“Nuove frontiere del diritto del lavoro in un sistema di corporate compliance”: l’articolo di Ugo Di Stefano per il Focus Lavoro di TopLegal

Sull’ultimo Focus Lavoro di TopLegal, li commento del nostro Partner Ugo Ettore Di Stefano, un approfondimento sulle attività a presidio dei rischi legali dell’impresa e dei suoi amministratori.

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La Corporate Compliance è quell’insieme di attività organizzate a presidio dei rischi legali dell’impresa (e dei suoi amministratori). La funzione di un buon sistema di compliance è quindi quella di prevenire il mancato rispetto delle normative di settore, consentendo di pianificare le soluzioni più efficaci per farlo. Le disposizioni cui conformarsi sono moltissime. Si pensi alla privacy, alla sicurezza sui posti di lavoro, la sicurezza informatica, l’antiriciclaggio, la tutela dei consumatori, il sistema qualità e certificazioni, i reati presupposto ex d.lgs. 231/01, senza considerare poi ulteriori norme di legge o regolamentari per banche, assicurazioni, finanziarie, telecomunicazioni, etc.
[omissis]

L’articolo completo è disponibile a questo link.

“Il divieto di licenziamento si applica anche al mancato superamento del periodo di prova”: l’articolo di Giulia Camilli per NT Plus Diritto

L’avv. Giulia Camilli, Salary Partner di Lexellent, ha scritto un articolo per NT Plus Diritto – Il Sole 24 Ore dal titolo “Il divieto di licenziamento di applica anche al mancato superamento del periodo di prova“.

All’interno dell’articolo viene commentata la sentenza del Tribunale di Roma del 25 marzo 2021, con la quale si nega la possibilità per il datore di lavoro di cessare il rapporto lavorativo con la sola motivazione del mancato superamento del periodo di prova, in virtù del divieto di licenziamento attualmente previsto dal D.L. n. 18/2020 e dalle successive proroghe.

L’articolo completo è disponibile a questo link.

Licenziamento CEO McDonald’s: Giulietta Bergamaschi intervistata su TGCom24

La notizia del licenziamento di Steve Easterbrook, CEO di McDonald’s “colpevole” di aver violato il codice di condotta dell’azienda per aver intrattenuto una relazione sentimentale – consenziente –  con una dipendente, ha fatto il giro del mondo e sollevato interrogativi etici e giuridici anche nel nostro paese.
Intervistata da TGCom24, la nostra Managing Partner Giulietta Bergamaschi ha spiegato come il problema che le aziende intendono controllare con la sottoscrizione di queste policy interne è il conflitto di interessi nella gestione del personale: evitare situazioni di disequilibrio con ricadute negative per l’organizzazione.
Giulietta Bergamaschi ha sottolineato come in Italia la situazione sia, attualmente, diversa: i codici di condotta delle nostre aziende non sono altrettanto stringenti, si predilige una valutazione caso per caso, che tenga conto del coinvolgimento di aspetti personali (soprattutto quando c’è consensualità).
La multinazionale americana ha gestito la questione con un rigore che non è nuovo oltreoceano, dove i temi dell’etica e della trasparenza superano qualsiasi altra valutazione (anche dei risultati eventualmente portati dal dipendente, come nel caso di Steve Easterbrook).
Giulietta Bergamaschi ha concluso con una valutazione sulla probabilità che, a seguito di questa vicenda, le aziende italiane optino per un irrigidimento delle policy, attualmente più orientate alla gestione delle molestie (“altra faccia della moneta”).
L’intervista è disponibile qui.

Il “whistleblowing” prima e dopo la recente Direttiva UE in argomento

L’ultimo articolo del Prof. Francesco Bacchini sul tema “whistleblowing“, per il numero di novembre di HR Online, periodico dedicato alle Risorse Umane di AIDP.

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La figura del whistleblower (colui che, all’interno del proprio ambito lavorativo, segnala frodi, violazioni, reati, irregolarità) trova tutela, in Italia, nella L. n. 179/2017, efficace nel perimetro applicativo del D.Lgs.n. 231/2001 (che sancisce la responsabilità delle persone giuridiche per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato) e quindi rivolta ai lavoratori nei soli enti:

  • destinatari del predetto Decreto (enti forniti di personalità giuridica, società e associazioni anche prive di personalità giuridica, ai sensi dell’art.1, comma 2);
  • che si siano adeguati al sistema di compliance ivi prescritto (adozione di un modello di organizzazione e gestione e nomina dell’organismo autonomo di vigilanza).

La vigente L. 179/2017 interviene, quindi, a fronte dei soli illeciti (inclusi nell’elenco dei c.d. “reati presupposto”)che possono determinare la responsabilità dell’ente.
L’art. 2 della stessa legge impone infatti che i modelli organizzativi adottati dall’ente prevedano, a tutela del denunciante:

  • specifici canali informativi dedicati alle segnalazioni, di cui almeno uno con modalità informatiche, tali da garantire la riservatezza dell’identità del segnalante;
  • il divieto di atti di ritorsione o di discriminazione nei confronti del segnalante;
  • sanzioni per chi viola le misure di tutela del segnalante nonché di chi effettua con dolo o colpa grave segnalazioni poi rivelatesi infondate;
  • la previsione di una giusta causa di rivelazione di notizie coperte dall’obbligo di segreto di cui agli artt. 326, 622 e 623 c.p. e all’art. 2105 c.c.

Direttamente prevista dalla Legge, a beneficio del whistleblower, è l’espressa nullità (presunta, con conseguente onere di prova contraria in capo al datore):

  • del licenziamento (ritorsivo o discriminatorio);
  • del demansionamento;
  • di qualsiasi misura ritorsiva o discriminatoria per motivi collegati direttamente o indirettamente alla segnalazione.

Da tutto quanto sopra emerge, quindi, come la protezione del whistleblower sia oggi parziale e non generale, in quanto prevista solo in relazione ai reati presupposto del d.lgs. n. 231/2001 e comunque rimessa alla discrezionalità dell’ente, il quale trasporrà nel proprio modello organizzativo i mezzi di tutela ritenuti più adeguati in favore del segnalante.
I margini di tutela così tracciati dalla normativa nazionale saranno sensibilmente ampliati grazie alla Direttiva approvata lo scorso 7 ottobre dal Consiglio dell’Unione Europea (da recepirsi entro il 2021), che interviene in favore dei soggetti che denuncino, in imprese private con almeno 50 dipendenti, trasgressioni del diritto eurounitario vigente in settori quali: appalti pubblici, sicurezza dei prodotti, servizi e mercati finanziari, riciclaggio, finanziamento del terrorismo, ambiente, sicurezza degli alimenti, etc…
Tra i “segnalanti” la Direttiva contempla non solo i lavoratori “in senso ampio” (dipendenti, anche pubblici, lavoratori autonomi – quali consulenti o freelance -, volontari, tirocinanti retribuiti e non, soggetti sottoposti alla supervisione e la direzione di appaltatori, subappaltatori e fornitori), ma pure azionisti e titolari di cariche (anche non esecutive) in impresa, oltre a soggetti il cui rapporto lavorativo non sia iniziato (e che siano venuti a conoscenza di violazioni in fase precontrattuale) o sia già concluso, e ancora, i facilitatori e i terzi che assistono l’informatore (ad esempio, colleghi o parenti potenzialmente esposti a ritorsioni sul lavoro).
Sotto il profilo procedurale, il segnalante disporrà di due canali di denuncia (il primo, interno all’azienda, da preferire, il secondo esterno) che, nel rispetto dei requisiti dettati dalla Direttiva, devono assicurare, anzitutto, la riservatezza del segnalante, nonché la tempestività e la trasparenza dell’intera procedura.
La Direttiva tutela inoltre l’informatore (purché quest’ultimo abbia effettuato la denuncia mediante i suddetti canali e sulla base di notizie fondatamente ritenute vere all’atto della segnalazione) con:

