“Email e smartphone, a distanza la tutela dei dati diventa una questione social” – Giulietta Bergamaschi intervistata dal Corriere della Sera

La Managing Partner di Lexellent Giulietta Bergamaschi è stata intervistata da Barbara Millucci per Il Corriere della Sera Economia sul tema della tutela dei dati per le aziende che applicano lo smartworking.
Secondo l’avv. Bergamaschi, la diffusione del lavoro da remoto ha comportato un cambio di prospettiva nel monitoraggio degli beni aziendali da parte dei datori di lavoro, i quali si rendono sempre più conto dell’importanza degli asset immateriali.
[…] La tutela del patrimonio è subordinata all’adozione di policy adeguate e di strumenti tecnici di difesa, tutto per evitare abusi, attacchi informatici o trasmigrazioni di dati a beneficio di un nuovo datore di lavoro concorrente“.
L’articolo completo in formato PDF è disponibile qui.

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“Lexellent-Crea alleati in esclusiva” – l’intervista ai managing partner su MAG

Sul MAG n. 159 di Legalcommunity, l’approfondimento sulla best friendship siglata da Lexellent con Crea Avvocati e l’intervista alla nostra Managing Partner Giulietta Bergamaschi e al Managing Partner di Crea Roberto Rovero.

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MAG incontra i managing partner delle boutique che hanno appena sigliato una best friendship. “Ci presentiamo con un’offerta di servizi complementari”.
L’articolo completo è disponibile qui.

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“L’Italia, prima in Europa, ha ratificato la Convenzione OIL sull’eliminazione della violenza e delle molestie sul luogo di lavoro” l’articolo di Marco Chiesara e Valentina Messana per NT Plus

Su NT+ Diritto è stato pubblicato un articolo a firma di Marco Chiesara, Partner di Lexellent, e Valentina Messana, Associate di Lexellent, dal titolo “L’Italia, prima in Europa, ha ratificato la Convenzione OIL sull’eliminazione della violenza e delle molestie sul luogo di lavoro“.
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“Il provvedimento riconosce, innanzitutto, nella violenza e nelle molestie sul lavoro ipotesi di abuso o violazione dei diritti umani capaci di rappresentare una minaccia alle pari opportunità. […]

Nelle sue premesse, la Convenzione OIL n. 190 del 2019 afferma, quindi, l’importanza della diffusione di una cultura del lavoro, basata sul rispetto reciproco e sulla dignità dell’essere umano, come mezzo di prevenzione della violenza e delle molestie che colpiscono sproporzionatamente donne e ragazze impedendone l’ingresso e la progressione nel mondo del lavoro.

È, dunque, riconosciuta la necessità di un approccio inclusivo che intervenga sulle cause e sui fattori di rischio, ivi compresi gli stereotipi di genere e gli squilibri nei rapporti di potere dovuti al genere, e contribuisca allo sviluppo sostenibile delle imprese, all’accrescimento della loro reputazione e della loro produttività.”

 
L’articolo completo è disponibile qui.

Forbes: Lexellent tra i 100 Professionals 2021

Lexellent è presente per il secondo anno consecutivo nello speciale 100 Professionals di Forbes, rassegna annuale dei principali player del mercato legale italiano.
Lexellent ottiene questa menzione grazie a una squadra di professionisti ben collaudata, che ogni giorno lavora con impegno e dedizione per portare esperienza e innovazione nel mondo del lavoro in Italia.
L’elenco dei 100 professionisti presente sul magazine e l’estratto dedicato a Lexellent sullo speciale sono disponibili in formato PDF a questo link.

Pink Power 2021: su ItaliaOggi la mappa del potere al femminile negli studi

Anche quest’anno l’inchiesta Pink Power di ItaliaOggi Sette, a cura di Antonio Ranalli, racconta il mondo degli studi legali nella loro componente femminile.
Nel ranking la nostra Managing Partner e Co-fondatrice Giulietta Bergamaschi, per il suo impegno dedicato alle pari opportunità nel mondo del lavoro e al rafforzamento della practice di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.
L’articolo completo è disponibile qui.

“Avvocate al comando”: Giulietta Bergamaschi tra le professioniste segnalate su MAG da Legalcommunity

In occasione della Giornata internazionale della donna, Legalcommunity ha dedicato un focus su MAG alle avvocate che ricoprono posizioni apicali all’interno degli studi, costruendo un vero e proprio censimento delle professioniste con ruoli manageriali all’interno dei principali studi legali italiani. Tra le avvocate menzionate non può certamente mancare la nostra managing partner, Giulietta Bergamaschi.
Secondo i dati riportati nell’articolo, il 45% dei business lawyer in Italia sono donne, ma nei primi 50 studi legali attivi in Italia le socie sono solo il 21%. Un gap decisamente marcato, che si somma a quello salariale: il divario reddituale tra le avvocate e i colleghi uomini è pari a -55%.
Dati allarmanti che non possono che stimolare ulteriormente l’impegno che Lexellent ha intrapreso sin dal primo giorno nella lotta contro la disparità di genere, per un mondo del lavoro sempre più inclusivo.
Il focus completo su MAG è disponibile qui.

Parità di genere, inclusione e datori di lavoro: che fare per uscire dalla pandemia con un vantaggio competitivo – Una riflessione di Giulietta Bergamaschi

Questo 8 marzo 2021 – Giornata internazionale della donna – assume un significato composito se si guarda a cosa è accaduto e abbiamo vissuto dal marzo 2020 in avanti.
La pandemia ha messo in luce le persistenti disuguaglianze del mondo del lavoro nella società europea ed italiana. A titolo di esempio, nel 2020 il governo britannico ha adottato la sorprendente decisione di sospendere la segnalazione del gender pay gap.
Sotto il profilo della parità di genere, il 2020 ha visto gran parte del peso della pandemia portato dalle donne. Le donne sostenevano anche in precedenza il maggior carico delle responsabilità di assistenza, ma questa tendenza è stata acuita dalla pandemia. Le responsabilità dell’istruzione a distanza – argomento di discussione in Italia in questi giorni – ne sono un esempio.
Questa disuguaglianza di genere si ridurrà nel 2021? I cambiamenti che ci attendiamo nel mercato del lavoro e lo shock economico causato dalla pandemia da COVID-19 stanno avendo pesanti effetti sull’occupazione femminile e ne avranno sui livelli salariali. A causa degli effetti del Covid-19, 1 donna su 2 ha visto peggiorare la propria situazione economica, e sempre 1 donna su 2 si dice più instabile economicamente e teme di perdere il lavoro (dall’indagine “La condizione economica femminile in epoca di Covid-19” realizzata da Ipsos per WeWorld a marzo 2021).
Ancora una volta, a meno che non ci sia una pressione politica che affronti seriamente la questione della parità di genere, è probabile che poco cambi a livello generale. Sotto questo profilo, non so ancora cosa aspettarmi da questo Esecutivo. È auspicabile che anche nel nostro paese venga valorizzata l’iniziativa europea #halfofit, nata per chiedere alla Commissione europea e al Consiglio europeo di rispettare l’articolo 23 della Carta europea dei diritti fondamentali in cui si afferma che “la parità tra donne e uomini deve essere garantita in tutti i settori, compreso l’impiego, il lavoro e la retribuzione
Però c’è sempre un però. Che cosa potrebbe significare tutto questo per i datori di lavoro e l’occupazione nel 2021? da settembre 2020 sostengo che i datori di lavoro devono avere un ruolo fondamentale nella ricostruzione dell’economia e dell’attività economica del Paese.
Il mercato del lavoro sarà diverso e ci sarà bisogno di nuovi talenti; e ritengo che i datori di lavoro che faranno propria l’agenda dell’uguaglianza, della diversità e dell’inclusione, saranno quelli che più probabilmente attireranno quei talenti.
Come è accaduto negli ultimi anni, ci saranno organizzazioni che continueranno a fare propria l’agenda dell’uguaglianza – con obiettivi sempre più inclusivi – e altri datori di lavoro che, per non rimanere indietro, seguiranno la loro scia.
L’esperienza del 2020 e di questo inizio di 2021 ha portato molti datori di lavoro a sostenere il lavoro a distanza, anche in un’ottica di pari opportunità, e tale posizione è altamente probabile che dia loro un vantaggio competitivo nel mercato dei talenti e quindi del lavoro e dell’economia.
In concreto, cosa dovrebbero fare i datori di lavoro?
Impegnarsi e continuare a sviluppare subito le strategie di uguaglianza, diversità e inclusione o iniziare a farlo.
Rivedere le politiche, le procedure e le condizioni di impiego, per assicurarsi che le organizzazioni siano adatte ad accogliere talenti diversi.
Identificare le eventuali barriere all’inclusione e eliminarle, sostenendo in questo particolare momento i talenti femminili, senza lasciare nessuno indietro.
A partire, ovviamente, dai consigli di amministrazione.
 
