È doveroso chiedersi se sia sempre necessario e attuale parlare di pari opportunità in Italia.
Così come dobbiamo domandarci se il discorso vada impostato solo in termini etici o se sia meglio affrontarlo in chiave economica.
Partiamo da un dato certo, il tema della pari opportunità è al centro del dibattito nell’ambito della comunità internazionale e dell’Unione Europea.
La parità è infatti uno degli obiettivi che i paesi firmatari dell’Agenda per lo sviluppo sostenibile devono realizzare entro il 2030.
In tale contesto si discute anche di lavoro, di capitale umano e diseguaglianze.
Questo obiettivo si accompagna con quello della buona occupazione e della crescita economica, che deve essere duratura, inclusiva e sostenibile.
Tra gli obiettivi nazionali strategici che il nostro Paese si è dato per raggiungere quelli dell’Agenda 2030 vi sono:
- la promozione di una società inclusiva;
- l’eliminazione di ogni forma di discriminazione, che si declina nel contrasto alla discriminazione di genere e di ogni altra forma di discriminazione basata su età, etnia, orientamento sessuale, confessione religiosa;
- la promozione del rispetto delle diversità.
Quindi la risposta alla domanda iniziale è certamente sì, il tema delle pari opportunità è di estrema attualità ed è cruciale per lo sviluppo del nostro paese.
In tale contesto, è doveroso continuare a tenere alta l’attenzione sul tema dell’inclusione LGBT: parafrasando un detto manzoniano, facciamo in modo che il buon senso emerga e non se ne stia nascosto per paura del senso comune.
Che cosa è stato fatto, in pratica, in Italia negli ultimi anni per realizzare l’obiettivo dell’inclusione LGBT?
L’espressione orientamento sessuale fa la sua prima comparsa nell’ordinamento giuridico italiano a livello di legislazione ordinaria, con l’entrata in vigore del D. lgs. n. 216 del 2003 attuativo della Direttiva 2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. Tale direttiva, appartenente alla cosiddetta seconda generazione del diritto antidiscriminatorio, è definita anche quadro perché estende il contrasto alle discriminazioni basate su caratteristiche personali (cd. “fattori” di rischio) diversi dal genere che, invece, ha permeato il diritto antidiscriminatorio di prima generazione.
Pertanto, con riferimento al settore lavorativo e dal 2003, l’ampia protezione dell’individuo dalle discriminazioni legate all’orientamento sessuale offerta dalla normativa europea è stata garantita sul piano normativo anche nel nostro paese.
È mancata invece per lungo tempo la protezione nell’ambito dei rapporti familiari.
Quando si parla di persone non si può fare a meno di tenere in debito conto le istanze che derivano dai mutamenti del tessuto sociale e che portano con sé nuovi modelli di famiglia accanto a quello definito “tradizionale”.
Tre anni fa la L. 20 maggio 2016 n. 76 cd. Legge Cirinnà si è fatta carico delle istanze provenienti dalla realtà sociale: ha introdotto nell’ambito del diritto di famiglia le unioni civili tra persone dello stesso sesso e attribuito rilevanza giuridica alle convivenze, sia tra persone di sesso diverso sia tra persone dello stesso sesso.
Il nostro ordinamento, nel solco tracciato dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, dalla Corte Costituzionale e dalla Corte di Cassazione, ha affiancato le unioni civili al matrimonio, ma mentre il riconoscimento della rilevanza giuridica delle prime si fonda sugli artt. 2 e 3 Cost., in quanto “specifica formazione sociale”, il secondo trova, invece, il suo fondamento costituzionale nell’art. 29 Cost.: se da un lato il legislatore ha attribuito alle unioni fra persone dello stesso sesso dignità giuridica e rilevanza costituzionale pari a quelle del matrimonio, dall’altro ha rimarcato che si tratta di due istituti civilistici tra loro diversi.