  1. divieto di misure ritorsive (tra cui l’art. 19 contempla, in un elenco molto dettagliato: licenziamento, retrocessione di grado, mancata promozione, mutamento di funzioni, cambiamento di luogo o di orario di lavoro, etc…)
  2. misure di sostegno e protezione (artt. 20 e 21):garanzie sul piano informativo, patrocinio gratuito a spese dello Stato, supporto psicologico, integralità del risarcimento dei danni, esonero di responsabilità per lecita acquisizione di dati strumentali alla denuncia;

Tra le misure protettive per le “persone coinvolte” (i denunciati quali responsabili della violazione o i soggetti a questi ultimi collegati) troviamo, invece: il diritto di ricorso ad un giudice imparziale, la presunzione di innocenza, il diritto di difesa, di essere sentito e di accesso al fascicolo, la riservatezza durante le indagini (art. 22).
In ultima analisi, è evidente che il recepimento della Direttiva nel sistema italiano comporterà un significativo passo in avanti verso la tutela del whistleblower, che dovrà operare a livello generale e, quindi, ben al di là di quanto previsto nei modelli di organizzazione e gestione di cui al D. Lgs. 231/2001.
L’articolo è disponibile anche qui in formato PDF

Consentire il pernottamento ad estranei nei locali aziendali è giusta causa di licenziamento

Pubblichiamo di seguito l’abstract dell’approfondimento di Valentina Messana per Il Quotidiano Giuridico di Wolters Kluwer, sul tema del licenziamento per aver consentito ad un estraneo il pernottamento nei locali aziendali.
L’articolo completo è disponibile per gli abbonati a questo link.
Il commento ha ad oggetto la Sentenza della Corte di Cassazione n. 13420 del 2019 che ha confermato la pronuncia n. 732/2017 della Corte d’ Appello di Palermo. I giudici siciliani, decidendo su rinvio da Cassazione n. 2821 del 217, avevano rigettato il ricorso di un lavoratore licenziato per aver consentito il pernottamento in locali aziendali, ormai in disuso, a persona estranea alla società. La Sentenza in commento, di carattere squisitamente processualistico, non conduce ad alcun ribaltamento del principio di diritto sostanziale affermato all’esito del giudizio di appello. L’intento umanitario e caritatevole non può costituire scriminante risultando la condotta del lavoratore particolarmente grave per il pregiudizio e le responsabilità cui la società è stata esposta.

Condotte extralavorative e lesione del rapporto fiduciario con il datore di lavoro – Diritto 24

Pubblichiamo di seguito l’articolo a firma dell’avv. Chiara D’Angelo per Diritto24, sul tema delle condotte extralavorative che possono causare il venir meno, da parte del datore di lavoro, della fiducia nel dipendente e la conseguente interruzione del rapporto di collaborazione
Con due recenti decisioni (ordinanza n. 4804/2019, pubblicata il 19 febbraio e sentenza n. 8027/2019, pubblicata il 21 marzo) la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi (favorevolmente) sulla legittimità del licenziamento intimato a fronte di condotte assunte dal dipendente in sede extralavorativa.
Il tema in oggetto, piuttosto ricorrente e diversamente risolto nella casistica giurisprudenziale, può essere analizzato muovendo da alcune brevi osservazioni in ordine alla natura del rapporto di lavoro.
Secondo un’opinione generalmente condivisa, quest’ultimo trae origine dall’ intuitus personae, inteso come il complesso delle qualità personali ravvisate in capo ad entrambe le parti contraenti.
Tale circostanza, letta insieme al generale obbligo di buona fede imposto dall’art. 1375 c.c., evidenzia la necessità di delimitare l’esatto oggetto della prestazione lavorativa, nonché, conseguentemente, i precisi limiti entro cui l’imprenditore può riporre legittimo affidamento circa l’operato della controparte; interrogativi, questi, da riferirsi all’intero corso dell’esecuzione contrattuale, posto che il rapporto di lavoro, trovando fonte in un contratto c.d. “di durata”, si dipana lungo un consistente lasso temporale, non esaurendosi in un solo atto.
In altri termini, occorre comprendere non soltanto “cosa”, ma anche “fin quando” l’imprenditore possa pretendere dal proprio dipendente, soprattutto nell’eventuale ottica di recesso dal rapporto lavorativo.
Le questioni appena sollevate trovano possibile riscontro in una pronuncia dei Giudici di legittimità, con cui è stato affermato che poiché il rapporto di lavoro, per l’oggetto della prestazione (attività di collaborazione) e per la sua protrazione nel tempo, è fondato sulla fiducia, questa essendo fattore che nella protrazione deve pur tacitamente permanere, come condiziona, con la propria esistenza, l’affermazione del rapporto, in egual modo ne condiziona, con la propria cessazione, la negazione (Cass., sez. lav., 21 novembre 2000, n. 15004).
Dal principio così espresso si desume che, ai fini del mantenimento del rapporto, il prestatore è tenuto, durante l’intera esecuzione del contratto, a fornire costante “conferma” della fiducia in lui riposta all’atto della contrazione del vincolo; con l’inevitabile conseguenza che lo svanire dell’intuitus personae può determinare, nei casi di estrema gravità, il legittimo licenziamento da parte del datore.
In tale prospettiva, diventa quindi necessario individuare quei comportamenti che possono comportare la cessazione del rapporto per lesione dell’affidamento datoriale.
Ebbene, ai fini appena esposti, nessun dubbio pare possa avanzarsi rispetto al fatto integrante, in senso tecnico, inadempimento imputabile al lavoratore; con ogni certezza, infatti, la violazione degli obblighi contrattuali nell’espletamento della mansione può legittimamente sollecitare il potere sanzionatorio del datore di lavoro.
Perplessità si pongono, invece, in ordine alla rilevanza delle condotte extralavorative ai fini disciplinari; questione risolta positivamente nelle due decisioni qui segnalate.
La prima di queste (ordinanza n. 4804/2019), trae origine dal licenziamento intimato dalla società ad un dipendente sottoposto a procedimento penale per acquisto ed illecita detenzione di un’ingente quantità di stupefacenti; condotta sussumibile nella nozione di “giusta causa” perché, oltre ad avere rilievo penale, è contraria alle norme dell’etica e del vivere civile comuni e, dunque, ha un riflesso, anche solo potenziale ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto di lavoro (cfr. pag. 3).
A conclusioni analoghe perviene la seconda pronuncia (sentenza n. 8027/2019), vertente sul caso di un lavoratore licenziato perché autore di una condotta (apertura delle bombole del gas nella sua abitazione, chiamata delle forze dell’ordine, minaccia di far esplodere la palazzina, aggressione degli agenti di polizia intervenuti) che il giudice d’appello ha reputato, anche in rapporto alle mansioni del dipendente (addetto alla sicurezza delle infrastrutture), talmente grave da implicare una giusta causa del licenziamento per aver definitivamente incrinato il vincolo fiduciario (cfr. pag. 1).
Nello specifico, si ritiene che le condotte accertate (denotando scarsa inclinazione all’attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza) giustifichino il licenziamento perché sintomatiche dell’inattitudine del lavoratore ad eseguire responsabilmente le mansioni assegnategli, con conseguenti rischi per l’intero gruppo di lavoro (in ipotesi, costretto a gestire le probabili instabilità future del collega) e, più in generale, per l’efficienza complessiva dell’azienda.
Le due statuizioni segnalate, in ultima analisi, si pongono in linea con quel filon giurisprudenziale (v. per tutte sent. Cass. n. 24023/2016) secondo cui il lavoratore è tenuto non soltanto, in via principale, ad eseguire la prestazione dedotta in contratto, ma anche all’obbligo secondario di tenere, al di là del luogo e dell’orario di lavoro, comportamenti non lesivi della fiducia del datore o delle potenzialità produttive dell’impresa.
Conseguentemente, alla stregua dell’orientamento richiamato, è ben possibile che l’imprenditore licenzi un dipendente in ragione del contegno moralmente riprovevole da questi assunto nella propria sfera privata.
Ciò posto in via teorica, è tuttavia necessario, ai fini della legittimità della massima sanzione disciplinare per giusta causa, che il provvedimento sia concretamente proporzionale all’entità dei fatti accertati, alla luce sia della loro gravità oggettiva (desumibile anche da eventuali elementi circostanziali, ma non scaturente in via automatica dalla rilevanza penale della condotta), sia dell’intensità del coefficiente volitivo in capo al soggetto agente.