A cura di Giulietta Bergamaschi – Managing Partner di Lexellent

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Lexellent e Crea Avvocati siglano un accordo di “best friendship”

Milano, 21 febbraio 2021 – Lexellent, Studio legale specializzato in Diritto del Lavoro con sede a Milano e Roma e Crea Avvocati, Studio con focus sul Diritto Societario e sul Diritto Penale d’impresa, con sede a Piacenza e a Milano, hanno stretto un accordo di “best friendship” che vede in Marco Chiesara, Partner di Lexellent e Of Counsel di Crea Avvocati, l’ispiratore di questa operazione.
Tale alleanza permette a entrambi gli Studi di assistere i propri Clienti con un’offerta di consulenza più ampia e articolata. In particolare, se Crea Avvocati si rafforza in materia di Diritto del Lavoro, Lexellent consolida la propria practice di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro con competenze in ambito penalistico e integra le competenze nel campo del diritto delle nuove tecnologie e della privacy.
Per Giulietta Bergamaschi, Managing Partner di Lexellent, “Sono molto felice di questa alleanza che poggia le proprie fondamenta su valori comuni e su una collaborazione consolidata nel tempo. Sono convinta che da queste premesse entrambi gli Studi saranno ancora più capaci di rispondere alle esigenze dei Clienti”.
L’avvocato Roberto Rovero, Managing Partner di Crea Avvocati aggiunge che “lo scambio reciproco di conoscenze e la complementarietà delle attività sono un vantaggio competitivo che entrambi gli Studi possono sviluppare. Il valore dei professionisti coinvolti e la loro capacità di condividere saperi ed esperienza rappresenta per i Clienti una ulteriore garanzia di qualità”.
 
La rassegna stampa (in aggiornamento) è disponibile qui.

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Webinar “Fondamenti giuridici della brand reputation: lineamenti di responsabilità e risarcimento”, Renato D’Andrea tra i relatori

Martedì 9 febbraio, a partire dalle ore 15.00, si terrà il webinarFondamenti giuridici della brand reputation: lineamenti di responsabilità e risarcimento”, organizzato dall’Università degli Studi di Napoli in collaborazione con il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli.
Tra i relatori, il nostro Of Counsel Renato D’Andrea, che parlerà di Tutela Codicistica della Brand Reputation.
L’evento è aperto al pubblico previa iscrizione, eseguibile esclusivamente tramite PC o Tablet a questo link.

“Natale, gli studi non rinunciano a sostenere gli enti non profit”, Marco Chiesara intervistato da ItaliaOggi

Su ItaliaOggi è stato pubblicato un articolo che raccoglie le testimonianze di alcuni studi legali che, nonostante le diverse modalità dettate dalle necessità pandemiche, non hanno rinunciato agli eventi natalizi e alla beneficenza. Tra questi non poteva mancare Lexellent.
Come raccontato da Marco Chiesara nell’intervista, Lexellent ha organizzato un concerto di Natale in live streaming, grazie al quale ha potuto supportare I Pomeriggi Musicali, realtà fondamentale del panorama sinfonico milanese. Oltre ad offrire supporto al settore culturale, molto provato dall’emergenza in atto, Lexellent agirà anche sul piano umanitario, destinando dei fondi a We World, ONG impegnata nella tutela dei diritti di donne e bambini, per la costruzione di presidi sanitari in Burundi.
L’articolo completo è disponibile a questo link.

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Concerto di Natale 2020

Il 14 dicembre 2020 si è tenuto il primo concerto di Natale in streaming di Lexellent.
Durante l’evento, si è esibito un quartetto d’archi facente parte dell’orchestra I Pomeriggi Musicali, composto da Fatlinda Thaci (violino), Laura Cuscito (violino), Laura Vignato (viola) e Andrea Favalessa (violoncello). I brani eseguiti sono il Divertimento n.1 in re magg. KV 136 di Mozart ed il Quartetto n.2 op.33 “Joke” di Haydn.
Cogliamo l’occasione per ringraziare coloro che hanno scelto di seguire l’evento in diretta. Qualora ve lo foste perso o aveste il piacere di rivederlo, trovate di seguito il video completo.
Il concerto è disponibile a partire dal minuto 16 del video.

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Evento in diretta streaming: quartetto d’archi dei Pomeriggi Musicali

Lexellent è lieto di invitarvi al suo Concerto di Natale in live streaming, durante il quale si esibirà un quartetto d’archi dell’orchestra i Pomeriggi Musicali.
L’evento si terrà lunedì 14 dicembre dalle ore 18. Sarà possibile assistere al concerto direttamente da questa pagina.

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D.L. 9 novembre 2020, n. 149 – Fondo straordinario per sostegno degli enti del Terzo settore

Nell’ultimo Decreto Legge emanato dallo Stato, in conseguenza della crisi economica degli enti del Terzo settore, causata dalle misure di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, all’art. 15 è istituito il “Fondo straordinario per il sostegno degli enti del Terzo settore” con una dotazione di 70 milioni di Euro per l’anno 2021 destinato a interventi in favore:
a. delle organizzazioni di volontariato iscritte nei registri regionali e delle Province autonome di Trento e Bolzano, ex L. n. 266/1991;
b. delle associazioni di promozione sociale iscritte nei registri nazionale, regionali e delle Province autonome di Trento e Bolzano, ex L. n. 383/2000;
c. delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale (ONLUS) di cui all’art. 10 del D. Lgs. n. 460/1997, iscritte nella relativa anagrafe.
Al fine di assicurare l’omogenea applicazione di tale misura sul territorio nazionale, i criteri di ripartizione delle risorse di tale fondo tra le Regioni e le Province autonome verranno stabiliti con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle Finanze, previa intesa in sede di Conferenza Stato – Regioni. Il contributo erogato attraverso il fondo non è cumulabile con le misure previste agli artt. 1 e 3 del c.d. “Decreto Ristori”.
Per Marco Chiesara, Responsabile del Dipartimento Terzo Settore di Lexellent e Presidente di WeWorld ONLUS “questi fondi straordinari sono fondamentali per tutte le associazioni e organizzazioni del terzo settore che hanno svolto e stanno svolgendo all’interno delle comunità nelle quali operano un ruolo decisivo in questa fase emergenziale. Molte realtà senza questi fondi potrebbero chiudere, ci auguriamo tutti che questo non debba accadere”.

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Concerti in streaming per I Pomeriggi Musicali: il presidente della Fondazione Giovanni Battista Benvenuto sul Corriere della Sera

Giovanni Battista Benvenuto, Partner di Lexellent e Presidente della Fondazione I Pomeriggi Musicali, è stato intervistato dal Corriere della Sera in merito all’iniziativa dei concerti in streaming. A differenza di altre realtà del mondo sinfonico, infatti, la fondazione non ha sospeso le attività ricorrendo alla cassa integrazione per i dipendenti, ma ha deciso di avviare la 76esima Stagione Sinfonica dell’orchestra i Pomeriggi Musicali online, continuando a lavorare e trasmettendo i concerti in streaming.
«In un momento difficile come quello che ci troviamo nuovamente ad affrontare, I Pomeriggi Musicali, d’accordo con il direttore Maurizio Salerno, hanno scelto la via dello streaming… Potevamo scegliere il silenzio o la musica. Abbiamo scelto con convinzione la seconda dandoci una risposta alla domanda: avendo noi la possibilità di continuare a lavorare, sarebbe eticamente corretto fermare tutto, lasciare il nostro pubblico senza musica e accedere agli ammortizzatori sociali, sottraendo così risorse fondamentali per chi invece non ha la possibilità di continuare a fare il proprio lavoro?».
L’intervista completa è disponibile qui: https://milano.corriere.it/notizie/cronaca/20_novembre_14/i-pomeriggi-musicali-continuano-streaming-meglio-suonare-che-cassa-integrazione-8a5b6680-26a7-11eb-bd3c-8e368a362c56.shtml

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“Help desk e app dedicate per aiutare i clienti durante l’emergenza” – Il questionario Lexellent sul Sole 24 Ore

Su Il Sole 24 Ore è stato pubblicato un articolo a firma di Elena Pasquini sulle iniziative messe in atto dagli studi legali per aiutare i propri clienti a fronteggiare l’emergenza Covid-19.
Tra le meritevoli iniziative descritte nell’articolo anche quella di Lexellent, che ha supportato le aziende tramite la creazione di una survey gratuita con cui è possibile verificare il proprio stato di conformità alle norme vigenti in materia di prevenzione del contagio.
“Semaforo rosso, giallo, verde come risultato della survey, online e gratuita, lanciata da Lexellent a luglio per fare verificare la compliance alle norme di contenimento del virus. Oltre cento i questionari compilati dalle aziende, operative soprattutto in campo farmaceutico, food, largo consumo, metalmeccanico e trasporti. ‘La pandemia impone una gestione in tempo pressoché reale delle criticità’, sottolinea la managing partner Giulietta Bergamaschi, e detta l’agenda delle priorità.”
L’articolo completo è disponibile qui: https://www.lexellent.it/wp-content/uploads/2020/11/20201109-Lexellent-Rassegna-Help-Desk.pdf

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“Il distacco dei lavoratori di aziende italiane in Brasile: uno sguardo alla disciplina bilaterale” – l’articolo di Francesco Bacchini e Giacomo Guarnera per NT+ Diritto

