Il burnout e la gestione (fallimentare) dello stress lavorativo

L’ultimo articolo del Prof. Francesco Bacchini sul tema del burnout lavorativo, per il numero di settembre di HR Online, periodico dedicato alle Risorse Umane di AIDP.

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L’OMS (Organizzazione mondiale della sanità), nell’11a revisione della classificazione internazionale delle malattie (ICD-11) datata 28 maggio 2019(che entrerà però in vigore nel gennaio del 2022), ha qualificato il burnout nei termini di “fenomeno professionale”.
Nello specifico, il burnout è inteso non quale malattia o condizione di salute, bensì nel capitolo: “Fattori che influenzano lo stato di salute o il contatto con i servizi sanitari”, all’interno del quale vengono incluse le cause per cui le persone si rivolgono al sistema sanitario.
L’OMS imputa il burnout alle inefficienze (con esiti irreversibili) della gestione dello stress lavorativo, in quanto “sindrome concettualizzata come conseguenza dello stress cronico sul posto di lavoro che non è stato gestito con successo”.
Sicché, alla luce delle recenti acquisizioni in argomento, il burnout integra un rischio psicosociale di portata generale, che può materializzarsi in qualsiasi organizzazione di lavoro, anche al di là dei contesti professionali “tipici” da cui, storicamente, trae origine.
Proprio alla luce di tali considerazioni non sembra dunque più possibile intendere il burnout (termine che rimanda, letteralmente, alla vicenda del “bruciarsi” o “consumarsi”) quale epilogo di un processo stressogeno cronico che si ambienta sullo sfondo delle sole c.d. “helping professions”; attività, cioè, che si traducono in mansioni di aiuto, ascolto e cura in favore di soggetti comunque in stato di precarietà emotiva, incapaci di provvedere alla cura di sé, e perciò necessitanti di costante supporto: è il caso, in particolare, di addetti a reparti di pronto soccorso o specializzati in patologie croniche e invalidanti (psichiatrici, oncologici o di terapia intensiva) ma anche di operatori dei servizi sociali e scolastici, nonché di psicologi, agenti delle forze dell’ordine e di polizia penitenziaria o addetti al volontariato socio-assistenziale.
Il burnout si pone, dunque, quale vera e propria “sintomatologia da stress” (che comprende: fenomeni di affaticamento, logoramento, esaurimento emotivo, depersonalizzazione, ridotta realizzazione personale e improduttività lavorativa, ma anche una costellazione di altri sintomi come somatizzazioni, apatia, eccessiva stanchezza, risentimento, infortuni), direttamente riconducibile all’obbligo di tutela della salute dei lavoratori e alla valutazione dei rischi lavorativi.
Leggendo, infatti, il profilo scientifico del burnout in funzione del T.U.S.L (d.lgs. n. 81/2008), non può non osservarsi come, ai sensi dell’art. 2, co 1, lett. o), esso rientri a pieno titolo in una definizione di “salute” (sul lavoro) di tenore talmente ampio da risultare onnicomprensiva, rilevando quale “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità”.
La stessa totalizzante vocazione sociale al benessere psico-fisico ispira anche l’art. 28 del medesimo decreto, a tenore del quale il datore di lavoro è obbligato a valutare, tra l’altro, i rischi connessi allo stress lavoro-correlato (definito dall’accordo europeo dell’8 ottobre 2004, integralmente recepito dall’accordo interconfederale 9 giugno 2008, come “una condizione, accompagnata da sofferenze o disfunzioni fisiche, psichiche, psicologiche o sociali, che scaturisce dalla sensazione individuale di non essere in grado di rispondere alle richieste o di non essere all’altezza delle aspettative […]).
La normativa richiamata si pone, quindi, quale espressione di quel percorso giuridico – sociale volto ad orientare le condizioni organizzativo-ambientali del lavoro alla prioritaria tutela della dignità del dipendente: processo, questo, tutt’altro che compiuto, nella misura in cui impone che la gestione aziendale dello stress correlato al lavorosi confronti con le più recenti acquisizioni di psicologia e psichiatria anche sociali.
In altri termini, l’emergere di inediti disagi individuali legati ai target economici, alla valutazione delle performance, ai conflitti interpersonali, all’intensità dei ritmi lavorativi, all’eccessivo affaticamento sul posto di lavoro determina, inevitabilmente, il dilatarsi del novero delle circostanze “stressogene”, in quanto tali lesive della salute del lavoratore.
E’, quindi, un campo d’indagine sempre in continuo divenire quello entro cui vanno condotte sia, in via preliminare, la valutazione del rischio stress, sia, successivamente, la classificazione degli interventi in termini di prevenzione primaria, secondaria e terziaria (da attuare in conseguenza, rispettivamente, dell’orientamento al contrasto delle fonti, della finalità di gestione e di impedimento delle situazioni, della focalizzazione sulla gestione negativa dello stress che si è già manifestato).
Rimane comunque fermo che, così come lo stress, anche il burnout rileva, ai fini lavoristici, soltanto qualora tragga origine da fattori propri del contesto occupazionale ed estranei a dinamiche della vita privata, soprattutto familiare; non è, quindi, infondato ritenere che la novità sia di maggior pregio (non già sul piano strettamente giuridico il quale, per ora, resta del tutto invariato, ma) perché, essenzialmente, recepisce ed estende il consolidato indirizzo scientifico in materia di processi stressogeni cronici lavorativi con esito patologico.
Ciò in disparte, nessun dubbio, dall’entrata in vigore della nuova classificazione, in merito all’obbligo di valutare e gestire le fonti e le situazioni potenzialmente sfocianti nella sindrome da burnout; il che, evidentemente, a tutela di dignità e produttività del lavoro, della salute del singolo, così come del benessere aziendale.
L’articolo disponibile anche qui.