La ciclista sfortunata: paralleli nel diritto del lavoro.

La recente vicenda della ciclista che ha mostrato il dito (“flipped the bird”) al presidente Trump, ha avuto interessanti sviluppi sul piano lavorativo. La ciclista infatti è stata licenziata dal datore di lavoro in base alla considerazione che aveva pubblicato oscenità sui social media e ciò contravvenendo alle precise policy aziendali in vigore, il cui controllo, ironia della sorte, rientrava fra i compiti della lavoratrice. Inoltre, ha sostenuto l’azienda, la foto avrebbe potuto mettere a repentaglio la propria reputazione, nonostante non vi fosse alcun elemento, sul profilo della lavoratrice, che potesse creare una correlazione con il datore di lavoro. Il cui nome, come prevedibile, è uscito sulle prime pagine di tutti i giornali solo dopo, e a causa, del licenziamento.
La questione è ovviamente molto interessante e potrebbe tranquillamente essere esportata nel nostro ordinamento: sarebbe legittimo un licenziamento di questo tipo in Italia? La risposta sarebbe molto probabilmente negativa a meno che l’azienda non abbia una chiara policy sull’uso dei social media che vieti comportamenti di questo tipo, ma in ogni caso la mancanza di correlazione fra dipendente ed azienda potrebbe comunque renderla inutile. Inoltre il lavoratore potrebbe invocare il diritto di critica e di espressione delle proprie idee politiche, in ciò ben supportato dalla Costituzione.
E’ interessante notare come il principio della libertà di opinione non costituisca una protezione negli Usa, a differenza di quello che comunemente si crede. Infatti il primo emendamento della Costituzione americana («Il Congresso non promulgherà leggi …che limitino la libertà di parola, o di stampa; o il diritto delle persone di riunirsi pacificamente in assemblea ….») esclude la punibilità per aver espresso la propria opinione, ma la garanzia non si estende al settore privato. Con la conseguenza che un imprenditore può licenziare quale reazione a espressioni del pensiero non gradite. Il principio per cui “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione (art 21 Costituzione Italiana) non si applica quindi nelle aziende del paese più libero del mondo.
Alternativamente il lavoratore potrebbe sostenere che il gesto, certo non educato, non costituisce un’oscenità che possa portare al licenziamento, in un contesto, come quello italiano, dove vige una considerevole libertà di linguaggio. Ciò specie laddove comportamenti o linguaggi simili avessero trovato nel passato una tacita approvazione o non fossero stati contrastati dall’imprenditore, ad esempio con provvedimenti disciplinari o altre idonee misure. E si tratta proprio di una delle obiezioni sollevate dalla sfortunata ciclista: in passato un manager delle società aveva pubblicato espressioni come “fuxx…bastxxx” senza per questo essere licenziato, nonostante dal profilo Facebook fosse possibile identificarlo come dipendente dell’azienda.
A Ms Briskman resta però aperta anche che la strada della discriminazione: la policy che ha portato al suo licenziamento può essere considerata equa da un punto di vista dell’etnia, della religione, del genere? E in ogni caso, ne è stata data un’applicazione neutra e non discriminatoria? Se la risposta fosse negativa il licenziamento sarebbe illegittimo con conseguente liquidazione dei danni a favore della lavoratrice.

Perché anche per le aziende sarebbe importante ricordare il 25 novembre e sapere quali sono le conseguenze dei comportamenti discriminatori vietati. Violenze sessuali e molestie sul lavoro: i punti da chiarire.

Il 25 novembre è la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne ed è auspicabile che tutte le aziende organizzino eventi di sensibilizzazione sul tema perché si tratta di un fenomeno che riguarda tutti. La giornata lavorativa assorbe gran parte della vita quotidiana di ognuno e l’azienda può svolgere un ruolo educativo fondamentale, arrivando a cambiare la società.


Gli atti di violenza sessuale e le molestie sul lavoro devono essere tenuti ben distinti dagli episodi di mobbing; inoltre, è necessario distinguere i comportamenti che generano responsabilità penale, civile o sono invece censurabili solo sul piano morale.


Sul piano della responsabilità penale, commette il reato di violenza sessuale chi costringe un’altra persona a compiere o subire atti sessuali con violenza, minaccia, abuso di autorità o delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto, o ancora, ingannando la persona offesa perché il colpevole si sostituisce ad altri. La pena è la reclusione da cinque a dieci anni.


Integra, invece, il reato di molestia chi reca a un’altra persona molestia o disturbo, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero per telefono, con insistenza o per altro motivo condannabile. La pena è l’arresto fino a sei mesi o l’ammenda fino a 516 euro. Considerata la poca incisività di questa contravvenzione, è compito dei giudici ricondurre i casi concreti all’ipotesi incriminatrice della violenza sessuale o delle molestie.


Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, sezione penale, integra il reato di violenza sessuale e non quello di molestia chi tocca in modo non casuale i glutei della dipendente, ancorché sopra i vestiti. Si configura, invece, il reato delle molestie solo in presenza di espressioni verbali a sfondo sessuale o di atti di corteggiamento invasivo e insistente diversi dall’abuso sessuale.


Sotto il profilo civilistico, il Codice delle Pari Opportunità definisce le molestie e le molestie sessuali comportamenti indesiderati, posti in essere con lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo. Le prime sono compiute per ragioni legate al sesso, mentre le seconde hanno una connotazione sessuale e si esprimono in forma fisica, verbale o non verbale.


In ambito di diritto antidiscriminatorio, al lavoratore o alla lavoratrice che subisce molestie o molestie sessuali è riconosciuta la facoltà di ricorrere al Giudice del lavoro (del luogo dove è avvenuto il fatto denunciato) che, nei due giorni successivi, convocate le parti e raccolte informazioni sommarie, se ritiene sussistente la violazione, ordina all’autore del comportamento denunciato la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale (nei limiti della prova fornita).


Le aziende possono adottare policy antidiscriminatorie e contro le violenze sessuali e le molestie per disincentivare il compimento di atti discriminatori o reati. Inoltre, le stesse possono istituire procedure di denuncia predeterminate, agevolando così le segnalazioni di comportamenti discriminatori, di violenza sessuale e di molestie.


Anche il Legislatore mantiene alta l’attenzione in materia, tanto è vero che ha appena introdotto forme di tutela per coloro che denunciano, anche questa tipologia di condotte illecite, approvando lo scorso 15 novembre la legge “Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato”. Ogni azienda dovrà, dunque, aggiornare i modelli di organizzazione e gestione di cui alla legge n. 231 del 2001.

Ciclista americana licenziata per il dito medio a Trump. In Italia decisione probabilmente non legittima.

La recente vicenda della ciclista che ha mostrato il dito (“flipped the bird”) al presidente Trump, ha avuto interessanti sviluppi sul piano lavorativo. La ciclista, infatti, è stata licenziata dal datore di lavoro in base alla considerazione che aveva pubblicato oscenità sui social media e ciò contravvenendo alle precise policy aziendali in vigore, il cui controllo, ironia della sorte, rientrava fra i compiti della lavoratrice. Inoltre, ha sostenuto l’azienda, la foto avrebbe potuto mettere a repentaglio la propria reputazione, nonostante non vi fosse alcun elemento, sul profilo della lavoratrice, che potesse creare una correlazione con il datore di lavoro. Il cui nome, come prevedibile, è uscito sulle prime pagine di tutti i giornali solo dopo, e a causa, del licenziamento.

La questione è ovviamente molto interessante e potrebbe tranquillamente essere esportata nel nostro ordinamento: sarebbe legittimo un licenziamento di questo tipo in Italia? La risposta sarebbe molto probabilmente negativa a meno che l’azienda non abbia un achiara policy sull’uso dei social media che vieti comportamenti di questo tipo, ma in ogni caso la mancanza di correlazione fra dipendente ed azienda potrebbe comunque renderla inutile. Inoltre il lavoratore potrebbe invocare il diritto di critica e di espressione delle proprie idee politiche, in ciò ben supportato dalla Costituzione.