Se da un lato l’espresso richiamo all’art. 3 Cost. è tale da indurre a ritenere salvo il principio di non discriminazione fra le persone in ragione dell’orientamento sessuale, dall’altro la mancata introduzione nell’ordinamento giuridico italiano del matrimonio egualitario ha avuto ed ha ricadute applicative importanti nell’ambito del diritto del lavoro.
Tuttavia, da giurista, non posso fare a meno di sottolineare che il matrimonio è un istituto riservato alle coppie eterosessuali, mentre le coppie omosessuali possono dare luogo a un vincolo familiare giuridicamente rilevante solo attraverso l’istituto dell’unione civile.
Per capire la portata della norma e le risultanze applicative che la stessa ha avuto e può avere nella realtà sociale, possiamo fare riferimento ai dati di rilevazione ISTAT del gennaio 2018 che attestano che le unioni civili costituite in Italia e le trascrizioni di unioni costituite all’estero fra persone residenti sono circa 13,3 mila (pari al 0,02% della popolazione), di sesso maschile nel 68,3% dei casi.
Gli uniti civilmente hanno un’età media di 49,5 anni se maschi e di 45,9 anni se femmine e risiedono prevalentemente nel Nord (56,8%) e al Centro (31,5%).
In Italia, a partire da luglio 2016 e fino al 31 dicembre 2017, sono state costituite nel complesso 6.712 unioni civili (2.336 nel 2° semestre 2016 e 4.376 nel corso del 2017) che hanno riguardato prevalentemente coppie di uomini (4.682 unioni, il 69,8% del totale).
Le unioni civili sono più frequenti nelle grandi città: il 35,4% è stato costituito nelle 14 città metropolitane, e quasi una su quattro a Milano, Roma o Torino.
I dati potrebbero portare a pensare che il trend di costituzione delle unioni civili sia in aumento ma al momento non sono disponibili dati per il 2018.
I dati di cui sopra, che descrivono una realtà familiare, hanno di fatto delle ricadute dirette nell’ambito delle relazioni fra impresa e lavoratore.
Esistono vicinanza e contiguità fra il diritto del lavoro ed il diritto di famiglia in ragione del fatto che i lavoratori sono prima di tutto persone e in questo senso è corretto affermare che molteplici diritti, nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato e nell’ambito previdenziale, sono costruiti sul presupposto di un legame di tipo familiare che il lavoratore ha con partner e figli.
Dal fatto di contrarre un’unione civile deriva l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale, il che ha importanti implicazioni e ricadute nel campo del diritto del lavoro.
La l. n. 76 del 2016, al co. 20, ha introdotto una clausola c.d. “di salvaguardia” prevedendo una generale equivalenza tra matrimonio e unione civile, nel rispetto dell’art. 3 Cost., con evidente funzione antidiscriminatoria. La norma dispone, in particolare, che al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti, ovunque ricorrano nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applichino anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso.
Grazie alla l. n. 76 del 2016, le parti di un’unione civile possono quindi beneficiare di un congedo equiparabile a quello concesso in occasione del matrimonio, dei permessi mensili ex L. 104/1992 per l’assistenza del partner con handicap in condizione di gravità, di congedi straordinari per assistere familiari in situazioni di accertata gravità, delle tutele previste dai CCNL in caso di trasferimento di un lavoratore coniugato o con familiari a carico, delle prestazioni assistenziali sanitarie previste dai CCNL, di tutte le tutele previste dai CCNL in presenza di un coniuge, delle detrazioni fiscali per familiari a carico, delle indennità in caso di decesso del prestatore di lavoro unito civilmente, delle provvidenze in materia previdenziale erogate dall’INPS e dalla previdenza complementare introdotta dalla contrattazione collettiva.
Ed ancora, la presunzione di nullità del licenziamento intimato in concomitanza con il matrimonio si estende anche al licenziamento intimato in concomitanza di un’unione civile ovvero dal giorno in cui le parti avanzano all’ufficiale di stato civile la richiesta di costituire un’unione civile e sino ad un anno dopo la costituzione dell’unione civile stessa. Nei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo il datore di lavoro che non voglia incorrere in un licenziamento discriminatorio dovrà tenere conto, nell’ambito dei carichi di famiglia, dell’eventuale unione civile del lavoratore.
