Il decreto di attuazione del Jobs Act prevede la possibilità di assegnare il lavoratore a mansioni inferiori alla sua qualifica, ma anche un vero e proprio “patto di dequalificazione”. L’obiettivo di rendere il mercato più dinamico creando nuova occupazione e la rinuncia a diritti fondamentali.
Dalla mansione inferiore al patto di dequalificazione
C’era una volta il divieto di trasferimento del lavoratore a mansioni inferiori e la nullità di ogni patto contrario, con qualche deroga (ma con il diritto al mantenimento della retribuzione corrispondente alla mansione originaria), per esempio nel caso di inidoneità fisica (articolo 42 decreto legislativo n. 81/2008) o, previo consenso dello stesso lavoratore, per evitare il licenziamento per giustificato motivo: secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, la tutela della professionalità non avrebbe potuto porsi imperativamente in contrasto con l’interesse alla conservazione del posto di lavoro.
C’era una volta, ma adesso non c’è più.
Dopo la novella dell’articolo 2103 codice civile a opera del decreto legislativo n. 81/2015, dentro una categoria legale una mansione vale l’altra: basta una “modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore” per assegnarlo, d’imperio, a “mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore”.
Il trasferimento deve, però, essere comunicato in forma scritta a pena di nullità, deve prevedere, se necessaria, una specifica formazione (quale? quella professionale o solo quella imposta dal testo unico della sicurezza?) e, soprattutto, permette di conservare il livello di inquadramento e il trattamento retributivo goduto (a eccezione, ovviamente, degli elementi retributivi non previsti nella nuova mansione).
Parrebbe non esserci un granché di cui lamentarsi e poco importa se il lavoratore non è d’accordo: potrà sempre dimettersi rispettando (o pagando) il preavviso e se, invece, si rifiuterà di svolgere le mansioni inferiori sarà presumibilmente licenziato per inadempimento contrattuale (giusta causa).
Ma le nuove regole non finiscono qui perché l’art. 2103 cc contiene anche la disciplina del “patto di dequalificazione”, ossia il mutamento peggiorativo concordato delle mansioni o della categoria, in passato occasionalmente richiesto dal lavoratore (e ammesso dalla giurisprudenza) per tutelare un suo interesse (ma senza sollecitazione da parte del datore) e verbalizzato presso la Direzione territoriale del lavoro. Da oggi in sede protetta o di fronte alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali fra datore e lavoratore (il secondo, se vuole, assistito da un rappresentante sindacale, da un avvocato o da un consulente del lavoro), per modificare le sue mansioni, la categoria legale, il livello di inquadramento e la relativa retribuzione: una vera e propria rinunzia (con possibile transazione?) a un diritto ormai disponibile. Accordi nell’interesse di chi e di cosa? Ovviamente, nell’interesse del lavoratore alla conservazione del posto, all’acquisizione di una diversa professionalità (ma inferiore a quella di prima) o al miglioramento delle condizioni di vita (meno oneri, meno stress, meno onori, meno retribuzione ma vita più tranquilla).
Ma la nuova disciplina della mobilità verso il basso è uno strumento di flexicurity aziendale o la probabile anticamera del licenziamento? In teoria, una tutela in più, perché può consentire un fisiologico adattamento (anche grazie all’obbligo formativo) utile per allungare la vita attiva e tenere le persone al lavoro più a lungo. In realtà, un possibile grimaldello in mano al datore di lavoro che, potendo demansionare in maniera più o meno arbitraria e molto significativa i lavoratori assunti con i vecchi contratti (più onerosi e meno flessibili), potrà avere la tentazione di “spingerli” alle dimissioni e sostituirli con lavoratori assunti con il contratto a tutele crescenti, per lui più conveniente sotto il profilo economico sia in entrata (sgravi contributivi) che in uscita.
Certo, per quanto riguarda il licenziamento oggettivo, rimangono le tutele dell’obbligo di “repêchage”, ossia della ricollocazione del lavoratore all’interno dell’azienda (adesso, potenzialmente, ampliabile a tutte le mansioni disponibili), del tentativo obbligatorio di conciliazione (articolo 7, legge n. 604/1966), dell’impugnazione e del ricorso in giudizio e per le dimissioni, forse, la giusta causa e la relativa indennità di preavviso. Il “gioco” non è così scontato. Ma in attesa degli orientamenti della giurisprudenza, una falla è stata aperta.
Un rapporto di lavoro destrutturato
Resta da capire quanto la falla risponda alle reali intenzioni del legislatore, ma non c’è dubbio che l’impianto della riforma vada nel senso di un rapporto di lavoro sempre più destrutturato rispetto ai suoi elementi costitutivi: mansione, categoria lavorativa, livello di inquadramento, retribuzione e stabilità del posto di lavoro (in entrata e in uscita). L’esigenza è di ampliare il turn-over occupazionale, riequilibrare la professionalità fra insiders e outsiders, ridurre i costi di sostituzione del personale, garantire a tutti sicurezza nella flessibilità. La scommessa è rendere il mercato più dinamico creando nuova occupazione. E alla fin fine, non è così importante se il lavoratore per conservarla dismette, rinunciandovi, un diritto fondamentale (spesso faticosamente ottenuto “sul campo”). Basta che non dismetta anche la sua dignità personale e professionale per la cui protezione dinamica molto dipenderà dalla nuova disciplina dei servizi e delle politiche attive per il lavoro di cui si aspetta l’approvazione: il testo di legge, da solo, non è in grado di risolvere il dilemma.
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