E’ interessante notare come il principio della libertà di opinione non costituisca una protezione negli Usa, a differenza di quello che comunemente si crede.

Infatti il primo emendamento della Costituzione americana («Il Congresso non promulgherà leggi …che limitino la libertà di parola, o di stampa; o il diritto delle persone di riunirsi pacificamente in assemblea ….») esclude la punibilità per aver espresso la propria opinione, ma la garanzia non si estende al settore privato. Con la conseguenza che un imprenditore può licenziare quale reazione a espressioni del pensiero non gradite. Il principio per cui “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione (art 21 Costituzione Italiana) non si applica quindi nelle aziende del paese più libero del mondo.

Alternativamente il lavoratore potrebbe sostenere che il gesto, certo non educato, non costituisce un’oscenità che possa portare al licenziamento, in un contesto, come quello italiano, dove vige una considerevole libertà di linguaggio. Ciò specie laddove comportamenti o linguaggi simili avessero trovato nel passato una tacita approvazione o non fossero stati contrastati dall’imprenditore, ad esempio con provvedimenti disciplinari o altre idonee misure.

E si tratta proprio di una delle obiezioni sollevate dalla sfortunata ciclista: in passato un manager delle società aveva pubblicato espressioni come “fuxx…bastxxx” senza per questo essere licenziato, nonostante dal profilo Facebook fosse possibile identificarlo come dipendente dell’azienda.

A Ms Briskman resta però aperta anche che la strada della discriminazione: la policy che ha portato al suo licenziamento può essere considerata equa da un punto di vista dell’etnia, della religione, del genere?

E in ogni caso, ne è stata data un’applicazione neutra e non discriminatoria? Se la risposta fosse negativa il licenziamento sarebbe illegittimo con conseguente liquidazione dei danni a favore della lavoratrice.

La ciclista sfortunata: paralleli nel diritto del lavoro.

La recente vicenda della ciclista che ha mostrato il dito (“flipped the bird”) al presidente Trump, ha avuto interessanti sviluppi sul piano lavorativo. La ciclista infatti è stata licenziata dal datore di lavoro in base alla considerazione che aveva pubblicato oscenità sui social media e ciò contravvenendo alle precise policy aziendali in vigore, il cui controllo, ironia della sorte, rientrava fra i compiti della lavoratrice.

Inoltre, ha sostenuto l’azienda, la foto avrebbe potuto mettere a repentaglio la propria reputazione, nonostante non vi fosse alcun elemento, sul profilo della lavoratrice, che potesse creare una correlazione con il datore di lavoro. Il cui nome, come prevedibile, è uscito sulle prime pagine di tutti i giornali solo dopo, e a causa, del licenziamento.

La questione è ovviamente molto interessante e potrebbe tranquillamente essere esportata nel nostro ordinamento: sarebbe legittimo un licenziamento di questo tipo in Italia? La risposta sarebbe molto probabilmente negativa a meno che l’azienda non abbia una chiara policy sull’uso dei social media che vieti comportamenti di questo tipo, ma in ogni caso la mancanza di correlazione fra dipendente ed azienda potrebbe comunque renderla inutile. Inoltre il lavoratore potrebbe invocare il diritto di critica e di espressione delle proprie idee politiche, in ciò ben supportato dalla Costituzione.

E’ interessante notare come il principio della libertà di opinione non costituisca una protezione negli Usa, a differenza di quello che comunemente si crede.

Infatti il primo emendamento della Costituzione americana («Il Congresso non promulgherà leggi …che limitino la libertà di parola, o di stampa; o il diritto delle persone di riunirsi pacificamente in assemblea ….») esclude la punibilità per aver espresso la propria opinione, ma la garanzia non si estende al settore privato. Con la conseguenza che un imprenditore può licenziare quale reazione a espressioni del pensiero non gradite. Il principio per cui “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione (art 21 Costituzione Italiana) non si applica quindi nelle aziende del paese più libero del mondo.

Alternativamente il lavoratore potrebbe sostenere che il gesto, certo non educato, non costituisce un’oscenità che possa portare al licenziamento, in un contesto, come quello italiano, dove vige una considerevole libertà di linguaggio. Ciò specie laddove comportamenti o linguaggi simili avessero trovato nel passato una tacita approvazione o non fossero stati contrastati dall’imprenditore, ad esempio con provvedimenti disciplinari o altre idonee misure.

E si tratta proprio di una delle obiezioni sollevate dalla sfortunata ciclista: in passato un manager delle società aveva pubblicato espressioni come “fuxx…bastxxx” senza per questo essere licenziato, nonostante dal profilo Facebook fosse possibile identificarlo come dipendente dell’azienda.

A Ms Briskman resta però aperta anche che la strada della discriminazione: la policy che ha portato al suo licenziamento può essere considerata equa da un punto di vista dell’etnia, della religione, del genere?

E in ogni caso, ne è stata data un’applicazione neutra e non discriminatoria? Se la risposta fosse negativa il licenziamento sarebbe illegittimo con conseguente liquidazione dei danni a favore della lavoratrice.

Un trapianto può salvarti la vita, ma non sempre il posto di lavoro.

E’ quanto è accaduto in questi giorni a Torino, dove un operaio, rientrato in fabbrica dopo aver subito un trapianto di fegato, si è visto recapitare una lettera di licenziamento per inidoneità alla mansione specifica. In buona sostanza, le sue condizioni di salute non gli consentono di continuare a svolgere le sue normali mansioni.
Stando a quanto si legge nei quotidiani, all’operaio non sarebbe stata offerta alcuna alternativa rispetto al licenziamento, mentre questi avrebbe accettato anche di essere demansionato.
Se ciò è vero, il licenziamento potrebbe essere dichiarato illeggitimo (sempre che venga accertata in giudizio la presenza in azienda di altre mansioni, anche inferiori, che avrebbero potuto essere assegnate all’operaio).
L’art. 42 D.L. 81/2008, in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro, prevede espressamente la possibilità che il datore di lavoro possa demansionare il lavoratore nel caso in cui questi non sia più in grado di svolgere le mansioni per le quali era stato assunto e nell’azienda non vi siano disponibili mansione equivalenti. In tal senso si è espressa più volte la Corte di Cassazione (da ultimo si veda la sentenza n. 2008 del 26.01.2017). Prima di comunicare il licenziamento, dunque, il datore di lavoro deve effettuare una mappatura delle eventuali posizioni lavorative vacanti in azienda ed offrire al dipendente, meglio se fatto per iscritto, delle alternative al licenziamento (ove ve ne siano).
Una buona sintesi del comportamento da seguire in tali situazioni è offerta dalla seguente massima della Corte di Cassazione (n. 10018 del 16/05/2016):
In tema di licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica alle mansioni, se l’impossibilità del reimpiego, anche in mansioni inferiori, è condizione necessaria per legittimare l’esercizio del potere di recesso, è onere del soggetto che quel potere si appresta ad esercitare (ovvero il datore di lavoro, ndr) provare che ne sussistano i presupposti e, quindi, prospettare al lavoratore la scelta fra l’accettazione del demansionamento e la risoluzione del rapporto di lavoro. Ne deriva che, ove siano disponibili posizioni lavorative dequalificanti, il licenziamento è reso illegittimo dalla mancanza del consenso del lavoratore all’offerta del datore, il quale non è esonerato dall’obbligo di ricercare soluzioni alternative, eventualmente comportanti il demansionamento, per il solo fatto che il lavoratore non gli abbia, di sua iniziativa, manifestato la disponibilità ad andare a ricoprire mansioni inferiori compatibili con il suo stato di salute“.
In conclusione, solo laddove il dipendente rifiuti le nuove mansioni (e l’eventuale demansionamento), si può procedere al licenziamento.