Su NT+ Diritto è stato pubblicato un articolo a firma di Francesco Bacchini e di Giacomo Guarnera dal titolo “Il distacco dei lavoratori di aziende italiane in Brasile: uno sguardo alla disciplina bilaterale”. Di seguito l’abstract dell’articolo:
“La globalizzazione dei mercati, la crescita del fenomeno delle M&A e delle joint venture, l’internazionalizzazione delle imprese e lo sviluppo di nuovi strumenti di cooperazione (si pensi al contratto di rete) sono alcuni degli elementi che, negli ultimi decenni, hanno sollecitato la dimensione internazionale di molte realtà imprenditoriali.
Nel villaggio globale, la relazione italo-brasiliana risulta ulteriormente rafforzata e rilanciata da rilevanti investimenti e da una massiccia presenza di imprese italiane operanti in territorio brasiliano.
Conseguenza naturale di una siffatta penetrazione del mercato è la necessità per molte aziende italiane di inviare in Brasile, per periodi più o meno lunghi, personale specializzato per lo svolgimento di determinate attività o per la realizzazione di progetti e strategie di impresa.
Da questa esigenza di maggiore chiarezza e soluzioni per le aziende italiane che operano e investono in Brasile è nata naturalmente l’idea di collaborazione tra gli studi legali Guarnera Advogados (São Paulo e Belo Horizonte), leader nell’assistenza alle imprese nei rapporti tra questi Paesi, e Lexellent (Milano e Roma), boutique legale d’eccellenza nel campo giuslavoristico.”
L’articolo completo è disponibile per gli abbonati al link seguente: https://ntplusdiritto.ilsole24ore.com/art/il-distacco-lavoratori-aziende-italiane-brasile-sguardo-aola-disciplina-bilaterale-ADO8Tzy

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“Decreto semplificazioni”: la “nuova” diffida accertativa per crediti patrimoniali e l’estensione della responsabilità all’effettivo utilizzatore della prestazione – L’articolo per NT+ Diritto

Su Norme e Tributi plus Diritto – il Sole 24Ore è stato pubblicato un articolo a firma di Giulietta Bergamaschi, managing partner Lexellent, e Chiara D’Angelo, associate, relativo alle novità d’interesse aziendale previste dal Decreto Semplificazioni.
Di seguito l’abstract:
“Introduce significative novità per le aziende il D.L. 16 luglio 2020, n. 76 (più noto come “Decreto Semplificazioni”), convertito con L. 11 settembre 2020, n. 120, pubblicata in Gazzetta Ufficiale lo scorso 14 settembre.
Ad attribuire particolare interesse all’intervento in commento sono, nello specifico, le modifiche apportate al D. Lgs. 124/2004, contenente la regolamentazione delle funzioni ispettive in materia di previdenza sociale e di lavoro; normativa che in tale occasione viene non solo rivisitata sotto il profilo procedurale, ma anche arricchita di importanti riferimenti di portata sostanziale.
Le novità segnalate in questa sede – ripercorse anche nella recente Circolare dell’INL del 05 ottobre 2020 – attengono, nello specifico, alla disciplina in tema di diffida accertativa per crediti patrimoniali in favore dei prestatori di lavoro: provvedimento adottato dalla Direzione del lavoro per intimare il pagamento, entro 30 giorni, di somme dovute ai prestatori di lavoro per accertate “inosservanze alla disciplina contrattuale” (art. 12 D. Lgs. 124/2004).”
L’articolo completo è qui disponibile per gli abbonati: https://ntplusdiritto.ilsole24ore.com/art/decreto-semplificazioni-nuova-diffida-accertativa-crediti-patrimoniali-e-estensione-responsabilita-effettivo-utilizzatore-prestazione-ADWFHWw

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“Infortunio Covid e linee guida INAIL”: l’articolo di Giulietta Bergamaschi per la newsletter AIDP

All’interno della newsletter AIDP è stato pubblicato un articolo a firma di Giulietta Bergamaschi, managing partner di Lexellent, contenente una panoramica sulle linee guida INAIL in merito alle misure da prendere in caso di infortunio da Covid-19.
Come è noto, l’infezione da Covid-19, quando sia presumibilmente stata contratta sul luogo di lavoro, è considerata a tutti gli effetti tra le casistiche che comportano l’attivazione della tutela prevista per gli infortuni sul lavoro mediante trasmissione dal medico di opportuno certificato. Il datore di lavoro è dunque tenuto, venuto a conoscenza del contagio, ad informare l’ente previdenziale. All’interno dell’articolo vengono riportate le specifiche casistiche e le conseguenze di tale misura.
L’articolo è disponibile qui: https://www.aidp.it/aidp_be/ALLEGATI/DOC/7/ARTICOLO_BERGAMASCHI_NEWSLETTER_2020.pdf

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“Il lavoratore può rifiutarsi di andare in trasferta durante l’emergenza Covid?” – L’editoriale di Francesco Bacchini per IPSOA Quotidiano

Su IPSOA Quotidiano è stato pubblicato un editoriale di Francesco Bacchini dal titolo “Il lavoratore può rifiutarsi di andare in trasferta durante l’emergenza Covid?”
Se in condizioni normali un lavoratore è tenuto a rispettare l’incarico del datore di lavoro e ad andare in trasferta, qualora egli lo richieda, a prescindere dalla propria volontà, in un momento come quello attuale, in cui una trasferta può rappresentare un pericolo significativo per la salute e la sicurezza del lavoratore, questo precetto continua ad essere valido?
Per ricevere una risposta esaustiva a questa domanda potete leggere l’articolo al seguente link: https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2020/10/03/lavoratore-rifiutarsi-andare-trasferta-emergenza-covid

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“Smart working a prova di pandemia”: il commento di Giulietta Bergamaschi per Le Fonti Legal

Giulietta Bergamaschi, managing partner di Lexellent, è stata intervistata da Le Fonti Legal in merito all’applicazione del lavoro agile nel contesto dell’emergenza Covid-19.
L’avv. Bergamaschi sostiene che il ricorso al lavoro agile sia stato gestito in questo contesto quale modalità operativa emergenziale e non come applicazione di uno “smart working” in senso stretto. Le maggiori difficoltà riscontrate dalle aziende sono legate all’aspetto organizzativo, ma dal punto di vista normativo è stato necessario tutelare il patrimonio immateriale delle aziende e fornire indicazioni ai dipendenti affinché il lavoro da remoto fosse svolto nel rispetto delle norme di sicurezza.
L’articolo completo è disponibile qui: https://www.lefonti.legal/smart-working-a-prova-di-pandemia/

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La ripresa delle trasferte di lavoro all’estero e rischi da contagio Covid-19: Francesco Bacchini per RSPP Italia

Sul portale RSPP Italia è stato pubblicato un articolo a firma di Francesco Bacchini sul tema delle trasferte di lavoro all’estero in relazione al rischio da contagio Covid-19.
Con la ripresa delle attività lavorative e con l’evolversi della situazione dei contagi su piani differenti da paese a paese, è opportuno valutare con attenzione l’opportunità delle trasferte all’estero per i propri collaboratori. All’interno dell’articolo vengono presentati i procedimenti da attuare per effettuare tale valutazione in maniera ottimale.
L’articolo è disponibile a questo link: https://www.lexellent.it/wp-content/uploads/2012/11/RSPPITALIA-COVID-19-TRASFERTE-BACCHINI2-1.pdf

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Martedì 29 settembre il webinar Diretta Lavoro – Strategie per il settore culturale

Martedì 29 settembre, dalle 18 alle 19, si terrà il terzo ed ultimo webinar del ciclo “Diretta Lavoro” organizzato da Lexellent, dal titolo “Strategie per il settore culturale”.
Durante il seminario si delineerà una panoramica delle conseguenze dell’emergenza sanitaria sulle realtà del settore culturale, si analizzeranno dunque le possibili strategie che le aziende coinvolte potranno seguire per superare con successo questo momento.
Interverranno Stefano Bruno Galli, assessore all’Autonomia e Cultura di Regione Lombardia, Filippo Del Corno, assessore alla Cultura del Comune di Milano, e Andrea Cancellato, Presidente di Federculture e Project Manager di Fondazione ADI. Modererà l’incontro Giovanni Battista Benvenuto, Partner Lexellent.
La partecipazione è gratuita, è possibile iscriversi inviando una mail a lexellent@lexellent.it

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Legalcommunity Labour Awards 2020: Giorgio Scherini Avvocato dell’Anno Previdenza Sociale

Siamo lieti di annunciarvi che l’avv. Giorgio Scherini è stato premiato come Avvocato dell’Anno per la categoria Previdenza Sociale ai Legalcommunity Labour Awards 2020.
Di seguito le motivazioni:
“Professionista tra i più segnalati in quest’area. Tra l’attività più recente da segnalare, su tutte, l’assistenza che lo studio sta fornendo ad uno dei principali attori del tech nell’intera ri-esaminazione della struttura degli agenti.”

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Lavoro sicuro post virus: un questionario online

La Repubblica – Su Affari & Finanza è stato pubblicato l’articolo sul tema dell’applicazione delle normative relative alla sicurezza sul lavoro nel contesto dell’emergenza Covid-19. All’interno dell’articolo, il commento del Prof. Francesco Bacchini, responsabile del dipartimento sicurezza di Lexellent, il quale ha sottolineato come la pandemia abbia messo in luce l’importanza delle misure di tutela dei lavoratori.
 
