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Il No della Consulta al referendum sull’articolo 18.

La Consulta ha bocciato il quesito referendario sulla reintroduzione dell'articolo 18, mentre ha ammesso quelli riguardanti i voucher e la...

La Consulta ha bocciato il quesito referendario sulla reintroduzione dell’articolo 18, mentre ha ammesso quelli riguardanti i voucher e la responsabilità negli appalti. Il cuore del Jobs Act non sarà dunque oggetto del referendum proposto dalla CGIL.
Il quesito referendario mirava non solo a ristabilire la versione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (quello che vietava il licenziamento dei lavoratori nelle aziende con più di 15 dipendenti se non per giusta causa) precedente la Riforma introdotta dal governo Renzi, ma si proponeva, altresì, di ampliare il suo ambito applicativo estendendolo anche alle aziende con meno di 15 ma più di 5 dipendenti. In sostanza, si chiedeva non tanto di “abolire l’abolizione” della vecchia norma ma di reintrodurre e allargare i confini della reintegrazione in caso di licenziamento illegittimo.
La CIGL ha annunciato di voler andare avanti con la sua battaglia, proponendo ricorso alla Corte Europea contro la riforma voluta dal governo Renzi: strada comunque accidentata proprio perché il quesito referendario proposto sembra avere più valore di innovazione legislativa (che un referendum non può avere, per la legislazione italiana) che abrogativo.
Nel frattempo si discute sugli effetti della riforma del lavoro sull’occupazione in base ai dati pubblicati lo scorso 9 gennaio dall’Istat sul suo sito. Secondo questi dati, nel periodo compreso tra novembre 2015 – novembre 2016 è aumentato il numero di occupati dello 0,9% (pari a + 201 mila) a causa della diminuzione del numero degli inattivi, ma è aumentata anche la disoccupazione del 5,7%, sempre a causa del calo del numero degli inattivi. La disoccupazione è aumentata in particolare nella fascia di lavoratori compresi tra i 15 ed i 49 anni (+ 6,6% nella fascia 15-24 anni; + 10.8% nella fascia 25-34 anni e + 5.2% nella fascia 35-49 anni), mentre è diminuita per i lavoratori dai 50 anni in su (- 3,4%).
Dunque se è vero, come molti hanno sostenuto, che con l’escamotage del licenziamento disciplinare (non suscettibile, secondo la riforma del Jobs Act, di reintegrazione) di fatto si sono spalancate per le aziende le possibilità di licenziare i propri dipendenti, ci si chiede come mai la fascia più colpita dalla disoccupazione sia quella dei più giovani, che dovrebbe essere la meno esposta ai licenziamenti (i giovani non lavorano perché non vengono assunti, non perché vengono licenziati). Se è vero, infatti, che il contratto a tutele crescenti consente un più facile licenziamento dei neo assunti (generalmente più giovani degli over 50), resta la possibilità per le aziende di licenziare il personale più anziano (mediamente più costoso) attraverso lo strumento della procedura disciplinare. C’è da chiedersi, dunque, se il dato della mancata discesa della disoccupazione sia veramente imputabile al Jobs act, come sembra sostenere la CGIL, e non piuttosto ad altri fattori come la fragilità della ripresa economica, la bassa produttività e oneri complessivi sul lavoro che in Italia rimangono fra i più elevati d’Europa.
Hanno passato, invece, il vaglio della Consulta i quesiti referendari riguardanti i voucher per il lavoro occasionale e sulla la responsabilità solidale appaltante-appaltatore negli appalti. Secondo la CGIL con il governo Renzi i voucher (già introdotti dal governo Monti) si sono trasformati da strumento dedicato per lo più alle imprese agricole, di pulizie e a pochi altri settori marginali, a strumento di larga diffusione, utilizzabile pressoché in qualsiasi ambito lavorativo. Inoltre, è stato innalzato il limite del compenso annuo percepibile dal singolo dipendente da 5.000 a 7.000 euro. Il Jobs Act, a prescindere dall’ambito lavorativo, definisce infatti occasionali tutte le prestazioni lavorative il cui compenso annuo (1 gennaio – 31 dicembre) non ecceda il valore di 2.000 euro netti da parte di ogni singolo committente e 7.000 netti da parte della totalità dei committenti. Ogni voucher ha un valore nominale di 10 euro dei quali 7,5 euro netti vengono riscossi dal lavoratore ed il resto confluisce nelle casse dell’INPS e dell’INAIL a titolo di contributi previdenziali e assistenziali. Secondo la CGIL, che chiede l’abolizione dello strumento voucher, questa impostazione avrebbe di fatto provocato o quanto meno incentivato il proliferare del precariato. Nei fatti, nel corso del 2016 è notevolmente aumentato il numero dei voucher venduti, passato dai 24 milioni del 2013 (per un controvalore di 240 milioni lordi pari a compensi netti di 180 milioni per i lavoratori) ai 121,5 milioni dei primi dieci mesi del 2016 (pari a un miliardo e 215 milioni lordi, di cui più di 911 milioni di compensi netti).  Secondo l’INPS (per il quale si è speso in favore dei voucher il presidente Tito Boeri, che ha anche notato come fra i principali utilizzatori dello strumento vi sia proprio la CGIL verso i suoi collaboratori) e l’INAIL in realtà i voucher non avrebbero favorito il precariato ma fatto emergere una fetta importante di lavoro nero, consentendo un notevole recupero contributivo. Tuttavia lo stesso governo (e il partito di maggioranza PD) hanno dichiarato pubblicamente che lo strumento voucher richiede una “messa a punto” per evitarne un uso improprio come forma di incentivo al precariato: se questa riforma fosse avviata entro tempi parlamentari ragionevoli (entro la prima quindicina di aprile) probabilmente verrebbe a cadere anche il referendum proposto dalla CGIL su questo tema.
Sul fronte degli appalti si vogliono abrogare le norme della legge Biagi che limitano la responsabilità solidale tra appaltante e appaltatore dei confronti del lavoratore, estendendo la tutela di quest’ultimo anche in caso di fallimento o impossibilità a provvedere ai risarcimenti economici da parte dell’appaltatore rivalendosi sull’appaltante.
La consultazione referendaria, per legge, dovrebbe svolgersi tra il 15 aprile ed il 15 giugno prossimo. Salvo che nel frattempo non vi siano interventi legislativi che modifichino le due norme di cui si propone l’abrogazione o in caso di elezioni politiche anticipate, nel qual caso le consultazioni (sempre salvo interventi legislativi in merito) potrebbero slittare al 2018.