Licenziamento: il giustificato motivo oggettivo e le indennità previste in favore del lavoratore.

Che cosa succede nel caso in cui il licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia dichiarato illegittimo? Quanto deve pagare il datore di lavoro?
È opportuno distinguere tra lavoratori assunti con il contratto a tutele crescenti (dall’8 marzo 2015) e quelli assunti fino al 7 marzo 2015.
Il D.lgs n. 23/2015 che ha introdotto il contratto a tutele crescenti interviene sulla tutela in caso di licenziamento illegittimo. Emerge, in particolare, la volontà di preservare il più possibile dall’ingerenza del giudice la scelta economico-organizzativa del datore di lavoro: infatti, per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 viene esclusa la possibilità di reintegrazione nel posto di lavoro.
Il regime sanzionatorio previsto consiste quindi esclusivamente in un’indennità, il cui ammontare varia a seconda dell’anzianità aziendale e del numero dei dipendenti occupati in azienda.
Nel caso in cui il datore di lavoro abbia alle proprie dipendenze più di 15 dipendenti nell’unità produttiva nella quale è occupato il lavoratore licenziato oppure nell’ambito dello stesso comune, o in ogni caso più di 60 lavoratori globalmente, l’indennità sarà di importo pari a 2 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 4 e non superiore a 24 mensilità. Laddove invece il datore di lavoro non raggiunga tali requisiti dimensionali, l’importo sarà compreso tra 2 e 6 mensilità.
Si tratta dunque di una tutela per equivalente monetario che lascia sostanzialmente impregiudicato l’effetto estintivo del licenziamento, seppur dichiarato illegittimo, preservando così la scelta datoriale sottostante al licenziamento.
È evidente che il D.lgs. 23/2015 ha restituito alla sfera di pertinenza esclusiva del datore di lavoro la valutazione dei presupposti sostanziali alla base del recesso, in quanto il licenziamento rimane efficace indipendentemente da ogni possibile censura sulla sua legittimità.
Diverso è invece il regime sanzionatorio in caso di licenziamento ritenuto illegittimo per i lavoratori assunti prima dell’entrata in vigore del contratto a tutele crescenti, cioè prima del 7 marzo 2015.
In questo caso, se il datore di lavoro raggiunge i requisiti dimensionali sopra indicati e cioè occupa più di 15 dipendenti, troveranno applicazione le conseguenze sanzionatorie previste dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
Qui rimangono margini di incertezza dell’esito del giudizio sulla legittimità del licenziamento, a seconda che:
(i) venga riscontrata la “manifesta insussistenza del fatto materiale posto alla base del licenziamento”, sanzionata con la reintegrazione sul posto di lavoro, oppure
(ii) che non sussistano gli “estremi del giustificato motivo oggettivo” per cui è prevista esclusivamente la tutela indennitaria, graduabile dal giudice tra 12 e 24 mensilità.
Nella prima ipotesi, e cioè nel caso in cui il fatto sia manifestamente infondato, il giudice può ordinare la reintegrazione del lavoratore e condannare il datore di lavoro al pagamento del risarcimento del danno corrispondente a una indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, oltre al versamento dei contributi previdenziali, dedotto sia (i) ciò che il lavoratore ha effettivamente percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, sia (ii) ciò che lo stesso avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. Viene fissato comunque un limite massimo per il risarcimento, pari a 12 mensilità della retribuzione globale di fatto.
Nel secondo caso, laddove non sussistano gli estremi del giustificato motivo oggettivo, la tutela prevista è di tipo esclusivamente indennitario ed è determinata tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all’anzianità di servizio e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti.
Non ci facciamo mancare niente e nell’ipotesi in cui il licenziamento risulti illegittimo per carenza di motivazione o per inosservanza degli obblighi procedurali previsti per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il giudice condanna il datore di lavoro al pagamento di un indennità compresa tra le 6 e le 12 mensilità della retribuzione globale di fatto, da valutarsi in relazione alla gravità della violazione commessa.
Per quei datori di lavoro che occupano alle loro dipendenze fino a 15 lavoratori, si applica invece la tutela obbligatoria prevista dall’art. 8 della legge 604/1966.
Quando il giudice rileva che non ricorrono gli estremi del licenziamento, il datore di lavoro può scegliere se riassumere il lavoratore entro 3 giorni oppure risarcire il danno, corrispondendo un’indennità di importo compreso tra 2,5 e 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Licenziamento: il giustificato motivo oggettivo e l’obbligo di repêchage.

Il lavoratore che impugna il licenziamento per motivo oggettivo fa sorgere in capo al datore di lavoro l’obbligo di provare in giudizio:

  1. l’effettività delle esigenze aziendali indicate nella motivazione del licenziamento, e dunque, la coerenza tra ciò che è stato scritto e ciò che è stato effettivamente realizzato;
  2. il nesso di causalità tra queste esigenze e il licenziamento di quel determinato lavoratore;
  3. l’inevitabilità del licenziamento, ovvero l’impossibilità di una ricollocazione del dipendente in azienda.

Quest’ultimo requisito è definito come obbligo di repêchage, inteso come l’impossibilità di utilizzare il lavoratore in mansioni diverse ma in ogni caso compatibili con la sua professionalità.
Il datore di lavoro deve quindi dar prova di (i) non poter adibire il lavoratore a mansioni analoghe a quelle da ultimo svolte o (ii) a mansioni diverse e comprese nel medesimo livello di inquadramento oppure (iii) mansioni di livello inferiore.
Nell’ipotesi in cui le mansioni, sebbene inquadrate nello stesso livello, richiedano una formazione del lavoratore, queste devono essere escluse dal repêchage, in quanto non esiste in capo al datore di lavoro alcun obbligo di fornire al lavoratore una ulteriore e diversa formazione al fine di preservare il suo posto di lavoro.
Mentre, laddove il datore di lavoro decida di assegnare il lavoratore, in alternativa al licenziamento, a mansioni inferiori, dovrà individuare la posizione fungibile all’interno di quelle comunque fungibili con le competenze professionali acquisite dal lavoratore nel corso della sua attività lavorativa.
In ogni caso, deve trattarsi di mansioni coerenti con il bagaglio professionale posseduto dal lavoratore al momento del licenziamento.
Infatti, l’obbligo di repêchage non può in ogni caso tradursi per il datore di lavoro in uno sforzo di adattamento dell’organizzazione e neppure in un aggravio sotto forma di investimento formativo al fine di adeguare le competenze del lavoratore alle nuove mansioni.
Rientrano invece nell’obbligo di repêchage tutte quelle mansioni che il lavoratore è in grado di svolgere utilizzando le sue attitudini e la formazione da lui acquisita fino al momento del licenziamento, vale a dire mansioni fungibili con il proprio bagaglio professionale.
Laddove poi la mansione a cui il lavoratore venga assegnato in luogo del licenziamento sia inferiore rispetto a quella precedentemente svolta, occorre fare una precisazione con riferimento alla disciplina introdotta con la riforma dell’art. 2103 c.c. (Mansioni del Lavoratore) che, in caso di esercizio del potere datoriale, detta alcune condizioni e limiti riguardo alla possibilità di adibire il lavoratore a mansioni inferiori. In particolare, l’articolo prevede il diritto del lavoratore alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo di cui gode prima della diversa assegnazione.
È però evidente che, in un’ipotesi di licenziamento economico, sarebbe del tutto irragionevole addossare al datore di lavoro un obbligo di repêchage su mansioni inferiori mantenendo la medesima retribuzione, e dunque il maggior costo retributivo delle mansioni superiori svolte in precedenza. Per tale motivo, si ritiene che l’applicazione dell’art. 2103 c.c. non possa essere estesa al caso in cui vengano offerte al lavoratore delle mansioni inferiori, nel contesto di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Licenziamento: il giustificato motivo oggettivo e le diverse procedure da seguire.