“Non si ferma il dibattito sulle novità normative in materia di sicurezza sul lavoro introdotte in seguito all emergenza sanitaria Covid- 19, tenendo anche conto di una possibile recrudescenza della pandemia nelle città e sui luoghi di lavoro. Quali le responsabilità per i datori di lavori per la gestione delle misure di prevenzioni della diffusione del virus? Lo abbiamo chiesto ad alcuni dei maggiori giuslavoristi italiani, che in questi mesi hanno dovuto affiancare le aziende nelle decisioni relative alla gestione dell emergenza Coronavirus.”
 
L’articolo completo è qui disponibile in versione pdf.

Lexellent partner di Global Inclusion 2020: l’intervista a Giulietta Bergamaschi

Anche quest’anno Lexellent avrà il piacere di partecipare al progetto di Global Inclusion. L’11 settembre, dalle 12.00 alle 15.30, verrà trasmesso in streaming un ciclo di interventi sul tema dell’inclusività, tra cui un’intervista alla nostra managing partner Giulietta Bergamaschi.
La partecipazione è gratuita, potete trovare le modalità di registrazione, il programma dell’evento e ulteriori informazioni sul sito di Global Inclusion: https://www.global-inclusion.org/home.php

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“Sicurezza, la normativa Covid alla prova della ripresa del lavoro” – l’intervista a Francesco Bacchini per ItaliaOggi

Il prof. Francesco Bacchini è stato intervistato da Antonio Ranalli, ItaliaOggi, sul tema dell’applicazione delle normative anti Covid relative alla sicurezza sui luoghi di lavoro. Dall’intervento del prof. Bacchini si rileva come l’emergenza Coronavirus abbia puntato nuovamente i riflettori sull’importanza della tutela fisica dei lavoratori e come questo rinnovato interesse possa auspicabilmente tramutarsi in un tratto assodato del vivere civile.
L’articolo è disponibile per gli abbonati a questo link:https://www.italiaoggi.it/news/sicurezza-la-normativa-covid-alla-prova-della-ripresa-del-lavoro-2472398

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Lavoro sicuro post virus: un questionario online

La RepubblicaAffari & Finanza ha intervistato il Prof. Francesco Bacchini, responsabile del dipartimento di sicurezza sul lavoro di Lexellent, in merito a quanto la pandemia abbia contribuito a sensibilizzare gli imprenditori sul rispetto delle misure di sicurezza sul lavoro, ma anche quanto risulti per loro difficile assicurarsi di star rispettando tutte le norme. Per questi motivi Lexellent ha ideato un questionario per aiutare le aziende a monitorare la propria conformità ai protocolli anti Covid-19.
 
***
 
«Il test, la cui idea parte dall’esperienza di assistenza legale e tecnica che abbiamo maturato durante il periodo di emergenza, è articolato in alcune domande che consentono di effettuare una veloce autoverifica della propria situazione. Al termine si possono ottenere tre diversi risultati: semaforo verde se si è in regola, arancione se ci sono dei punti da migliorare e rosso se c’è necessità di rivedere tutto il protocollo aziendale.»
 
L’articolo completo è qui disponibile in versione pdf.

Misure anti Covid-19: la tua Azienda è sicura? Verificalo con il questionario Lexellent

Lo Studio Lexellent ha pensato a come fornirvi un ulteriore contributo per adattare i luoghi di lavoro alla c.d. “nuova normalità”.
 
Per un tempo che non sappiamo prevedere, infatti, bisognerà adottare misure utili a contrastare la diffusione del virus Covid-19, così da essere rispettosi delle regole previste dai protocolli di sicurezza e al sicuro da responsabilità civili e penali.
 
Per aiutarvi in questo compito, abbiamo creato un questionario on-line che potrete completare in pochi minuti. 
 
Alla fine del questionario riceverete via e-mail un messaggio che vi informerà rispetto al vostro grado di conformità alla normativa anti Covid-19.
Vai al questionario.

Smart working da Covid-19 a fine corsa? Ragioniamo sugli scenari futuri

Di seguito l’articolo a firma del Prof. Francesco Bacchini pubblicato da IPSOA, relativo ai possibili scenari futuri dello smart working a fine emergenza Coronavirus.

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L’ascesa dello smart working è destinata ad una battuta d’arresto una volta finita l’emergenza Coronavirus? A oggi non è possibile fare previsioni. Una cosa è certa però: una volta tornati nei tradizionali luoghi deputati al lavoro – uffici, fabbriche, studi professionali, laboratori, negozi, ecc. – il lavoro agile deve (ri)trovare una dimensione normativa unitaria. Ciò potrà avvenire sia superando, in particolare, la deroga, emergenziale, alla stipulazione degli accordi individuali fra datore di lavoro e lavoratori, sia, all’opposto, disciplinando ex novo il lavoro agile. Un intervento normativo auspicato anche dal Piano Colao. Riuscirà a restituire ad aziende e lavoratori lo smart working nella sua natura novitaria e flessibile?

