Il datore di lavoro è il principale responsabile degli obblighi fondamentali in materia di sicurezza e tra i suoi adempimenti indelegabili vi è la valutazione di tutti i rischi lavorativi connessi alla attività di impresa, con la conseguente elaborazione del relativo documento.
Tale obbligo si sostanzia in una valutazione, globale e documentata, di tutti i rischi presenti in azienda, finalizzata ad individuare le più adeguate misure di prevenzione e protezione possibili in quel preciso momento storico nonché ad elaborare un programma delle misure che garantiscano nel tempo il miglioramento dei livelli di salute e sicurezza.
Con riferimento all’oggetto di detta valutazione, la norma specifica che la stessa deve concernere tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, vale a dire tutti quei lavoratori per i quali, in conseguenza di caratteristiche distintive tassativamente individuate dal legislatore, i rischi relativi ad uno stesso pericolo sono comparativamente maggiori rispetto alla generalità dei lavoratori.
I “parametri gruppali” individuati per verificare più congruamente la peculiare esposizione ai pericoli sono il genere, l’età, la provenienza da altri Paesi e la specifica tipologia contrattuale attraverso cui viene resa la prestazione di lavoro (oltre allo stress lavoro-correlato e allo stato di gravidanza e puerperio).
La valutazione dei rischi viene spesso concepita in forma “neutra” o, meglio, “maschilmente neutra”, essendo pensata per l'”uomo medio” ed è come tale inadatta alle donne e agli uomini “fuori media” (es. ergonomia del posto di lavoro).
Valutare i rischi connessi alle differenze di genere significa per il datore focalizzare l’attenzione sulla organizzazione del lavoro ponendo attenzione a quegli elementi fisici e biologici (es. peso e altezza), ma anche culturali e sociali (es. spesso le donne svolgono ancora la maggior parte dei lavori domestici il che fa aumentare il loro “tempo di lavoro”) che differenziano uomini e donne in modo da garantire pari opportunità di tutela tra gli stessi, anche in relazione alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.
Una valutazione dei rischi che voglia tenere, altresì, conto delle differenze di età, dovrà necessariamente considerare i lavoratori divisi per classi. Ad esclusione dei “lavoratori standard” (29-45/50 anni) che non evidenziano alcuna specifica rischiosità espositiva connessa all’età, i “lavoratori giovani” (15-24/29 anni) e i “lavoratori maturi e anziani” (oltre 50/55 anni e oltre 60 anni non ancora pensionabili), seppur per motivi diversi, necessitano infatti di una particolare attenzione da parte del datore di lavoro con riferimento sia alla formazione che all’adattamento nel tempo delle mansioni assegnate: i primi per lo sviluppo fisico non ancora completo, la mancanza di esperienza lavorativa, la scarsa familiarità con l’ambiente di lavoro; i secondi, magri prossimi al pensionamento, per problematiche di tipo fisico o psichico come la riduzione della massa e forza muscolare, la diminuzione della capacità visiva e uditiva, la parziale compromissione delle capacità intellettive e della memoria recente.
La fondamentale esigenza di proteggere i lavoratori passa, poi, inevitabilmente dal problema linguistico nel caso in cui si tratti di lavoratori stranieri essendo l’apprendimento del corretto comportamento nella esecuzione della attività lavorativa e delle consuetudini organizzative, ambientali e relazionali di ciascuna organizzazione produttiva anche banalmente legato alla comprensione e alla conoscenza della lingua utilizzata per la formazione, l’informazione e l’addestramento che il datore di lavoro ha l’onere di verificare.
L’analisi del rischio lavorativo insito nella provenienza del lavoratore da un paese straniero non può, inoltre, prescindere dal problema culturale della derivazione geografico-nazionale, appurato che occorre considerare le specificità di alcune culture per la percezione della esposizione al pericolo, della comprensione e accettazione del rischio, del rispetto delle misure, delle regole e delle persone. A tale riguardo, l’appartenenza religiosa può essere annoverata senza dubbio tra le caratteristiche che il datore di lavoro deve rilevare al fine della valutazione dei rischi nella prospettiva della esposizione soggettiva al rischio lavorativo (es. il caso più noto è quello relativo alla prestazione resa dal lavoratore di fede islamica durante il periodo del ramadan in quanto il digiuno rappresenta una condizione che espone il soggetto ad un pericolo più alto soprattutto nello svolgimento di attività faticose).
E ancora, alcuni contratti di lavoro, come quelli a termine, di somministrazione o intermittente recano in sé un rischio maggiore connesso alla loro stessa “flessibilità tipologica”: i lavoratori “temporanei” risultano esposti a rischi maggiori in ragione della particolare natura del loro rapporto di lavoro, a prescindere dalla oggettiva pericolosità della attività svolta, che derivano dal fatto che la prestazione viene resa spesso in ambienti nuovi, le mansioni sono poco conosciute, l’inserimento integrale nella organizzazione aziendale e nello specifico gruppo di lavoro è reso difficoltoso dalla percezione psicologica della precarietà occupazionale reciprocamente avvertita dal lavoratore e dai colleghi, l’informazione, la formazione e l’addestramento, anche laddove espletati, risultano spesso qualitativamente e quantitativamente inadeguati.
Non a caso la nuova disciplina organica dei contratti di lavoro contenuta nel D.lgs. n. 81/2015, conferma il precetto in base al quale è vietato il ricorso alle dette tipologie contrattuali da parte dei datori di lavoro che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi in applicazione della normativa di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori: ciò significa che a rilevare non sarà la generica valutazione dei rischi ma una specifica analisi dei rischi connessi alla tipologia contrattuale che si procede a stipulare.
Considerare i parametri di cui sopra – valutandoli sia singolarmente che nella loro reciproca relazione – consente di predisporre una valutazione di tutti i rischi utile ed efficace in quanto “specifica” e “puntuale”, “non neutra” ma “differenziale” anche se “non discriminatoria”, che rappresenta realmente per il datore di lavoro lo strumento metodologico ed operativo di pianificazione degli interventi di prevenzione capace di eliminare, o almeno di ridurre, la probabilità, soprattutto soggettiva, di accadimento di infortuni sul lavoro e malattie professionali.