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Europa e lavoro: una diga contro l’alluvione della globalizzazione.

Quale è stato l'impatto di 60 anni di unità europea sulle condizioni dei lavoratori nell'Unione? L'analisi di come sono cambiate le regole che...

Quale è stato l’impatto di 60 anni di unità europea sulle condizioni dei lavoratori nell’Unione? L’analisi di come sono cambiate le regole che riguardano il lavoro guardando attraverso il filtro della legislazione europea offre un significativo esempio di come l’integrazione abbia prodotto effetti positivi, portando ad una profonda revisione del quadro normativo senza per questo necessariamente penalizzare i lavoratori, allo stesso tempo spesso introducendo principi del tutto estranei se non addirittura sconosciuti alla nostra cultura. Questo appare ancora più sorprendente se si pensa che fino alla inizi degli anni 90 sembrava che gli effetti delle direttive europee dovessero essere di scarsa rilevanza e impatto su una normativa nazionale del lavoro che, si diceva allora, era “molto più avanzata” rispetto a quella europea. Dove per “più avanzata” si intendeva di solito più protettiva nei confronti dei lavoratori, quindi decisamente più rigida. Il recepimento delle direttive comunitarie, lo ricordiamo, non può infatti comportare un peggioramento delle condizioni dei lavoratori rispetto alle leggi vigenti nei paesi membri.
Quindi l’idea di base è stata quella di “importare diritti, mai retrocedere”. Ma quali diritti ci sono arrivati dall’Europa? In realtà molti, anche se non sempre percepiti dall’opinione pubblica. Il primo esempio lampante è quello della legge sui licenziamenti collettivi: sull’onda delle condanne inflitte dalla Corte Europea è stata dapprima introdotta, sostituendo gli accordi interconfederali (mancanza attuazione direttiva 129/75) e quindi profondamente cambiata con l’inserimento anche dei dirigenti fra i lavoratori protetti dalla legge (CGE sentenza C-596/2012 13/2/14 che ha censurato l’Italia per il mancato recepimento della Direttiva 98/59/CE).
Tuttavia non si tratta di un caso isolato. In realtà situazioni simili si sono verificate in molti settori che sono stati pesantemente condizionati dalle direttive europee, con conseguenze importanti per la tutela dei lavoratori. Si pensi per esempio al decreto legge, di chiara derivazione europea, oggi in discussione davanti al Parlamento sulla responsabilità solidale negli appalti, o alla normativa in tema di trasferimento di ramo d’azienda oggi estesa anche alla successione di imprenditori negli appalti, che già aveva garantito una serie di tutele per i lavoratori del tutto sconosciute alla legge precedente al 1990. E si tratta di tre esempi limitati ai tempi più recenti.
Quello che è riscontrabile non è stato soltanto un cambiamento nelle singole norme, ma anche e soprattutto un cambiamento culturale. Un esempio per tutti. Per quanto il tema della non discriminazione trovi già un importante riconoscimento delle norme contenute nella Costituzione e nello Statuto dei Lavoratori, approvato oltre 50 anni fa, i concetti di discriminazione indiretta e di parità di trattamento come oggi lo conosciamo sono entrati nel comune sentire soltanto in seguito alle Direttive Comunitarie 43/2000 e 78/2000, poi recepite le leggi 215 e 216 del 2003.
Ma anche la più importante riforma della legge sul lavoro cui il nostro paese ha assistito dal 1970, il Jobs Act, è frutto dell’apertura della nostra società alle sempre più pressanti istanze arrivate dall’estero che hanno spinto il legislatore ad agire per una modernizzazione, ormai improcrastinabile, del mercato del lavoro. Mercato del lavoro divenuto più aperto anche grazie alla libertà di stabilimento e movimento garantita dalla comunità europea, che si è dotata di un sistema di protezione sociale per i lavoratori espatriati che consente di poter lavorare all’estero senza subire gravi pregiudizi nella propria posizione previdenziale. Uno strumento formidabile di mobilità interstatale e di giustizia sociale, indispensabile supporto ad una apertura del mercato del lavoro che consente oggi a migliaia di giovani italiani di poter lavorare all’estero.
Il nostro mercato del lavoro si sarebbe aperto in misura uguale anche senza gli effetti e la spinta delle direttive europee? Credo sia lecito pensare di no, almeno non con altrettanta velocità e profondità. L’Europa ci ha costretto a cambiare, a fare delle scelte che la politica nazionale forse non avrebbe saputo affrontare con altrettanta chiarezza e decisione.
Certo, è anche lecito avere delle perplessità. Per qualcuno può apparire sorprendente che le direttive comunitarie abbiano da una parte comportato un aumentato di garanzie per i lavoratori e dall’altra spinto a flessibilizzare quello stesso mercato del lavoro che veniva regolato. Ma la verità è che la partecipazione attiva e convinta a una comunità fatta di soggetti con culture e sistemi legislativi diversi, se non in alcuni casi contrastanti, ha fatto sì che anche il nostro paese abbia potuto beneficiare di un’ottica culturale più ampia, di un’evoluzione della legislazione sociale e del suo inserimento a pieno titolo in un sistema internazionale senza i quali oggi la competitività del sistema paese sarebbe probabilmente polverizzata. Non posso affermare che sia stata l’Europa a darci la spinta al cambiamento, ma di certo, senza l’aiuto di una legislazione europea che ci ha aiutato ad affrontare la globalizzazione (che sarebbe arrivata comunque, direttive o non direttive) l’impatto culturale e legislativo della trasformazione sarebbe stato molto più traumatico.