 
Il lavoro agile o, com’è abitualmente chiamato, lo smart working, aggettivabile “pandemico”, continua a essere al centro sia delle attenzioni (e delle polemiche) giuspolitiche che di variegate aspettative sociali, oscillando fra chi, i c.d. “abitatori delle caverne” (ossia quelli affetti dalla c.d. sindrome della “caverna”, mutazione emergenziale e parimenti costrittiva del mito di platoniana memoria, prima, seconda o terza poco importa, bella, grande, confortevole, magari al mare o in montagna che è ancora meglio) ne propugna un uso generalizzato e sine die e chi, invece, ritiene che si debba tornare alla normalità, ossia in ufficio, in fabbrica, in studio a riprendersi la vita sociale e, in modo pregiudizialmente polemico, a lavorare sul serio.
Sulla maggiore o minore produttività del lavoro da remoto, prima e, soprattutto, durante la pandemia, si è detto e scritto tutto e il suo contrario. Certamente il fenomeno è stato strumentalmente enfatizzato, nel bene e nel male, ma sull’importanza della sua momentanea e seppur non integrale utilizzazione durante le prime fasi dell’emergenza sanitaria e poi nel corso del lockdown, possono nutrirsi ben pochi dubbi. Non così, però, può affermarsi in merito all’impianto normativo decretato dal Governo per piegare la disciplina del lavoro agile alle esigenze dell’isolamento sociale, derogando sia ai vincoli e alle regole sancite nell’accordo individuale che all’informativa (e alla valutazione dei rischi) in materia di sicurezza del lavoro.
L’irresistibile odierna ascesa dello smart working, che molti vorrebbero (surrettiziamente) stabilizzare, è infatti insita nella sua impropria funzione di comoda misura segregativa anti-contagio (per così dire a costo zero) applicabile a diversi milioni di lavoratori.
Tale misura, invero mai imposta (tranne che nel pubblico impiego) sebbene fortemente raccomandata, pur avendo permesso la parziale continuità operativa di molti processi produttivi e una piena stabilità retributiva per i prestatori che hanno potuto utilizzarla, non discende da scelte pianificate e stabili esigenze organizzative aziendali, bensì dalla pragmatica necessità di lavorare permanentemente da casa durante il lockdown, necessità che è già venuta meno e, auspicabilmente, sarà completamente superata nei prossimi mesi.
Pertanto, perdurando o terminando l’emergenza sanitaria dopo il 31 luglio o, indipendentemente da questa, arrivando la disciplina speciale fino al 31 dicembre 2020, lo smart working “pandemico” necessita ormai di un sistematico e non rinviabile intervento normativo. Infatti, tanto nel caso in cui, seguitando il rischio sanitario, si imponga una normale anormalità con necessaria transizione verso nuovi paradigmi di lavoro incentrati sulla progressiva e stabile remotizzazione della prestazione, quanto in quello, decisamente preferibile, nel quale, finita l’emergenza, il lavoro torni a essere reso nei tradizionali luoghi ad esso deputati, uffici, fabbriche, studi professionali, laboratori, negozi, ecc., il lavoro agile deve (ri)trovare una dimensione normativa unitaria e durevole.
Ciò potrà avvenire sia restituendo all’ordinamento giuslavoristico l’originaria disciplina di cui al titolo II della l. n. 81/2017, superando, in particolare, la deroga, emergenziale, alla stipulazione degli accordi individuali fra datore di lavoro e lavoratori, sia, all’opposto, disciplinando ex novo la fattispecie, ormai irrimediabilmente ibridata da svariati e confusi precetti estemporanei aventi finalità preventivo-protettive e surrogative di servizi e prestazioni di natura pubblicistica non più universalmente garantibili (che, ovviamente non gli competono), avendo cura, però, di non appesantire l’istituto imponendone il ricorso “di diritto” ed evitandone la forzata sindacalizzazione che, come avvenuto per il telelavoro, finirebbe per rappresentarne il sicuro fallimento.
Tutto quanto senza tralasciare il fatto che la produttività del lavoro agile, tanto evocata in tempi di Covid-19, necessiterebbe quanto meno di puntuali e argomentate verifiche, giacché il dubbio che per molti lavoratori l’attività prestata, in modo improvvisato, in smart working, tanto nel pubblico quanto nel privato, sia stata finalizzata principalmente ad attendere agli impegni domestici e familiari adattando a questi il lavoro (comunque pagato al 100%), è, probabilmente a torto, difficile da fugare.
Ciò nonostante, prescindendo dal futuro assetto dell’istituto (che giocoforza dovrà necessariamente affrontare anche la questione del quantum salariale che tenga conto della circostanza che la prestazione è resa da casa così come la faccenda di chi sopporti i costi tecnici imprescindibili per rendere possibile la prestazione da remoto, come ad es. quelli della connessione internet), ai sensi dell’art. 1, lett. ll)-a), D.P.C.M. 11 giugno 2020, per le attività professionali, il lavoro agile continua ad essere la modalità di attuazione raccomandata e anche il Protocollo Governo – Parti sociali del 24 aprile (allegato 12 del decreto) ne suggerisce ancora il ricorso quale misura di contrasto e di contenimento della diffusione del virus Covid-19.
Anzi, in forza dell’art. 90 del D.L. 34/2020, fino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica da Covid-19, il lavoro agile parrebbe evolvere da modalità concordata di prestazione lavorativa subordinata da eseguirsi parzialmente a distanza, in diritto soggettivo per tutti i genitori lavoratori dipendenti del settore privato i quali hanno almeno un figlio minore di anni 14 (l’art. 39 del D.L. n. 18/2020, convertito con modificazioni dalla l. n. 27/2020 e modificato sempre dal D. L. n. 34/2020, ha previsto un diritto similare per i lavoratori disabili o affetti da gravi e comprovate patologie con ridotta capacità lavorativa o immunodepressi e per i familiari conviventi di persone immunodepresse), sebbene a condizione che nel nucleo familiare non vi sia altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa o che non vi sia genitore non lavoratore e, da ultimo, a patto che lo smart working risulti compatibile con le caratteristiche della prestazione da eseguire.
In attesa, dunque, dell’intervento normativo auspicato anche dal “piano Colao” che, invero alquanto genericamente, suggerisce di “puntare alla definizione di una disciplina legislativa dello smart working per tutti i settori, le attività e i ruoli (manageriali e apicali inclusi) compatibili, con attenzione alla pari fruibilità per uomini e donne, che lo qualifichi come opzione praticabile per aziende e lavoratori, in particolare nell’ottica della creazione di nuova impresa e/o nuovi posti di lavoro”, risulta inevitabile, de iure condito, analizzare attentamente in particolare la disciplina del richiamato art. 90 del D.L. n. 34.
Come anticipato tale norma sancisce il diritto, relativo in quanto condizionato a specifiche situazioni giuridiche e fattuali, del lavoratore genitore di figlio/i di età minore/i di 14 anni, di svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile anche in assenza degli accordi individuali, sempreché, ovviamente, tale modalità sia compatibile con le caratteristiche dell’attività lavorativa. La questione che merita di essere indagata è se il datore di lavoro sia obbligato, fino al 31 luglio 2020, a concedere il lavoro agile per l’intero orario normale settimanale a chiunque abbia un figlio infra quattordicenne, oppure se possa negarlo almeno parzialmente. Si deve innanzitutto rilevare che, come abbiamo già avuto modo di vedere, pur essendo raccomandato il massimo utilizzo della modalità di lavoro agile per tutte le attività che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza, il lavoro agile non è mai stato reso obbligatorio dalla decretazione emergenziale quale misura di sicurezza e salute e la sua utilizzazione non può certo essere pretesa e, laddove mancante o parziale, neppure contestata dagli organi di vigilanza e controllo pubblici. Muovendoci all’interno di questo perimetro normativo, è possibile ritenere che il ricorso al lavoro agile da parte del datore di lavoro resti, dunque, una facoltà e non un obbligo giuridico. E ciò anche nel caso di cui all’art. 90 comma 1 del D.L. Rilancio; infatti, interpretando due passaggi della disposizione tutt’altro che perentori: il primo rappresentato dalla locuzione “anche in assenza degli accordi individuali”, il secondo dalla locuzione “a condizione che tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione”, in modo conforme della ratio alla disciplina del lavoro agile, è possibile affermare che il diritto di cui si tratta sconti due limiti rappresentati, il primo dagli eventuali accordi individuali attuativi delle policy aziendali sul lavoro agile tutt’ora vigenti (anche in assenza degli accordi individuali non significa affatto che detti accordi siano vietati), il secondo dalla compatibilità della modalità di lavoro agile con le caratteristiche della prestazione le quali ben possono essere decise dal datore di lavoro, ad esempio, fissando un limite di alternanza di ogni team impiegatizio in modo che non sia mai presente in azienda oltre il 50% dell’organico). Pare, dunque, sostenibile che il diritto al lavoro agile previsto dall’art. 90, co. 1 non sia incondizionato o assoluto, bensì debba essere esercitato all’interno dell’accordo individuale, beninteso se tale accordo esiste, o nei limiti di compatibilità con le caratteristiche della prestazione decise dal datore di lavoro.
Del resto, come sottolineato anche dall’inciso di cui al comma 4, si riscontra una netta differenziazione fra l’uso emergenziale del lavoro agile consentito ai datori di lavoro privati e quello imposto ai datori di lavoro pubblici.
Infatti, mentre nei confronti di questi ultimi, ossia delle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001, l’art. 87, comma 1, del D.L. Cura Italia, afferma che “il lavoro agile è la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa”, sancendo un vero e proprio diritto soggettivo e (quasi) assoluto del pubblico dipendente a lavorare da remoto, nei confronti dei datori di lavoro privati il lavoro agile rappresenta invece una scelta organizzativa, di sicuro fortemente raccomandata, eppure mai imposta per legge, e ciò, a ben vedere, nonostante la previsione normativa di un diritto, nemmeno nel caso dei lavoratori disabili, affetti da gravi e comprovate patologie con ridotta capacità lavorativa (per i quali è riconosciuta soltanto la priorità nell’accoglimento delle istanze di svolgimento delle prestazioni lavorative in modalità agile) o con figli minori di 14 anni. 
Nell’analisi della disciplina emergenziale del lavoro agile, merita altresì considerazione l’introduzione, sempre nell’art. 90 del D.L. Rilancio, della possibilità, come già previsto per i dipendenti pubblici, anche per i lavoratori del settore privato, che la prestazione di lavoro agile venga svolta “attraverso strumenti informatici nella disponibilità del dipendente qualora non siano forniti dal datore di lavoro”. Benché, per la verità, nella L. n. 81/2017 non si riscontri un espresso obbligo di assegnazione al lavoratore degli strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa agile da parte del datore di lavoro, risultando, pertanto, astrattamente ammissibile che il lavoratore agile possa utilizzare device propri, l’innovazione normativa risulta, comunque, piuttosto significativa. Infatti, se da una parte tale provvedimento avalla prassi aziendali la cui legittimità era prima quantomeno dubbia, dall’altra deve sensibilizzare i datori di lavoro sui molteplici rischi derivanti dalla connessione di dispositivi elettronici privati a server aziendali che custodiscono informazioni commerciali di inestimabile valore, oltre a dati personali del cui eventuale breach l’imprenditore risponde ai sensi del GDPR e della disciplina sulla privacy. Se, dunque, è legittimo far svolgere il lavoro agile tramite PC e connessioni telematiche di proprietà dei dipendenti, al tempo stesso è bene che ciò avvenga solo dopo aver messo in sicurezza tali dispositivi con l’installazione di firewall, antivirus, ecc.: o previa loro consegna all’amministratore di sistema dell’azienda, o anche, eventualmente, con apposito accesso concordato presso il domicilio del dipendente.  Altrettanto consigliabile è l’implementazione di apposite policy comportamentali, a presidio sia della cyber-sicurezza, sia della segretezza dei dati aziendali.
 
L’articolo è qui disponibile in versione pdf.

Giulietta Bergamaschi nel focus di MAG “Avvocate nostre”

MAG di Legalcommunity ha dedicato la copertina del primo numero di giugno (il n. 143), ed un ampio focus, alle donne della professione forense in Italia.
La professione forense si sta sempre più femminilizzando” riporta MAGMa nelle stanze del potere legale prevalgono ancora gli uomini. Anche se i segnali del cambiamento si vedono. Cifre alla mano“. E tra le Best 50 & more del settore, anche la nostra managing partner Giulietta Bergamaschi: “Tra le avvocate italiane che vestono i gradi di managing partner, invece, possiamo ricordare anche Giulietta Bergamaschi, alla guida della boutique giuslavoristica Lexellent” [omissis].
In breve, dall’analisi degli studi Top 50, MAG fornisce numeri e ruoli della professione legale al femminile e rileva un cambiamento in atto.
Noi di Lexellent siamo sempre in prima linea sulla parità di genere con la nostra managing partner.
Per questo, non possiamo che rallegrarcene, ben consapevoli che c’è ancora molto da fare!
Il numero completo del MAG è disponibile qui.
L’estratto del MAG “Avvocate nostre” è disponibile qui.

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Francesco Bacchini relatore al Webinar di Confindustria Bergamo: L’infortunio COVID: dal riconoscimento ai fini assicurativi ai possibili impatti in ambito penale

Il 4 giugno 2020, alle ore 15:00 si terrà il webinar organizzato da Confindustria Bergamo dal titolo: “L’infortunio COVID: dal riconoscimento ai fini assicurativi ai possibili impatti in ambito penale“.
Tra i relatori anche il nostro Prof. Francesco Bacchini

Ricordiamo che la partecipazione è gratuita previa iscrizione.
Per ulteriori informazioni contattare: n.baldi@confindustriabergamo.it
La locandina è dispobile qui.

