Rassegna stampa

Il principio di parità di genere nel progetto di Costituzione tunisina e il nostro articolo 3

La notizia. Il 7 gennaio 2014 l’Assemblea costituente tunisina ha approvato, con 166 voti a favore su 188 votanti complessivi, un articolo della...

La notizia.
Il 7 gennaio 2014 l’Assemblea costituente tunisina ha approvato, con 166 voti a favore su 188 votanti complessivi, un articolo della futura Costituzione del Paese, introducendo la parità di genere nelle assemblee elette e specificando che: “Tutti i cittadini e le cittadine hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri davanti alla legge senza alcuna discriminazione”, trovando così un punto di incontro tra gli islamici di Ennahda (al governo) e l’opposizione laica.
Il nuovo testo, inoltre, dispone che: “lo Stato garantisce i diritti acquisiti dalle donne e lavora per sostenerli e svilupparli”, sottolineando che “lo Stato garantisce le pari opportunità tra donne e uomini” e “prende le misure necessarie per eliminare la violenza contro le donne”.
Alcune organizzazioni internazionali per i diritti umani, tra le quali Amnesty International e Human Rights Watch, hanno osservato che la norma introdotta sul divieto di discriminazione di genere avrebbe dovuto specificare quali sono i diritti dei cittadini e, soprattutto, indicare il parametro di riferimento, ovvero affermare che la discriminazione è proibita per quanto riguarda la razza, il sesso, la lingua, la religione, le idee politiche, l’origine sociale e lo status. Così recita l’art. 3 della Costituzione italiana che, non solo nella prima parte della sua formulazione sancisce il principio di uguaglianza formale , ma prosegue affermando: “E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Questa seconda parte dell’art. 3 Cost. fonda il principio di uguaglianza c.d. sostanziale.


Il caso italiano.
In dottrina si è osservato che primo e secondo comma dell’articolo 3 Cost. rifletterebbero il fragile equilibrio tra l’anima liberale e quella socialista della Carta costituzionale varata nel secondo dopoguerra e, di conseguenza, corrisponderebbero a due distinte concezioni della parità tra gli individui: la prima consisterebbe nella parità di trattamento, in situazioni uguali, nell’avere la possibilità di acquisire un determinato bene della vita (la casa, il lavoro, l’istruzione), la seconda, invece, riguarderebbe l’effettivo godimento del bene, in relazione alle sue precipue caratteristiche (quel tipo di casa, di lavoro, d’istruzione). La corrente dottrinale appena riportata mette in luce i contrasti tra primo e secondo comma dell’articolo 3 Cost.: il secondo comma della norma in esame sarebbe fornito di un elemento di giustizia capace di convertire l’eguaglianza in equità o in egualitarismo. L’antitesi fra le due disposizioni si concretizzerebbe fra l’eguaglianza che tratta gli uomini as equals (come se lo fossero), e l’eguaglianza che li tratta equally.
Dalla contrapposizione fra eguaglianza ex primo comma ed egualitarismo racchiuso nel secondo comma dell’art. 3 Cost. discenderebbero alcuni corollari; primo tra tutti sarebbe il grado di generalità che viene imposto alla produzione normativa, massimo nel primo comma e minimo nel secondo. Affermando che la legge è uguale per tutti, il principio di eguaglianza formale procede attraverso discipline unificanti e l’interpretazione più restrittiva condurrebbe al divieto di leggi personali, mentre, il principio di eguaglianza sostanziale si esprime attraverso normative di settore (le donne, i neri, i portatori di handicap) e “contesta quindi alla radice ogni distinzione fra il disporre e il provvedere” .
Inoltre, se il primo comma misura la coerenza interna dell’ordinamento, il secondo è proteso a un modello in divenire e “perciò risponde ad una regola eteronoma rispetto a quella vigente nel diritto positivo”. Infine, il terzo corollario dell’opposizione fra primo e secondo comma risiederebbe nel fatto che il principio di eguaglianza sostanziale, introducendo un elemento di giustizia, pone in dubbio l’ammissibilità del giudizio di ragionevolezza che la Corte ha sempre condotto sulla scorta del principio di eguaglianza formale. In altre parole, i giudici della Corte Costituzionale in numerose pronunce si sono avvalse del primo comma dell’art. 3 Cost. e compiendo giudizi di ragionevolezza hanno potuto effettuare controlli piuttosto penetranti sulle scelte del legislatore, mentre in pochissime occasioni hanno pronunciato sentenze di accoglimento sulla scorta del principio di eguaglianza sostanziale.
In dottrina si afferma altresì che “se è consentito favorire le donne o i neri in nome del principio di eguaglianza sostanziale, ciò significa difatti che quest’ultimo legittima proprio quanto il primo comma rifiuta espressamente, e cioè le discriminazioni che traggono alimento dal diverso ruolo sociale di ciascuno. C’è quindi una faccia dell’art. 3 che vieta di discriminare secondo le condizioni sociali (presumibilmente a danno dei più deboli, ma la norma non può tutelare anche il caso inverso); e c’è un’altra faccia che all’opposto chiede di discriminare per rimuovere gli ostacoli di ordine sociale” . Il conflitto fra i due commi dell’art. 3 Cost. sfocia in un paradosso tutto interno al principio di eguaglianza sostanziale: “perché
l’eguaglianza sostanziale possa realizzarsi a pieno è necessario che sia…già realizzata”
.
Con riguardo alla natura del rapporto fra principio di eguaglianza formale e principio di eguaglianza sostanziale, il primo non risulta dotato di uno statuto gerarchicamente superiore all’altro e il loro rapporto è lo stesso che intercorre fra regola ed eccezione, dove per eccezione, naturalmente, si intende il secondo comma; venendo formulata dopo l’eccezione si impone sulla regola: “se ciò nonostante la norma della parità formale resta in vigore, è perché – come ogni regola – essa tende a riespandersi al di fuori della classe di rapporti su cui opera l’intervento compensativo: nel silenzio dell’ordinamento, vige insomma l’eguaglianza nei diritti; quella sostanziale deve essere sollecitata caso per caso” . L’ordinamento accetta la contraddizione insita nell’articolo 3 Cost. e, addirittura la riproduce in altre norme: un esempio per tutti è l’articolo 6 Cost. che impone di favorire i membri delle minoranze linguistiche, a scapito evidentemente di chi appartiene all’etnia maggioritaria.


In conclusione.
Sancire un diritto quale quello della parità di trattamento tra uomini e donne nella Carta costituzionale di un Paese (che sia l’Italia o la Tunisia), seppur necessario in quanto enunciazione cristallizzata in una fonte c.d. super-primaria, non può rimanere una formula priva di significato e contenuti.
In Italia è il secondo comma dell’art. 3 Cost. che, oltre a costituire il principio di uguaglianza sostanziale, offre copertura costituzionale alle c.d. affirmative actions (azioni positive). In riferimento a queste ultime, strumento principe di attuazione del principio di uguaglianza sostanziale, la Corte Costituzionale ha affermato che: “Trattandosi di misure dirette a trasformare una situazione di effettiva disparità di condizioni in una connotata da una sostanziale parità di opportunità, le azioni positive comportano l’adozione di discipline giuridiche differenziate a favore delle categorie sociali svantaggiate, anche in deroga al generale principio di formale parità di trattamento, stabilito nell’art. 3, comma 1, Cost.” .


Alessandra Rovescalli