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo consente al datore di lavoro di risolvere legittimamente il rapporto di lavoro quando sussistano “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa”.
Presupposti di legittimità del licenziamento sono quindi costituiti (i) dalla effettività e obiettività delle ragioni aziendali addotte a giustificazione del recesso, sì da doversene escludere il carattere pretestuoso od occasionale, e (ii) dalla esistenza di un nesso causale tra le ragioni e il provvedimento datoriale.
Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento, dunque, ricorre sia quando venga modificata la componente materiale dell’organizzazione, come nell’ipotesi tipica in cui le mansioni del dipendente siano soppiantate o ridotte dall’introduzione di nuovi macchinari, sia quando la modifica investa la sola organizzazione del personale, con la soppressione delle attività svolte dal dipendente licenziato, con lo scorporo verso l’esterno dei suoi compiti in conseguenza della stipulazione di contratti di lavoro autonomo o di appalto, ovvero ancora con la ridistribuzione delle sue mansioni fra il restante personale in servizio.
Per i lavoratori assunti prima dell’introduzione del contratto a tutele crescenti, il datore di lavoro, che abbia alle sue dipendenze più di 15 lavoratori nella stessa unità produttiva o nello stesso comune o comunque più di 60 complessivamente, deve seguire una procedura specifica.
Infatti, prima di formalizzare il recesso dal contratto di lavoro, si deve inviare al lavoratore e alla Direzione territoriale del lavoro (DTL) del luogo dove il lavoratore presta la sua attività una comunicazione che deve contenere:

  • l’intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo;
  • gli specifici motivi alla base del licenziamento;
  • le eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore interessato.

Entro 7 giorni dalla ricezione della comunicazione, la DTL convoca il datore di lavoro e il lavoratore per un incontro volto alla conciliazione. Se non si è raggiunto un accordo trascorsi 20 giorni o trascorso il più lungo periodo concordato tra le parti o il periodo di sospensione dovuto a legittimo e documentato impedimento del lavoratore, il datore di lavoro potrà comunicare il licenziamento al lavoratore e dovrà farlo in forma scritta con la specifica indicazione dei motivi che lo hanno determinato.
La procedura descritta non si applica ai datori di lavoro che occupano fino a 15 dipendenti e, in ogni caso, nei confronti dei lavoratori assunti con contratto a tutele crescenti: in questi casi, è sufficiente un’unica lettera con cui il datore di lavoro comunica il licenziamento al lavoratore.
A prescindere dal tipo di procedura da seguire, è utile individuare gli aspetti sui quali è fondamentale prestate attenzione nella preparazione della lettera di licenziamento:

  1. descrivere la posizione occupata dal lavoratore e le mansioni effettivamente svolte;
  2. evidenziare i motivi di carattere economico o tecnico o organizzativo o produttivo posti alla base del licenziamento
  3. spiegare come essi impattano sulla posizione occupata e le mansioni svolte dal lavoratore.
  4. dare atto dell’impossibilità di ricollocare il lavoratore in azienda in una diversa posizione, anche di livello inferiore rispetto al suo inquadramento contrattuale.

RINNOVATO IL CCNL DIRIGENTI COMMERCIO.

Giovedì 21 luglio è stato rinnovato il contratto dei dirigenti del settore commercio. Come già avvenuto per i dirigenti industriali sono state introdotte importanti novità  in tema di licenziamento. In aggiunta modifiche sono state apportate al regime del comporto, a quello della formazione professionale, dell’outplacement e della contribuzione per i fondi integrativi previdenziali.
Il regime della risoluzione del rapporto di lavoro cambierà in modo significativo dal prossimo primo settembre , con la sostanziale riduzione delle tutele previste per i dirigenti. Vediamo il dettaglio.
Il periodo di preavviso resta immutato con gli scaglioni 6, 8, 10 e 12 mesi di preavviso che però adesso scattano dopo quattro, dieci (prima erano otto) quindici anni (prima erano dodici) di anzianità di servizio. Resta fermo il preavviso ridotto in caso di raggiungimento dell’età per il conseguimento della pensione di vecchiaia (trenta giorni di preavviso “integrato dalle mensilità eventualmente necessarie per conseguire l’effettivo accesso al trattamento pensionistico”)
Completamente riscritta la parte relativa alla indennità in caso di licenziamento illegittimo. Il sistema prevede ora 5 scaglioni così organizzati

Fino a 4 anni di anzianità Da 4 a 8 mesi
Fino a 6 anni Da 6 a 12 mesi
Fino a 10 anni Da 8 a 14 mesi
Fino a 15 anni Da 10 a 16 mesi
Oltre 15 anni Da 12 a 18

 
Come si vede una profonda revisione che va nel senso di una riduzione delle indennità per tutti i dipendenti che abbiano una anzianità inferiore ai 15 anni, per i quali il sistema non muta rispetto al passato.
Non solo ma è stata anche rivista la parte relativa alla indennità aggiuntiva dovuta per effetto del requisito anagrafico, che intanto scatterà non più dopo 10, ma bensì dopo 12 anni di servizio, e che viene fissata in 4 mesi per chi ha fra i 50 e 55 anni e in 5 mensilità per chi ha tra 56 e 61 anni.
La indennità supplettiva inoltre non verrà più calcolata tenendo conto del rateo ferie e festività, con una riduzione quindi di oltre il sei per cento.
Ulteriore importante novità per quanto concerne la malattia: il periodo di comporto si riduce a 240 gg. nel corso dell’ultimo anno solare, cambiando quindi sia la durata ( 12 mesi in precedenza) che il periodo di riferimento per il calcolo ( vigenza del contratto), ma viene parallelamente introdotto un ulteriore periodo di 180 gg. per quei dirigenti che siano sottoposti a terapia salvavita, opportunamente documentata. Cui si aggiunge la ulteriore aspettativa non retribuita di 6 mesi già prevista dall’art. 15 del vigente contratto.
Ovviamente è stata introdotta una clausola transitoria che prevede che l’introduzione del regime di cui sopra per i dirigenti oggi in malattia si applicherà solo a partire dal 15 del prossimo settembre.

IL LAVORATORE LICENZIATO PER SOPPRESSIONE DELLA MANSIONE NON HA PIU’ L’OBBLIGO DI PROVARE LE MANSIONI ALTERNATIVE ALLA QUALI POTEVA ESSERE ADIBITO (c.d. onere di repechage).

A stabilirlo è stata la Corte di Cassazione che con la sentenza n. 5592 del 22.3.2016 ha soppiantato l’orientamento finora maggioritario. Nella motivazione di tale sentenza i Supremi Giudici hanno chiaramente affermato che “In materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di “repechage” del dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i suddetti oneri”.
Tale onere, pertanto, resta in capo solo al datore di lavoro.
Peraltro, la nuova disciplina delle mansioni contenuta nel Job act estende l’ambito di operatività dell’onere di repechage con la conseguenza che il datore di lavoro, che vorrà licenziare un dipendente per giustificato motivo oggettivo, dovrà dimostrare l’impossibilità di adibire il medesimo non sono alle mansioni equivalenti, ma a tutte le mansioni rientranti nel medesimo livello contrattuale e categoria legale del lavoratore ed addirittura alle mansioni relative all’inquadramento inferiore.
Tale estensione si ricollega all’estensione dello ius variandi (potere di modifica delle mansioni). Il nuovo art. 2103 c.c., così come novellato dal Job act, prevede infatti la possibilità del datore di lavoro, che voglia operare una riorganizzazione aziendale, di assegnare il lavoratore “a mansioni appartenenti al livello inferiore purchè rientranti nella medesima categoria legale”.
La norma prevede che tale mutamento sia accompagnato “ove necessario” ad un obbligo formativo del dipendente, specificando, tuttavia che il mancato adempimento di tale obbligo “non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni”.
Tale norma crea diversi dubbi interpretativi (sollevati da Autorevole dottrina[1]).
E così ci si chiede se sia veramente necessario formare un dipendente allo svolgimento di mansioni inferiori; se il dipendente “demansionato”, che non abbia seguito un corso di formazione per la nuova mansione, potrà sollevare un’eccezione di inadempimento e in virtù della stessa rifiutarsi di svolgere la mansione; se in tal caso il datore di lavoro potrà licenziarlo per inidoneità a svolgere le nuove mansioni; se infine l’obbligazione di formazione è di mezzi o di risultato.
Al momento tali interrogativi sono in attesa di una risposta.
[1] Prof. Armando Tursi – Professore ordinario di diritto del lavoro presso l’Università degli studi di Milano.