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I 50 anni dello Statuto dei Lavoratori. L’articolo di Giulietta Bergamaschi per DDP il trimestrale di AIDP

Sul numero 193 di giugno 2020 di DDP (Direzione del Personale), trimestrale di informazione e cultura di AIDP (Associazione Italiana per la Direzione del Personale), l’articolo della nostra managing partner Giulietta Bergamaschi.
Il contributo, per la rubrica Strumenti – Mondo Legale, a cinquant’anni dall’approvazione ed entrata in vigore della Legge n. 300 del 20 maggio 1970, Statuto dei Lavoratori, è una riflessione sui diritti sindacali e, in particolare, sull’attività sindacale e l’istituto dell’assemblea.

Di seguito un breve abstract.

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I due mesi appena trascorsi ci obbligano a ripensare molte cose in chiave diversa. Quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario dall’approvazione e dall’entrata in vigore dello Statuto dei Lavoratori, la Legge n. 300 del 20 maggio 1970, un compendio di norme attorno al quale si è delineato il diritto del lavoro a cavallo di due secoli. Il modo in cui immaginavamo di celebrare questo anniversario oggi non è più possibile: lo stravolgimento che l’emergenza sanitaria ha imposto, ha comportato e continua a comportare un totale ripensamento, quantomeno nel breve e nel medio termine, del nostro modo di vivere e di lavorare. Gli eventi che avevamo pensato di realizzare per fare il punto sullo Statuto dei Lavoratori e per domandarci se fosse ancora attuale, non possono più essere realizzati con la modalità in presenza, modalità che senza il virus avremmo scelto senza porci nessun tipo di interrogativo. Soprattutto, devono essere ripensate le domande stesse che ci poniamo rispetto all’attualità o meno dello Statuto dei Lavoratori, posto che il mondo del lavoro in Italia in questi ultimi due mesi è radicalmente cambiato e questo cambiamento ci accompagnerà anche in futuro.
Prima di affrontare il tema centrale di questa riflessione, facciamo un passo indietro. La libertà di organizzazione sindacale è sancita dall’articolo 39 primo comma della Costituzione. Sebbene nel dettato della norma sia previsto il meccanismo della registrazione delle organizzazioni sindacali, tale previsione è rimasta inattuata: i sindacati si organizzano in forma associativa e agli stessi si applicano le disposizioni del codice civile in tema di associazioni non riconosciute. Con l’introduzione nel nostro ordinamento dello Statuto dei Lavoratori, il legislatore ha adempiuto agli obblighi discendenti dalla necessità di implementare misure di salvaguardia del diritto di libertà di organizzazione sindacale.”
Il contributo completo è disponibile QUI per soci ed abbonati.

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Marco Chiesara relatore al Webinar AIDP: L’apporto di terzi a favore dell’impresa: appalti, lavoro autonomo e collaborazioni coordinate continuative.

Il 4 giugno 2020, dalle ore 15:30 alle ore 18:00 si terrà il webinar organizzato da AIDP Lombardia dal titolo: “L’apporto di terzi a favore dell’impresa: appalti, lavoro autonomo e collaborazioni coordinate continuative“.
Tra i relatori anche il nostro partner Marco Chiesara.
Ricordiamo che la partecipazione è a numero limitato ed è necessario iscriversi qui.
Si parlerà di:
APPALTI E SUBAPPALTI
– L’appalto è un efficiente fattore produttivo … purché sia un vero appalto
– I lavoratori impiegati nell’appalto: quali rischi per le imprese coinvolte
– Cosa succede quando in un appalto subentra un altro appaltatore
– La certificazione degli appalti
LAVORO AUTONOMO E COLLABORAZIONI COORDINATE E CONTINUATIVE
– Quando un lavoratore è autonomo
– Le collaborazioni coordinate e continuative: la “spada” della etero organizzazione
– Scelta del tipo di rapporto e sua gestione
– Quali diritti dei lavoratori autonomi
– La gestione fiscale e contributiva dei rapporti di lavoro autonomo
– La certificazione del lavoro autonomo
La locandina è dispobile qui.

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Gig Economy: il trend mondiale che ridefinisce il mondo del lavoro

Di seguito un abstract dell’articolo a firma di Beatrice Broglio per MagZine, progetto editoriale della Scuola di giornalismo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
L’articolo analizza il trend globale della gig economy con l’aiuto del nostro Prof. Francesco Bacchini, intervistato in merito agli aspetti giuslavoristici nel settore del food-delivery, uno di quelli in cui la gig economy sta dando massima espressione.

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Impugnare il manubrio di una biciletta, premere l’acceleratore, cliccare il muose in modo meccanico.
Inizia così la vita dei gig workers, i lavoratori del XXI secolo. Tracciare i contorni della gig economy, “l’economia dei lavoretti”, non è semplice. Si tratta di disintermediazione: una piattaforma digitale permette l’incontro tra domanda on demand e offerta di gig, incarichi occasionali e temporanei. Negli ultimi anni il mondo del lavoro ha assunto forme diverse da quelle conseguenti a contratti a tempo indeterminato. Nel concreto, niente più sicurezza o garazia di futuro. Lo scenario e oggi perlopiù incerto, con mansioni spesso limitate nella durata e a cui corrispondono basse retribuzioni. Cambiano le dinamiche tra lavoratore e datore di lavoro: il rischio dell’impresa passa dal secondo al primo. E il gradimento del consumatore (le famose stelle di Uber, per esempio) condiziona la prestazione.
[omissis]
Uno dei settori in cui la gig economy si è diffusa con maggiore facilità è quella del food delivery.
«Benchè i rider costituiscano al massimo il 12% del totale dei gig workers italiani, il fatto che siano spesso al centro di indagini sociologiche e giornalistiche li ha resi “rappresentanti” di un’intera categoria di prestatori di lavoro», spiega Francesco Bacchini, docente di Diritto del Lavoro all’Università di Milano-Bicocca. Diventare rider è semplice. Non sono richieste particolai competenze nè titoli di studio. Sono sufficienti uno smartphone e un mezzo, di colito una biciclietta, con cui effettuare le consegne. Il punto più controverso è la regolamentazione.
L’articolo completo è disponbile qui.

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Nuova bandierina di legittimità per i Flagship Store

Pubblichiamo un contributo a firma di Renato D’Andrea, Of Counsel dello Studio che commenta una recente sentenza della Cassazione civile in tema di protezione legale per l’interior design degli esercizi commerciali.

