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Se la critica non è politically correct: qual è il limite del diritto a esprimere le proprie opinioni

Per qualche giorno, a ridosso della metà del mese di agosto appena trascorso, le pagine dei quotidiani nazionali ed internazionali si sono occupate...

Per qualche giorno, a ridosso della metà del mese di agosto appena trascorso, le pagine dei quotidiani nazionali ed internazionali si sono occupate di quello che è stato definito come lo scandalo sessismo, costato il posto a James Damore, giovane ingegnere statunitense.
La causa del suo licenziamento? Un corposo pamphlet intitolato “La cassa di risonanza ideologica di Google”. Un atto di accusa dell’ex dipendente contro quello che egli definisce il politically correct che ispira le politiche aziendali di diversity e inclusion del suo datore di lavoro. Il dibattito è interessante perché attraverso quelle politiche Google attua lo scopo di promuovere l’assunzione di donne in un mondo tecnologico dove ce ne sono poche.
Damore non condivide l’approccio al tema da parte della sua ex azienda e lo afferma con convinzione. Nella sua lunga email contro le direttive di Google, Damore fra le altre cose sostiene che nel settore Tech ci sono meno donne semplicemente perché sono meno adatte a quei mestieri, hanno “differenze caratteriali”, ad esempio una soglia più bassa di resistenza allo stress. Ritiene in generale che per compensare lo svantaggio di alcuni non si debba penalizzare altri; sottolinea come una politica sbagliata possa creare tensioni all’interno dell’organizzazione. E suggerisce poi, a suo modo, come si potrebbe cambiare l’approccio al tema per compensare l’evidente squilibrio di genere che penalizza le donne nel suo settore, senza svantaggiare altri.
Per quanto ho potuto leggere il dibattito seguito al pamphlet di Damore è stato circoscritto per lo più ad un tema: la Silicon Valley, a dispetto dell’immagine liberal, è un territorio maschilista, con una cultura aziendale che malgrado i proclami rimane ostile alle donne.
Non condivido la maggior parte delle affermazioni di Damore, tuttavia non è sulla propensione delle donne ai mestieri Tech in particolare che mi voglio soffermare.
Ciò che invece mi ha più colpita è il ragionamento complessivo che sta alla base delle riflessioni di Damore e cioè l’espressione del dissenso all’interno di un’organizzazione aziendale. Scrive Damore che il fatto di non adeguarsi all’ideologia aziendale provoca un atteggiamento intollerante nei confronti di chi si fa portatore del dissenso; queste le sue parole: “My larger point is that we have an intolerance for ideas and evidence that don’t fit a certain ideology”. Egli in pratica rivendica il diritto di critica per sé e per tutti coloro che non condividono il modo in cui il proprio datore di lavoro promuove i valori della diversità e non si adeguano a quello che lui definisce il politically correct.
È davvero sbagliato rivendicare il diritto di esprimere le proprie opinioni quando l’intento non è sterile ma costruttivo, si cerca di contribuire al dibattito dando dei suggerimenti che non hanno lo scopo principale di offendere qualcuno?
Le considerazioni che seguono, a mio parere, valgono per analizzare il caso specifico, ma devono essere tenute a mente ogni volta che un’azienda si trova ad affrontare un caso di “dissenso motivato” cioè in presenza di un soggetto che decide di esprimere un’opinione personale non in linea con la direzione che l’azienda ha deciso di darsi.
Del resto, quando si toccano questi temi, il problema è anche politico e valoriale. Quel che è vittimismo per gli uni, è sessista per gli altri. E qui entriamo nel campo delle opinioni personali.
Cosa sarebbe successo in Italia? Sarebbe stato necessario analizzare la questione senza prescindere dal contenuto dell’art. 15 (Atti discriminatori) della L. 300/70, che considera nullo il licenziamento di un lavoratore a fini di discriminazione basata sulle convinzioni personali. Non conosciamo tutti i particolari del caso, ma non è da escludere che con un approccio affrettato a una vicenda come quella di Damore si sarebbe corso il rischio di incorrere in un licenziamento discriminatorio.
Questa vicenda ci obbliga a porci una domanda che a questo punto ritengo fondamentale: in nome della diversity e inclusion che strenuamente difendiamo, siamo più o meno credibili se a fronte del dissenso motivato reagiamo cercando di comprendere il disagio oppure “eliminiamo” velocemente il soggetto portatore del “problema”? La risposta a questa domanda non è univoca e impone di volta in volta un’analisi approfondita della vicenda, anche sotto il profilo delle ricadute che la stessa può avere a livello mediatico. Tenendo sempre presente però che non esiste mai un unico punto di vista e che il pregiudizio, anche a fin di bene, purtroppo è sempre dietro l’angolo perché è difficile vederlo in anticipo.
Forse, per coerenza con i principi di diversity e inclusion, la battaglia per la parità sui luoghi di lavoro non dovrebbe essere combattuta a suon di licenziamenti, tranne che nei casi più gravi. In nessun tipo di azienda.