Burnout lavorativo. Perché l’azienda deve combatterlo e prevenirlo

L’ultimo editoriale del Prof. Francesco Bacchini, per il Quotidiano di IPSOA, parla di burnout lavorativo. Cerchiamo di capire meglio di cosa si tratta.

Sentimenti di esaurimento o esaurimento energetico. Maggiore distanza mentale dal proprio lavoro, negativismo o cinismo. Ridotta efficacia professionale. Sono le tre dimensioni principali del burnout, incluso quale “fenomeno professionale” nell’undicesima revisione della classificazione internazionale delle malattie da parte dell’organizzazione mondiale della sanità, in vigore dal 2022. Il burnout si pone, in modo esplicito, quale effetto del fallimento e dell’insuccesso nella gestione dello stress lavorativo, che si è cronicizzato, diventando irreversibile. Rilevare le disfunzioni nell’organizzazione del lavoro e gestirle è solo un primo passo per l’azienda. Quali sono gli altri?

Secondo la letteratura scientifica propria del settore della psicologia e della psichiatria sociale, declinate in chiave lavoristica, il burnout è l’esito patologico di un processo stressogeno cronico che interessa, in varia misura, diverse tipologie di operatori e di professionisti quotidianamente e ripetutamente impegnati o, più esattamente, compromessi ed emotivamente coinvolti in attività lavorative che implicano relazioni interpersonali.
 
Nell’accezione di cui sopra, il termine burnout, letteralmente bruciato (o bruciarsi), consumato (o consumarsi), ricomprende manifestazioni psicologiche e comportamentali quali fenomeni di affaticamento, logoramento, esaurimento emotivo, depersonalizzazione, ridotta realizzazione personale e improduttività lavorativa, ma anche una costellazione di altri sintomi come somatizzazioni, apatia, eccessiva stanchezza, risentimento, infortuni, connessi, usualmente, allo svolgimento di attività professionali a carattere sociale, più precisamente all’esecuzione di tutte quelle occupazioni che si sostanziano in mansioni di aiuto, ascolto e cura (helping professions).
 
Gli studi e le ricerche più significativi in materia di burnout hanno, infatti, riguardato gli operatori (medici e infermieri) dei reparti psichiatrici, dei pronto soccorso, della terapia intensiva, dei reparti oncologici (o di quelli in cui si assistono i malati di Aids) o, comunque, dei reparti e degli ambulatori per patologie croniche e invalidanti, ma anche gli operatori dei servizi sociali, gli psicologi, i pedagogisti, i docenti degli istituti scolastici, gli educatorie in genere tutti coloro che operano a stretto contatto con soggetti disadattati in contesti sociali degradati, fino ad arrivare agli agenti delle forze dell’ordine, ai vigili del fuoco e agli operatori del volontariato e ciò in quanto il contatto con un’utenza bisognosa di protezione, sofferente, emarginata, comunque problematica, è maggiormente coinvolgente e carico di emotività psichicamente traumatica.
 