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Con la sentenza n. 8433 del 30 aprile 2020 la Cassazione civile ha definitivamente riconosciuto l’esistenza di un ulteriore titolo di protezione legale per l’interior design degli esercizi commerciali, cioè per la speciale combinazione di elementi percettivi (forme di banconi, sedie, scaffalature, lampade, colorazione di tendaggi, pareti, pavimenti, selezione di rivestimenti, ecc…) che caratterizza i punti vendita monomarca (flagship store) e i negozi delle catene in franchising, laddove il cliente percepisce la brand identity fin dall’accesso al luogo fisico deputato all’atto d’acquisto.
Il retail design gioca oggi un ruolo essenziale soprattutto nel settore della ristorazione, laddove i locali storici si trasformano sovente in un mero visual concept posto poi alla base di una catena commerciale. Tanto che il consorzio Poli.design del Politecnico di Milano ha istituito degli appositi corsi di formazione per far “comprendere e gestire le problematiche della progettazione di una location dedicata al food retail o alla ristorazione, considerando spazi, attrezzature e arredi”.
Tornando al caso trattato dalla sentenza 8433/2020, l’azienda cosmetica Wycon è stata sanzionata per aver indebitamente imitato gli elementi caratteristici dei negozi di profumeria della concorrente Kiko, che configuravano una “felice e creativa combinazione di elementi, quali l’ingresso open space con ai lati due grandi grafiche retroilluminate, all’interno espositori laterali consistenti in strutture continue ed inclinate aventi parti caratterizzate da alloggi in plexiglass trasparente traforate nei quali sono inseriti i prodotti, isole a bordo curvilineo posizionate al centro dei negozi per contenere i prodotti fornire piani di appoggio, presenza di numerosi schermi TV incassati negli espositori inclinati, utilizzazioni di combinazioni dei medesimi colori (bianco, nero, rosa/viola) e di luci ad effetto discoteca”.
A tale ricca combinazione di elementi la Suprema Corte ha accordato tutela ex art.2 n.5 Legge Autore, cioè quale “opera dell’architettura”, ascrivendo così per la prima volta a un concept store una protezione autorale aggiuntiva rispetto alle altre usualmente riconosciute dalle corti di merito.
Occorre infatti ricordare che per anni il rimedio tradizionalmente esperito a difesa del retail design è stato l’azione di concorrenza sleale; vuoi in chiave repressiva dell’agire d’impresa volto a creare confusione con l’attività di un concorrente (art. 2598 n.1 c.c.), vuoi a censura della concorrenza parassitaria sincronica (ripresa contestuale di più iniziative commerciali di un competitor) lesiva del canone generale di correttezza imposto dall’art. 2598 n.3 c.c. (temi incidentalmente trattati anche dalla sentenza in commento, in sede di parziale rinvio alla corte di merito). Ma va detto che siffatte azioni personali, in contrapposizione alle actio in rem fondate su titoli di proprietà industriale brevettuali o registrativi, scontavano spesso delle difficoltà essenzialmente di natura probatoria
E’ stata quindi accolta con favore la successiva tendenza dottrinale e giurisprudenziale che ha accordato ai flagship store una protezione titolata sotto forma di marchi (tridimensionali) registrati. Ciò è accaduto sulla scia del caso degli Apple Store, che dopo aver ottenuto registrazione negli USA hanno conseguito dalla Corte di Giustizia Europea (sentenza del 10.07.2014, caso C-421/13) il riconoscimento di un diritto avanti l’Ufficio Marchi della Germania, nell’ambito di una registrazione internazionale secondo l’Accordo di Madrid.
Del resto le vie di tutela dei flagship store possono essere anche altre. Proprio la sentenza in commento ricorda che “il progetto di architettura di interni” è tutelabile anche “…come modello di design industriale, ai sensi dell’art. 2, n. 10 L.A., nei singoli elementi di cui il piano di arredamento si compone (e che possono essere utilizzati separatamente l’uno dall’altro, in quanto non conformati in modo tale da potere essere solo combinati l’uno con l’altro), proteggibili alla condizione che sia effettivamente presente un “valore artistico”; oppure ancora come “…diritto connesso, ex art. 99 L.A. (progetti di lavoro di ingegneria, laddove costituiscano “soluzione originale di un problema tecnico”, il che, nel design d’interni, è spesso difficile da individuare”, od ancora “…come marchio tridimensionale”.
A dette vie di potenziale protezione la Cassazione ha quindi ora aggiunto il richiamato art. 2, n. 5 L.A., a tal scopo ricorrendo a un’ampia nozione di opera d’architettura, tale da escludere che in essa sia elemento imprescindibile la sussistenza di una struttura immobiliare. La Corte ha però voluto definire dei precisi limiti specificando come nel progetto di interior design debba necessariamente riconoscersi “una progettazione unitaria” da cui emerga l’impronta personale e originale dell’autore.
La Corte ha in definitiva affermato il seguente principio di diritto: “In tema di diritto d’autore, un progetto o un’opera di arredamento di interni, nel quale ricorra una progettazione unitaria, con l’adozione di uno schema in sé definito e visivamente apprezzabile, che riveli una chiara “chiave stilistica”, di componenti organizzate e coordinate per rendere l’ambiente funzionale ed armonico, ovvero l’impronta personale dell’autore, è proteggibile quale opera dell’architettura, ai sensi dell’art. 5, n. 2 L.A. (“i disegni e le opere dell’architettura”), non rilevando il requisito dell’inscindibile incorporazione degli elementi di arredo con l’immobile o il fatto che gli elementi singoli di arredo che lo costituiscano siano o meno semplici ovvero comuni e già utilizzati nel settore dell’arredamento di interni, purché si tratti di un risultato di combinazione originale, non imposto dalla volontà di dare soluzione ad un problema tecnico-funzionale da parte dell’autore”.
Possiamo quindi concludere che dopo la pubblicazione della sentenza 8433/2020 è oggi lecito assumere che il concept visivo di un flagship store trovi tutela, ricorrendone i presupposti, in ben sei diversi precetti di legge, ovvero:
art. 2598 n. 1 c.c. (concorrenza sleale confusoria)
art. 2598 n. 3 c.c. (concorrenza sleale parassitaria)
artt. 7-9 C.P.I. (marchi tridimensionali)
art. 99 L.A. (progetti di ingegneria)
art. 2 n. 10 L.A. (opera del disegno industriale dotata di valore artistico)
art. 2 n. 5 L.A. (opere dell’architettura)
Per le imprese interessate al tema e per gli operatori del diritto si tratterà quindi di valutare, di volta in volta, quali siano i presupposti applicabili ad ogni caso specifico e quale possa essere la via più efficace, in applicazione coordinata delle norme suddette, per tutelare un asset immateriale strategico quale il concept visivo del punto vendita.
 

Lexellent nella classifica Studi dell’Anno 2020 redatto da “Il Sole 24 Ore” nella categoria “Diritto del lavoro e welfare”

Lexellent è stato inserito nella classifica redatta da “Il Sole 24 Ore” tra i migliori Studi Legali italiani per la categoria “Diritto del lavoro e welfare”.
Giulietta Bergamaschi, è stata inoltre intervistata da Valentina Melis come una delle rappresentanti degli studi legali di diritto del lavoro maggiormente rappresentative.
L’avvocato Bergamaschi ha parlato dell’importanza di avere, in questo particolare momento storico, un network internazionale con cui confrontarsi, nonchè della possibilità di offrire servizi ai propri clienti,  quali la sicurezza sui luoghi dei lavoro, la diversity e le questioni di genere che saranno fondamentali per il diritto del lavoro nell’imminente futuro.

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“Abbiamo cercato studi che avessero profilo e dimensioni simili al nostro. Il nostro studio ha una practice consolidata sul settore della salute e della sicurezza dei luoghi di lavoro. Durante le settimane dell’emergenza coronavirus abbiamo tenuto contatti costanti e sinergie con i colleghi, soprattutto francesi. Questo ha consentito a loro di essere aggiornati sulla normativa italiana, tramite i nostri webinar, e a tutti noi di avere aggiornamenti in tempo reale su quale fosse la situazione all’estero”.

Gli ultimi ora sono i primi – Francesco Bacchini su Business People

Francesco Bacchini è stato intervistato da Alberto Tundo di Business People in merito a quanto, in tempo di crisi da pandemia, i gig worker si siano rivelati una categoria indispensabile. Una galassia ampia e composita di cui i rider sono solo un piccolo pianeta. Eppure, la legge fatica a regolare il fenomeno.
Francesco Bacchini ha quindi spiegato chi sono i gig workers e quali sono le tutele attualmente previste in Italia per questa particolare categoria di lavoratori.
Clicca qui per leggere l’articolo in formato PDF

The Legal 500 EMEA – Lexellent nel ranking dell’Employment Italy

La guida internazionale The Legal 500 ha pubblicato i ranking 2020.
Nell’edizione EMEA – Italy, lo studio Lexellent si è aggiudicato la Band 3 per la categoria Employment.
Per consultare la guida clicca qui.

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Molte realtà sono lasciate nell’incertezza delle norme

La RepubblicaAffari & Finanza intervista il Prof. Francesco Bacchini sul DPCM che disciplina la “Fase 2”. Il punto di vista è critico e sottolinea l’incertezza del quadro normativo nel quale sono costrette ad agire le aziende, tra atti amministrativi che consentono alle Regioni di muoversi “in ordine sparso” e dunque assenza di omogeneità e coordinazione.

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«Il diritto deve avere regole certe. Ma il nuovo Dpcm rappresenta un problema incredibile per le aziende: è un atto amministrativo che consente alle Regioni di muoversi in ordine sparso, con nuove ordinanze più o meno restrittive. In un momento così delicato, sarebbe stato più utile emanare un decreto-legge che ha forza di legge e quindi avrebbe imposto alle Regioni di adottare misure omogenee su tutto il territorio nazionale. Se ripartiamo, dobbiamo farlo tutti allo stesso modo.»
L’articolo completo è qui disponibile in versione pdf.

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Finanziamenti e (co)gestione sindacale dell’occupazione. Che la notte porti consiglio…

Di seguito l’articolo a firma del Prof. Francesco Bacchini pubblicato da IPSOA, sul tema della gestione del personale, da discutersi con i sindacati, per quelle imprese che ottengano i finanziamenti garantiti da SACE.

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Il decreto Liquidità prevede che l’impresa che ottiene il finanziamento garantito da SACE debba impegnarsi a definire (probabilmente per tutta la durata del medesimo, che può arrivare a sei anni), con accordo sindacale, le eventuali riduzioni di personale che si rendessero necessarie in conseguenza delle ricadute economico-produttive dell’emergenza Coronavirus. Ma non solo. Il legislatore potrebbe aver voluto subordinare alla stipulazione di accordi con il sindacato anche altri ambiti che rientrano nella gestione della flessibilità organizzativa del lavoro, quali, ad esempio, il ricorso ai contratti a termine, il trasferimento di ramo d’azienda, la predisposizione di contratti d’appalto. A fronte di molti dubbi interpretativi sollevati dal decreto Liquidità, è lecito chiedersi: la conversione in legge porterà il giusto consiglio?