SI PUÒ LICENZIARE PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO NON SOLO PER EVITARE PERDITE MA ANCHE PER MANTENERE O INCREMENTARE I PROFITTI. DIVENTA QUINDI SEMPRE POSSIBILE LICENZIARE PER MOTIVI ECONOMICI?

Recentemente, la Corte di Cassazione ha affermato che l’imprenditore può riorganizzare la propria azienda e, conseguentemente, licenziare un lavoratore, non solo per evitare perdite, ma anche per mantenere o incrementare i profitti (sentenza n. 13516/16, 01.07.2016).
In ogni caso, non diventa sempre possibile licenziare un lavoratore per motivi economici e per l’imprenditore sarà necessario provare di non aver perseguito il profitto (o il contenimento delle perdite) soltanto mediante un abbattimento del costo del lavoro, realizzato con il puro e semplice licenziamento di un dipendente.
Per i Giudici cassazionisti, l’importante è che la finalità di procurare un incremento di profitto si traduca in “un mutamento nell’organizzazione tecnico-produttiva genuino e non strumentalmente piegato ad espellere personale (a vario titolo) non gradito”.
Non rileva dunque che il risparmio o la contrazione dei costi serva solo a prevenire o contenere perdite di esercizio. L’imprenditore non dovrà provare la crisi aziendale a fondamento della riduzione della forza lavoro, ma una riorganizzazione dipesa anche dalla decisione aziendale di incrementare i profitti.
Per valutare la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, i giudici, non potendo sostituirsi nelle scelte aziendali all’imprenditorie, la cui autonomia è garantita dall’art. 41, comma 1, Costituzione, dovranno limitarsi a verificare che il recesso sia dipeso da genuine scelte organizzative di natura tecnico-produttiva e non da pretestuose ragioni atte a nasconderne altre concernenti esclusivamente la persona del lavoratore licenziato.
Peraltro, perché il licenziamento per soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente licenziato sia legittimo, non è necessario che vengano soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuitegli, ben potendo le stesse anche solo essere diversamente ripartire.
Quindi quello che l’imprenditore dovrà fare sarà di provare che c’è stato un mutamento nell’organizzazione tecnico-produttiva dell’azienda, avendo la società soppresso le mansioni cui era adibito il lavoratore licenziato e ridotto in generale tutti gli altri costi (anche per incrementare i profitti). Un esempio potrebbe essere dare atto della riduzione dei compensi dei membri del consiglio di amministrazione.

Tribunale di Vicenza: vengono prima le sentenze della Corte europea.

Dichiarato illegittimo il licenziamento di un dirigente in base a una sentenza europea solo in seguito recepita dalla legge italiana. Ma come fa il datore di lavoro a sapere quali norme vanno applicate?
Il Tribunale del Lavoro di Vicenza, lo scorso 5 luglio, rifacendosi a una sentenza della Corte di Giustizia europea, ha dichiarato illegittimo il licenziamento di un dirigente per mancato rispetto della procedura prevista per i licenziamenti collettivi anche se questo atto è avvenuto ben prima dell’entrata in vigore della legge italiana che disciplina questa procedura. Il Tribunale ha anche condannato il datore di lavoro al pagamento dell’indennità suppletiva prevista dal Contratto collettivo nazionale di lavoro.
Questa sentenza ribalta un orientamento giurisprudenziale e dottrinario consolidato non solo nazionale e  può avere effetti che vanno ben oltre il singolo caso: antepone infatti gli effetti di una sentenza europea alla legislazione nazionale intervenuta successivamente. Il licenziamento del dirigente, infatti, era stato intimato dopo la sentenza della Corte di Giustizia europea del 13 febbraio 2014 (C-596/12) che ha condannato l’Italia per aver escluso la categoria dei dirigenti dall’ambito di applicazione della legge 223 del 1991(che disciplina i licenziamenti collettivi) in violazione della direttiva della Commissione europea numero 59 del 1998, ma prima dell’entrata in vigore della legge 161 del 30 ottobre 2014 con la quale il legislatore italiano ha provveduto anche all’inclusione dei dirigenti nella disciplina dei licenziamenti collettivi. Il giudice si è dunque mosso partendo dal presupposto di essere chiamato lui stesso a dare “piena attuazione” alla sentenza della Corte di Giustizia che ha accertato l’inadempimento dell’Italia “senza dover attendere l’intervento del legislatore nazionale che modifichi eventuali disposizioni contrastanti con il diritto comunitario” e ciò perché l’obbligo di osservare la sentenza “trova il suo destinatario nello Stato nella sua unità” e “il potere giurisdizionale, anche alla luce del principio di leale collaborazione, è chiamato a partecipare attivamente all’attività di implementazione del diritto europeo”.
Proprio questo passaggio è il più significativo: si tratta di uno dei primi casi in cui si afferma l’immediata applicabilità delle sentenze comunitarie nei tribunali degli stati membri. Il problema quindi riguarda gli effetti extraprocessuali di una sentenza “interpretativa” della Corte di Giustizia che produce sicuri effetti diretti nei confronti del legislatore nazionale, ma che appare dubbio possa ritenersi vincolante nei  confronti dei giudici (mentre risulta, invece, sicuramente vincolante la decisione della Corte nel caso di competenza pregiudiziale nei confronti dei giudici di rinvio). Bisogna tuttavia evidenziare la “sottile linea d’ombra” che si è venuta a creare per le società che abbiano licenziato dei dirigenti tra il mese di febbraio e il mese di ottobre del 2014 senza avere avviato – probabilmente a ragione – anche nei loro confronti la procedura prevista dalla legge 223 del 1991 pur essendo interessate nello stesso periodo da licenziamenti collettivi per riduzione di personale. Se l’orientamento del giudice di Vicenza dovesse trovare conferma nei successivi gradi di giudizio e diffusione presso altre Corti di merito le conseguenze economiche nei confronti delle aziende potrebbero essere significative e non solo nel campo del diritto del lavoro. Per le aziende si aprirebbero infatti conseguenze devastanti sul piano operativo:  i datori di lavoro si troverebbero a dover scegliere tra due opzioni, in linea di diritto entrambe legittime, che sono l’applicazione della  legge nazionale da un lato e quella dell’applicazione delle sentenze della Corte europea dall’altro con possibili effetti paradossali. La sentenza di Vicenza infatti condanna l’azienda per aver applicato la legge italiana e la ritiene implicitamente responsabile per il comportamento di terzi, nella fattispecie il Parlamento, su cui non ha alcun potere.

RITO Fornero SI’ – RITO FORNERO NO.

