riscontrano maggiori differenze. È per questo che recentemente l’avvocato Giulia Bongiorno, già deputata fino al 2008, ha avanzato una proposta di legge chiamata “Codice rosso”, con l’obiettivo di dare priorità massima a tutte le denunce di violenza in cui vi sia un serio pericolo per l’incolumità della donna. A questo fine, secondo la Bongiorno, è necessario che vi sia un soggetto che si assuma la piena responsabilità del fascicolo contenente la denuncia e che si possa intervenire in tempi certi, affinché la richiesta di aiuto venga considerata nell’immediatezza dei fatti e non sia abbandonata tra infiniti faldoni.