Al netto dei fattori soggettivi e delle assai mutevoli caratteristiche personali, al di là della capacità di resistenza alle frustrazioni e di adozione di più o meno efficaci strategie di copying (adattamento), il collasso fisico e mentale a cui, progressivamente, approda il burnout seguendo le quattro dimensioni dell’esaurimento emotivo, della spersonalizzazione, del sentimento di frustrazione e della perdita della capacità di controllo professionale, una volta spogliato del coinvolgimento emotivo tipico delle professioni d’aiuto e rivestito dei panni più larghi del deterioramento dell’impegno e delle emozioni associati generalmente al lavoro, nonché della capacità di adattamento professionale, profilando una sintomatologia da stress potenzialmente riscontrabile in qualsiasi organizzazione di lavoro, configura un rischio psicosociale di portata generale.
 
Si ritiene, infatti, che la sensazione di inaridimento emotivo, di esaurimento, di svuotamento e perdita delle proprie energie e risorse in relazione al proprio lavoro, la sensazione di “non riuscire più a farcela”, a cui segue, prima, un atteggiamento di distacco, cinismo, ostilità, aggressività e, poi, il crollo dell’autostima determinato dalla mancata realizzazione delle proprie aspettative e dalla sensazione di inadeguatezza nello svolgere il proprio ruolo, con apatia, perdita della capacità di controllo nei confronti della propria attività professionale e riduzione del senso critico che determina una errata attribuzione di significato alla sfera lavorativa, possa essere rilevabile in ogni ambito occupazionale.
 
Del resto, analizzando le cause più frequenti del disadattamento da burnout, a partire dal sovraccarico di lavoro (con richieste lavorative così elevate da esaurire le energie individuali e non rendere possibile il recupero), dal senso di impotenza, dalla mancanza di controllo (percezione di avere insufficiente potere o autorità sulle risorse necessarie per svolgere il proprio lavoro in modo efficace), dal riconoscimento inadeguato per il lavoro svolto, dalla mancanza di senso di comunità (quando viene meno il sostegno, la fiducia reciproca e il rispetto), per arrivare all’assenza di equità nell’ambiente di lavoro (in relazione all’assegnazione dei carichi di lavoro, della retribuzione, dei premi, delle promozioni e dell’avanzamento di carriera) e al conflitto di valori all’interno del contesto lavorativo circa le scelte operate a livello organizzativo, è semplice constatarne la trasversalità rispetto a ogni attività lavorativa e a ogni organizzazione aziendale.
 
Poiché nella condizione di burnout convivono svariati indizi: psicosomatici come l’insonnia, psicologici come la depressione, ma anche somatici, espressione del deterioramento del benessere fisico che determina l’insorgenza di patologie varie come: ulcera, cefalea, disturbi cardiovascolari, difficoltà sessuali, ecc., si è consolidato nella letteratura scientifica il suo inserimento fra le sindromi, ovvero la sua collocazione all’interno di quell’insieme di sintomi e segni clinici che costituiscono le manifestazioni di una o di diverse malattie, la cui eziologia distintiva è rappresentata dallo stress lavorativo.
 
Il disagio vissuto nella dimensione professionale dai soggetti affetti da burnout, si trasla poi facilmente anche sul piano della devianza personale, esponendoli a un rischio elevato per quanto riguarda l’abuso di alcol, di sostanze psicoattive e, finanche, per il compimento di atti autolesionistici che possono arrivare al suicidio.
 
Così, al cospetto e nel solco, vincolante, di una definizione talmente ampia e con una fortissima vocazione sociale da risultare onnicomprensiva, giacché, ex art. 2, co 1, lett. o), D.lgs. n. 81/2008, per salute (sul lavoro) deve intendersi uno “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità”, il fenomeno del burnout, determinando l’esposizione del prestatore a pericoli per la salute discendenti da situazioni di stress, evidentemente correlate al lavoro, deve essere adeguatamente e specificamente valutato dal datore di lavoro, “secondo i contenuti dell’accordo europeo dell’8 ottobre 2004” così come impone l’art. 28 del decreto sopra richiamato, “a far data dal 31 dicembre 2010”, utilizzando le indicazioni metodologiche contenute nella circolare del Ministero del lavoro del 18 novembre 2010 (e nel manuale Inail sulla valutazione e gestione del rischio stress lavoro-correlato del 2011 aggiornato nel 2017).
 
L
’inserimento dell’obbligo di valutazione del rischio da stress (con l’opinabile esclusione delle fattispecie di mobbing) collegato al lavoro, infatti, non è altro che l’inevitabile risultato di un percorso sociale volto a valorizzare sempre di più l’interazione tra le condizioni organizzativo-ambientali e con la salute e la dignità del lavoratore.
 