Come noto nel corso degli anni il nostro legislatore è più volte intervenuto creando nuove disposizioni processuali civili. Nel processo del lavoro, alcune norme sono state anche altalenanti, viene qui in mente il tentativo obbligatorio, poi facoltativo di conciliazione.
Con la Legge 92 del 28 giugno 2012 si è anche introdotto, e per la prima volta, un nuovo rito speciale per il licenziamento assistito dall’apparato sanzionatorio della reintegrazione forte o attenuata prevista al novellato art. 18 L. 300/70.
Orbene, a distanza di quasi 4 anni dall’entrata in vigore delle “nuove” disposizioni è stata proposta in sede di commissione parlamentare l’abrogazione delle norme processuali relative al contenzioso sui licenziamenti, come sopra introdotta.
Il punto focale in discussione attiene adesso alla valutazione circa l’opportunità o meno di abrogare quella parte della legge relativa al rito speciale.
E’ ben vero che in fase di prima applicazione, in ragione di diversi orientamenti, si sono rese necessarie le pronunce della Suprema Corte e della Corte Costituzionale che, ora, hanno reso stabile l’impianto.
E’ altresì vero che l’entrata in vigore del “Rito Fornero” ha richiesto uno sforzo organizzativo agli organi di giustizia deputati alla gestione dei procedimenti.
Va anche detto che tra questi ultimi, alcune sedi più sensibili e attente alla problematica della perdita del posto di lavoro ed ai tempi del decidere, già avevano creato un canale “preferenziale” per i licenziamenti per cui la “Fornero” altro non ha fatto che procedimentarne per legge e non solo per disposizione interna la regola.
Ora a 4 anni di distanza, ottenuta una stabilizzazione interpretativa, si vuole abolire il rito che ha razionalizzato, nel senso di cui sopra, il lavoro degli operatori di giustizia, abolizione che però prevede che debba esservi la creazione di un calendario di udienze ad hoc per le cause di licenziamento, regola sacrosanta, ma già in essere.
Mi chiedo, in ultima analisi, cosa si voglia apportare di utile al sistema giustizia civile? Quale vantaggio si ricavi regolando il contenzioso licenziamenti rigidamente col sistema preclusivo degli artt. 414 e ss. c.p.c.? E’ così necessario? Tengo a mente anche che la disposizione abrogativa prevedendo l’introduzione di giornate di udienza ad hoc precluderebbe, anch’essa come la Fornero, l’utilizzo dell’azione cautelare per difetto di periculum.
Dunque l’abrogazione determinerebbe solo la cancellazione dei principi consolidatisi in questi 4 anni senza innovare nulla: serve?

L’ultimo orientamento della Cassazione sull’obbligo di repêchage.

Come noto l’impresa può ricorrere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo anche nell’ipotesi di una gestione più economica, determinata da eventi oggettivamente sfavorevoli, di modo che le decisioni di riassetto appaiano giustificate da quell’esigenza e siano con essa in stretto nesso causale.
Come è, altresì, noto nel nostro ordinamento vige, per effetto della elaborazione giurisprudenziale, il c.d. obbligo di repechage e proprio su questo tema è intervenuta recentemente la Cassazione, sentenza n. 5592/2016, la quale ha cambiato gli equilibri sino a tal momento presenti in tema di oneri probatori.
Secondo il prevalente orientamento della Suprema Corte, sino a tale pronuncia l’onere probatorio si ripartiva tra lavoratore licenziato e datore, nel senso che il primo era onerato dalla indicazione delle posizioni che avrebbe potuto ricoprire in azienda in alternativa al licenziamento e il secondo dall’onere di provarne la copertura con l’organico esistente.
Ora, con la sentenza indicata, l’onere viene a gravare esclusivamente sul datore di lavoro, il quale dovrà provare in giudizio la completezza dell’organico tenuto conto di quanto novellato dall’art. 2103 c.c. per effetto del D.Lgs. n. 81 del giugno 2015.
Tale decisione esaminata con la nuova disciplina sulle mansioni rende ancora più gravoso l’onere datoriale poiché il suo assolvimento non potrà più limitarsi a smentire le allegazioni del lavoratore ma comporterà una comparazione dell’intero organico tra tutte le posizioni libere esistenti comprese quelle adibite a mansioni inferiori.
In una, più difficile assolvere l’onere della prova o più difficile licenziare per g.m.o.?
Direi che non è più difficile ma forse più costoso, atteso che per il mancato assolvimento dell’onere di repechage non vi è la tutela reintegratoria, ma quella risarcitoria prevista all’art. 18 L. 300/70, commi 5 e 7, quindi cessazione del rapporto si, ma con indennizzo sino a 24 mensilità.

ITALIAN LABOUR REFORM IN A NUTSHELL.

Il Jobs Act in poche parole. Una breve analisi sulle novità introdotte dal “Jobs Act”, dalla nuova disciplina sui licenziamenti alle novità in tema di controlli a distanza.
On December 15th the first part of the so called “Jobs Act” was published in the Gazzetta Ufficiale (the official journal of record of the Italian government) and hence officially became Law (Law No. 183/2014).
With this new law the “Jobs Act” Italian government has delivered on all of the following themes:
– A review of the current social welfare system in order to ensure uniform protection and streamline wage regulations;
– A review of all different types of employment contracts that are currently in force including self-employed people;
– A review of the procedures and obligations for both citizens and businesses in order to simplify and rationalize the constitution and management of labor relations, in addition to hygiene and safety, at work;
– A review of the regulations governing maternity and working times in order to ensure adequate support for parental care.
– Data protection at work and remote control of employees’ activity
– Assignment of new job and role
In light of the topics that will be more interesting, the main changes have been implemented in the termination costs in the event of unfair/discriminatory/void dismissal and the fixed terms contracts .
Therefore, we would like give you an idea of the new scenario – also respect to the previous scheme – article 18 of Law 300/1970 (which will still be applied to employees already hired before 7.March 2015). This part of the new law, as well as the former, does not apply to Dirigenti (executives).
For the employees hired later than 7.3.2015, here below the new indemnities in the event of unfair dismissal are summarized in the following chart.
Furthermore, one of the most prominent change is the possibility for the employer to avoid all the above risks and offer to the employee – within 60 days from the date of dismissal (deadline for the employee to challenge the dismissal out of Court) – an indemnity quantified as follows:
o 1 month salary for each of service, not lower than 2 months and not higher than 18 months.
o Such sum will not be subject to tax and social security deduction.
This will affect significantly termination costs, blocking the possibility to negotiate highersums as well as to avoid the additional costs of procedure before the Labour Court. Another change regards the procedure before Ministry of Labour mandatorily applied for dismissal for economic reasons (for the company with more than 15 employees).
For the employees hired after new law is in force, the procedure before the Ministry of Labour does not apply any longer. This means that the employer can dismiss the employee immediately without implementing the procedure.
As overall view of the new termination costs, it appears that the new law has the effects to reduce significantly the minimum of indemnity and also to block the maximum of the possible cost of termination as well as to reduce the possibility of reinstatement. Moreover, I wish to recall that also the law ruling the fixed term contracts was recently changed. In fact, the employer can enter into a fixed-term contract in the absence of the specific technical, organizational, production or replacement-related reasons which were required until the reform.
A fixed term contact can be of a maximum duration of 36 months, period which can be divide into 6 different contracts (obviously of maximum. 6 months each). Fixed-term employees may account for no more than 20% of the total headcount, unless collective agreements introduce different rules. Fixed-term contracts entered into to replace employees on leave of absence, to meet seasonal needs, with employees over 55 or for start-up reasons ( and some other specific areas) do not fall within the calculation of the above 20%. The limit is reduced to just one fixed-term employee for employers with less than 6 employees.
In addition the law ruling the control on the working activity (art 4 law 300/70) was also amended.
The law still prohibits the use of instruments and equipment which are specifically aimed at controlling employees and it confirms that those instruments and equipment which are potentially able to monitor employees (E.g. CCTV) are admitted only to the extent they are required to address organizational, production-related or security needs, and
provided that their use is agreed upon with the Work Council or authorized by the Minister of Labor.
Conversely, now the company can use all the devices provided to the employees to carry out their activity to control them ( e.g. mobile phone, lap top, car, tablet etc). However, the employer must duly inform the employee of the possible control. In fact, the employees have to be adequately informed on how instruments must be used and how the employer’s controls can be carried out, in compliance with the data protection legislation.
Employers are now entitled to unilaterally change the employee’s job, to the extent the new role fall within the same contractual level, which is defined by the Collective Bargain Agreement, and category (i.e. dirigente, quadro, clerk, worker) . Therefore employees are not entitled to be assigned to an equivalent job (a job where they continue to use the professional skills set and the specific competence acquired at the time of the change) any longer.
Moreover, employers are also entitled to unilaterally assign lower job to employees if the decision is either on ground of organizational changes also affecting the employee’s position and in the cases which may be established by CBA either at national or company-level. However, the employee is entitled to maintain the previous salary.
Finally, for the specific purpose of safeguarding occupation, allowing the employee to acquire new professional skills, or improving the employee’s life conditions, employer and employee can agree, at any time but at specific venues, on the assignment of lower duties entailing inferior statutory qualification and contractual level, as well as a reduction in salary.

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