La clausola non si applica alle norme del codice civile non espressamente richiamate nella legge e alle disposizioni in materia di adozione.
Lo stesso co. 20 recita “resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti”; in questo senso il legislatore non è intervento con una regolamentazione delle adozioni omo parentali e ha delegato la questione alle decisioni dei giudici, abdicando in parte alla sua funzione.
Sappiamo che questo “compromesso” si è reso necessario per portare a termine l’iter parlamentare della legge, ma questo risultato ha lasciato sul campo numerose questioni di estrema rilevanza giuridica che non hanno trovato soluzione univoca e che hanno ricadute nell’ambito giuslavoristico, soprattutto in materia di congedi parentali.
Se da un lato non vi è dubbio che il lavoratore genitore biologico di un minore nell’ambito di un’unione civile possa godere di permessi e congedi, quali diritti ha il genitore sociale?
Da un punto di vista puramente giuridico, il legame è rilevante solo a seguito del riconoscimento, in via giudiziaria o amministrativa, del rapporto di filiazione fra il genitore sociale e il figlio biologico del suo partner nell’ambito di un’unione civile.
La fotografia ad oggi è quindi quella di un contesto in cui gli uniti civilmente godono di diritti reciproci ma sono limitati nel godimento dei diritti rispetto ai figli non biologici in assenza del riconoscimento del rapporto di filiazione.
Detto ciò, tenuto fermo quanto riconosciuto, il punto cruciale è capire come ci si possa muovere nell’ambito del vuoto normativo che richiede sin d’ora tutela a fronte del fatto che la realtà è più avanti di quella descritta dal legislatore.
Una soluzione importante ai temi prima evidenziati è rappresentata dagli interventi che, nel contesto della contrattazione collettiva, sono stati proposti per definire criteri di accesso che non si fermano al puro dato normativo e consentono di raggiungere livelli di protezione più equi, al di là dell’equiparazione frutto della norma di legge.
Quando si menziona la contrattazione collettiva, si intendono i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria, ciò ai sensi dell’art. 51 del D. Lgs. 81/2015.
Vero è che la contrattazione collettiva nazionale ha recepito la nuova legge dando esplicitamente atto dell’intervenuta equiparazione dei diritti degli uniti civilmente a quelli propri dei coniugi, in alcuni casi in maniera espressa per i singoli istituti (CCNL Energia e Petrolio; CCNL Commercio Terziario Distribuzione e Servizi PMI) in altri casi con una clausola di carattere generale che consentisse l’equiparazione in tutte le parti del contratto (CCNL Federculture).
Mentre rimane ancora appannaggio delle singole imprese giocare d’anticipo rispetto all’ordinamento giuridico vigente e proporre soluzioni innovative ai propri dipendenti o predisponendo policy di elargizioni unilaterali oppure definendo con le rappresentanze sindacali “diritti sociali contrattati”.
Nel corso della prima parte del convegno analizzeremo gli effetti, diretti e indiretti, espliciti e impliciti, di queste politiche aziendali attraverso gli esempi pratici illustrati da chi, sul tema, ha deciso di tracciare un solco importante.
Vi ringrazio per l’attenzione e lascio la parola a Igor Suran, direttore esecutivo di Parks, che ha accettato con entusiasmo di collaborare alla realizzazione di questo convegno e senza l’aiuto del quale oggi non saremmo qui.
A Igor spetta il compito di coordinare la tavola rotonda.
Sarà molto interessante condividere le esperienze di queste aziende che sono un punto di riferimento per i datori di lavoro che stanno intraprendendo un percorso di inclusione globale.
Sono certa che riusciremo a trasmettere il messaggio positivo nel quale crediamo e cioè che l’inclusione fa bene alle persone, ma fa molto bene anche alle aziende che la mettono in pratica.