L’accordo europeo, integralmente recepito dall’accordo interconfederale 9 giugno 2008, definisce lo stress lavoro-correlato come “una condizione, accompagnata da sofferenze o disfunzioni fisiche, psichiche, psicologiche o sociali, che scaturisce dalla sensazione individuale di non essere in grado di rispondere alle richieste o di non essere all’altezza delle aspettative […]. Lo stress non è una malattia, ma una situazione prolungata di tensione che può ridurre l’efficienza sul lavoro e può determinare un cattivo stato di salute”: in tale definizione, rientra, ovviamente a pieno titolo, anche la fattispecie del burnout.
 
Pur non essendo una malattia, lo stress funge da “agente patogeno” in quanto espressione di “disfunzioni dell’organizzazione del lavoro (costrittività organizzative)” relativamente all’insorgenza di malattie professionali inserite nella lista II – “malattie la cui origine lavorativa è di limitata probabilità”, dell’elenco delle malattie professionali (tabellate) per le quali è obbligatoria la denuncia/segnalazione da parte dei medici, ai sensi dell’art. 139 del d.p.r. 1124/1965, all’Inail, all’ITL e all’ASL/ATS (l’ultimo aggiornamento dell’elenco di tali malattie è contenuto nel decreto del Ministero del lavoro del 10 giugno 2014).
 
Si tratta di due classificazioni di patologie psichiche e psicosomatiche: il disturbo dell’adattamento cronico (con ansia, depressione, reazione mista, alterazione della condotta e/o della emotività, disturbi somatoformi) e il disturbo post-traumatico cronico da stress.
 
La denuncia delle malattie di cui sopra quale esito patologico di un processo stressogeno cronico correlato al lavoro, già da tempo esplicitamente possibile, riceverà significativa accelerazione in conseguenza dell’inclusione del burnout nell’11a revisione della classificazione internazionale delle malattie (ICD-11) da parte dell’OMS (organizzazione mondiale della sanità), datata 28 maggio 2019 (che entrerà però in vigore nel gennaio del 2022), quale “fenomeno professionale” (per la verità il burnout era già stato incluso nella revisione precedente, ICD-10, all’interno della stessa categoria ma con una definizione meno dettagliata).
 
Pur non essendo classificato come malattia o condizione di salute (condizione medica), il burnout è descritto nel capitolo: “Fattori che influenzano lo stato di salute o il contatto con i servizi sanitari”, all’interno del quale vengono incluse le cause per cui le persone si rivolgono al sistema sanitario.
 
In linea con la proposta ricostruzione, l’OMS definisce il burnout “una sindrome concettualizzata come conseguenza dello stress cronico sul posto di lavoro che non è stato gestito con successo”.
 
Nella definizione offerta dall’OMS il burnout si pone, dunque, in modo esplicito, quale effetto del fallimento, dell’insuccesso nella gestione dello stress lavorativo, che, conseguentemente si è cronicizzato divenendo irreversibile.
 
Tale definizione, perfettamente in linea con la letteratura scientifica, ripropone la centralità del processo di gestione aziendale dello stress correlato al lavoro ossia, innanzitutto, la sua valutazione (preliminare e approfondita), poi la classificazione degli interventi di gestione del rischio stress in termini di prevenzione primaria, secondaria e terziaria, da attuare in conseguenza, rispettivamente, dell’orientamento al contrasto delle fonti, della finalità di gestione e di impedimento delle situazioni, della focalizzazione sulla gestione negativa dello stress che si è già manifestato.
 
Anche in relazione all’individuazione degli elementi descrittivi del burnout l’OMS, seppur in modo sintetico, conferma la caratterizzazione proposta dalle ricerche epidemiologiche, evidenziando tre dimensioni principali: sentimenti di esaurimento o esaurimento energetico; maggiore distanza mentale dal proprio lavoro, così come sentimenti di negativismo o cinismo relativi al proprio lavoro; ridotta efficacia professionale.
 
Ricordato che, così come lo stress, anche il burnout si riferisce specificamente ai fenomeni che si manifestano nel contesto occupazionale e non dovrebbe essere applicato per tracciare esperienze di inaridimento emotivo, di esaurimento, di svuotamento, insorgenti fuori dal rapporto di lavoro in altri ambiti della vita, soprattutto familiare, a dispetto della comunicazione mediatica evidentemente attratta dalla connessione indiretta, fra stress lavorativo e malattia psicosociale, la novità è più di forma che di sostanza, più di indirizzo scientifico che di diretta ricaduta sul piano strettamente giuridico il quale, per ora, resta del tutto invariato.
 
Comunque sia, le fonti e le situazioni che possono determinare la sindrome da burnout aspettano solo di essere valutate prima e gestite poi: dignità e produttività del lavoro se ne gioveranno largamente e con esse la salute del singolo così come il benessere aziendale.

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