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Il nuovo scenario legislativo del diritto del lavoro e l’espansione del diritto penale.

Fino allo scorso mese di marzo di quest'anno il sistema del diritto del lavoro nel nostro Paese era incardinato su un impianto normativo nato oltre...

Fino allo scorso mese di marzo di quest’anno il sistema del diritto del lavoro nel nostro Paese era incardinato su un impianto normativo nato oltre 40 anni prima (1970, Statuto Lavoratori).
Certo avevamo assistito a molte innovazioni legislative, dal Pacchetto Treu (1997), al Libro Bianco di Biagi (2003), alla Legge Fornero (2012), ma l’apparato giuridico era rimasto sostanzialmente immutato.
Un sistema incentrato su garanzie rigide, con una ampia tutela accordata al lavoratore in caso di violazione delle norme da parte del datore di lavoro: al centro di tutto c’era la garanzia del “posto di lavoro”.
Giusto o sbagliato? Non è questo il punto.
Sta di fatto che la rigidità del sistema non ha consentito che potessero esprimersi forme di tutela diverse: lo Statuto dei Lavoratori bastava e avanzava, non c’era assolutamente bisogno di dare spazio a forme alternative di protezione dei lavoratori, i quali, da parte loro, si vedevano costretti, o erano ben felici, di rinunciare alla affermazione di diritti ulteriori, ed individuali, in favore di una tutela standardizzata ma certamente assai efficace e rispetto alla quale si poteva ben facilmente rinunciare a domande il cui accoglimento appariva molto più incerto.
E, dal canto loro, gli stessi giudici erano restii a dare ingresso nelle proprie sentenze a temi nuovi, quali ad esempio quello della parità, della discriminazione, dei danni morali, di fronte ad un sistema che proteggeva, in modo forse un pò meccanico ma comunque idoneo, il lavoratore.
Ma oggi che, con il Jobs Act (2014-2015), il sistema normativo è completamente cambiato questa resistenza alla ricerca di nuove forme di tutela continuerà ad esistere?
Si assisterà ancora alla indifferenza con cui, non solo nelle aule di giustizia, ma anche nei luoghi di lavoro, si osservano fenomeni di molestie nei confronti dei lavoratori, linguaggi non appropriati, esclusioni motivate solo dalla antipatia personale, trattamenti economici e normativi non giustificati dalla competenza professionale?
Probabilmente la risposta è negativa. Soprattutto se il nostro sistema si muoverà, come si sta muovendo, verso un modello incentrato sulla flessibilità del mercato del lavoro.
Pensiamo solo al tema della discriminazione quasi del tutto misconosciuto nel nostro Paese e, viceversa, al centro dell’interesse e del dibattito nei paesi come gli Stati Uniti o il Regno Unito che non prevedono forme di tutela particolarmente avanzate in caso di licenziamento del lavoratore, ma dove le sentenze di risarcimento danni per discriminazione sono all’ordine del giorno e vengono portate alla attenzione delle corti domande che da noi non sono nemmeno immaginabili.
Il punto è che i sistemi normativi riflettono i mutamenti che si verificano nella società, anche solo per il trascorrere del tempo.
Il sistema del diritto del lavoro non sfugge a questa logica. E neanche quello del diritto penale.
Tutti sappiamo che affinché vi possa essere sanzione penale bisogna che sia la legge a stabilirlo, in forza del principio di legalità, sulla base delle scelte che il legislatore compie, dando attuazione al sistema dei valori che emerge dalla società. Sono scelte di politica legislativa. Si assiste a volte, però, ad una dilatazione della sfera applicativa della fattispecie incriminatrice da parte della giurisprudenza che, per rispondere a nuove istanze di tutela, rischia in alcuni casi di non rispettare il dettato della norma e, quindi, il principio di tassatività.
Sino ad oggi la proposta di riduzione di mansioni e retribuzione, e la sua accettazione da parte del lavoratore, è stata inquadrata nell’ambito della volontà negoziale delle parti, attesa la capacità di resistenza del lavoratore protetto da una tutela forte. Ma domani, quando l’alternativa al rifiuto potrebbe essere il licenziamento con le tutele ridotte che conosciamo, sarà ancora così? O magari, in assenza delle ragioni che legittimano la dequalificazione, ci si potrà spingere sino al punto di ritenere che, a determinate condizioni, venga integrata una data fattispecie di reato, specie nei casi che vedano protagonisti soggetti deboli o svantaggiati o in aree del paese in condizioni economiche depresse dove è difficile il reperimento di una nuova occupazione?
D’altra parte si riscontrano già, ad esempio, sentenze di condanna per estorsione ai danni del datore di lavoro che, con la minaccia larvata di licenziamento, abbia costretto il lavoratore ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate, e più in generale condizioni di lavoro contrarie alla legge e ai contratti collettivi (cfr., tra le altre, Cass. pen., Sez II, 10/10/2014, n. 677; Cass. pen., Sez. II, 27/11/2013, n. 50074).
Si potrebbe, quindi, assistere in misura sempre più evidente alla utilizzazione in ambito lavorativo di alcune fattispecie di reato nate e pensate per ambiti del tutto diversi, come ad esempio i maltrattamenti in famiglia (cfr. Cass. pen., Sez. VI, 19/03/2014, n. 24642) o lo stalking (cfr. Trib. Taranto, 07/04/2014, n. 176) per punire penalmente condotte assimilabili al mobbing.
Ci troviamo, quindi, in presenza di un mix di elementi del tutto nuovo: riforma del sistema delle tutele del diritto del lavoro e loro sostanziale affievolimento, mutazione del sentire collettivo con aumentata sensibilità verso valori fino ad oggi sconosciuti o sottovalutati, espansione del diritto penale che viene piegato a tutela di beni e diritti che normalmente resterebbero al di fuori del suo alveo.
Si tratta di una congiuntura che può portare verso esiti del tutto imprevedibili, ma attraverso la quale il diritto del lavoro non passerà del tutto indenne.
Non si tratterà certamente di un processo breve e necessariamente lineare, ma alla fine ci troveremo in presenza di un mondo del lavoro disegnato in modo del tutto diverso da come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi.
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