Per assicurare risorse monetarie alle imprese ubicate in Italia ed economicamente indebolite dalla pandemia in corso, il decreto Liquidità (D.L. n. 23/2020) propone, in buona sostanza, soltanto un sistema di prestito garantito dallo Stato ed erogato dalle banche. L’investimento finanziario emergenziale sancito nel D.L. per invertire le sorti della crisi economica, consiste, infatti, unicamente nella previsione che SACE S.p.A. conceda – fino al 31 dicembre 2020 – garanzie a banche ed istituzioni finanziarie nazionali e internazionali nonché ad altri soggetti abilitati all’esercizio del credito in Italia, dirette ad agevolare l’erogazione, in qualsiasi forma, di finanziamenti a imprese di ogni dimensione.
L’impegno monetario con cui SACE S.p.A. garantirà tali finanziamenti è pari a 200 miliardi di euro, di cui almeno 30 dovranno essere destinati al sostegno economico delle PMI (così come di lavoratori autonomi e di liberi professionisti titolari di partita IVA) e ciò, a ogni buon conto, a patto che tali soggetti abbiano esaurito la capacità di accesso al Fondo di garanzia per le PMI.
Con il via libera della Commissione Europea che, ex art. 1, comma 12, del decreto legge, ha approvato tali misure con due distinti provvedimenti datati 14 aprile, la disciplina è oramai, almeno sulla carta, pienamente operativa.
Tuttavia, ottenere la garanzia del finanziamento e, quindi, il finanziamento stesso, oltre a non essere automatico (e nulla quaestio), non è nemmeno, agevole, giacché il legislatore ha previsto alcune condizioni di rilascio che le imprese beneficiarie dovranno soddisfare.
Tali condizioni, elencate nelle lettere a)-n) dell’art. 1, comma 2, del D.L., sono molteplici e di varia natura (economica, contabile, dimensionale, di bilancio, di fatturato), anche se l’attenzione del giuslavorista si incentra su quanto disposto dalla lett. l), poiché, in forza di tale previsione, “l’impresa che beneficia della garanzia assume l’impegno a gestire i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali”.
L’espressione utilizzata è pacificamente generica e di incerta interpretazione; di primo acchito, essa pare evocare un vincolo di contrattazione concertata, se non addirittura introdurre un inedito obbligo di cogestione o di codecisione con il sindacato in ordine alle scelte organizzative di governo della forza lavoro in chiave economico-occupazionale.
 
In questo senso, infatti, la locuzione “gestire i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali” si deve intendere nel senso di amministrare la situazione numerica delle persone occupate nell’impresa (l’andamento delle politiche del personale) al momento del finanziamento solo a fronte della stipulazione di accordi (contratti collettivi di secondo livello aziendali o territoriali) con il sindacato (aziendale, ossia RSU/RSA, o provinciale, presumibilmente maggiormente rappresentativo a livello nazionale), dal momento che tale assunzione d’impegno (da rendere per iscritto da parte del legale rappresentante) non può che significare per le imprese garantite, quanto meno, l’essere tenute a non intervenire unilateralmente sui livelli occupazionali bensì a farlo esclusivamente previo accordo collettivo.
Prescindendo solo per un attimo dal potenziale contrasto di siffatto precetto con l’art. 41 Cost., in quanto surrettiziamente incidente sull’autonomo e libero esercizio dell’attività d’impresa, la sua ratio legis sembra essere con tutta probabilità la seguente: l’impresa che ottiene il finanziamento garantito da SACE S.p.A. deve impegnarsi (probabilmente per tutta la durata del medesimo, che, giova ricordarlo, può arrivare a sei anni), ossia si vincola, si obbliga, a definire con accordo sindacale, le eventuali riduzioni di personale che si rendessero necessarie in conseguenza delle ricadute economico-produttive dell’emergenza Covid-19.
 
Pertanto, la sintesi della locuzione in esame potrebbe essere: si può ridurre il personale, si possono effettuare licenziamenti, certo unicamente per motivi economico-oggettivi, ovviamente collettivi (per i quali è già previsto l’esame congiunto ma non necessariamente l’accordo sindacale), ma fors’anche individuali (ancorché alieni da ogni logica di negoziato collettivo), nei confronti di tutti i dipendenti, anche dirigenti, soltanto con il consenso del sindacato e nei limiti dell’accordo con esso stipulato.
Nel confuso disegno normativo emergenziale, il tentativo (incauto) di subordinare i livelli occupazionali all’accordo con i sindacati potrebbe rappresentare una misura cautelare di portata limitata e, soprattutto, eventuale, atteso che tale vincolo si rivolge solo alle imprese che ottengono il finanziamento garantito da SACE S.p.a., in vista del più che probabile venir meno del difficilmente reiterabile (essendo già in odore di incostituzionalità) divieto di licenziamento collettivo e individuale per g.m.o. di cui all’art.46 del D.L. n. 18/2020, il quale oggi stabilizza, insieme all’integrazione salariale ordinaria e in deroga con causale Covid-19, un’occupazione che, purtroppo, in molti settori economici è del tutto apparente e nient’affatto reale.
 
La norma, più un monito che un precetto vero e proprio, nella sua impalpabilità, fra l’altro nulla dice, ne fa intendere di voler dire, in ordine a due fondamentali e necessari raccordi: quello con la L. n. 223/1991 e con le regole procedurali sui licenziamenti collettivi e quello con l’art. 7 della L. n. 604/1966 e con l’art. 18 St. Lav. in materia di licenziamento per motivo oggettivo.
Sul punto è infatti lecito domandarsi se, per le imprese finanziate con garanzia SACE S.p.A., i licenziamenti risulteranno validi solo nel caso in cui in sede di procedura sindacale (ex art. 4, L. n. 223/1991) o davanti all’Ispettorato territoriale del lavoro (ex art. 7, L. n. 604/1966) venga raggiunto un accordo, ipotesi, in entrambi i casi, oggi meramente eventuale, oppure se la disciplina in esame esuli da un simile contesto, non costituendo un obbligo ma solo un onere esclusivamente finalizzato a mantenere il vantaggio della garanzia pubblica del finanziamento economico. La questione è senza dubbio assai rilevante, giacché, se si trattasse di norma imperativa, la sua violazione comporterebbe la nullità del provvedimento espulsivo adottato e, conseguentemente, a prescindere dal regime di tutela applicabile, il giudice, con la sentenza con la quale dichiarasse la nullità del licenziamento, dovrebbe ordinare la reintegrazione del lavoratore, riconoscendo allo stesso l’indennità risarcitoria piena indipendentemente dal numero di prestatori occupati dall’impresa.
 
Non va dimenticato, inoltre, che tale norma, prevedendo uno specifico diritto nei confronti delle organizzazioni sindacali, potrebbe, se trasgredita, configurare condotta antisindacale ex art. 28 St. Lav. e come tale risulterebbe suscettibile di repressione in sede giudiziale.
A ben vedere, però, la norma in esame, se interpretata in senso ampio, non rappresenterebbe soltanto un surrettizio divieto di licenziamento in assenza di accordo sindacale, potendo infatti subordinare alla stipulazione di accordi con il sindacato anche altri ambiti rientranti nella gestione della situazione numerica delle persone occupate nell’impresa, quali, ad esempio, il ricorso o meno alla stipulazione di contratti di lavoro a termine anche stagionali, alla somministrazione di lavoro, al lavoro intermittente, al trasferimento di ramo d’azienda, alla stipulazione di contratti di subfornitura e d’appalto per la realizzazione di lavori o servizi (global service) interni all’azienda, all’unità produttiva o al ciclo produttivo della stessa.
Benché tali istituti, tutti riconducibili alla flessibilità organizzativa del lavoro, interna (tipologica) o esterna (outsourcing), risultino estranei alla stabile struttura occupazionale aziendale (che la norma apparentemente si prefigge di tutelare), così da sembrare conseguentemente esclusi dal perimetro del precetto, è innegabile che la cessione di un ramo d’azienda, l’esternalizzazione di una fase del processo produttivo, il ricorso a rapporti di lavoro temporanei, discontinui ad interim, risultino tutt’altro che indifferenti, impattando anche sui livelli occupazionali dell’impresa e non soltanto in modo indiretto.
 
Del resto, la contrattazione collettiva nazionale sancisce già, di frequente, in merito alle decisioni datoriali che riguardano il ricorso strategico alla flessibilità organizzativa dei processi produttivi e del lavoro ad essi necessario, e, quindi, l’andamento delle politiche del personale, prerogative di monitoraggio, informazione e consultazione attribuite alle rappresentanze sindacali in azienda.
In conclusione, a fronte delle tante incognite e dei molti dubbi interpretativi sollevati dall’impegno alla cogestione sindacale dei livelli occupazionali imposto alle imprese dal “Decreto Liquidità”, è lecito nutrire la speranza che, come la notte, anche la conversione in legge porti il giusto consiglio, altrimenti non ci resterà, ancora una volta, che piangere!
 
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Covid-19 e contratti commerciali: quale spazio per le clausole di forza maggiore e di hardship

Di seguito l’articolo a cura del nostro associate Edoardo Gandini per IPSOA sul tema della gestione degli adempimenti contrattuali a fronte delle restrizioni imposte dai governi con particolare riferimento alle clausole di Forza maggiore e Hardship.

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Con il proseguire dell’emergenza Coronavirus sempre più aziende si trovano ad affrontare il problema della difficile gestione degli adempimenti contrattuali a causa delle restrizioni imposte dai governi alla produzione, all’esportazione di beni e all’erogazione di servizi. Per aiutare le aziende a gestire questa delicata fase appare necessaria una specifica assistenza professionale che permetta di valutare il corretto utilizzo clausole di forza maggiore e di hardship, al fine di evitare danni economici, o anche solo per mettere in campo una rinegoziazione amichevole con la controparte, perseguendo, pertanto, una win-win strategy con risparmi di tempo e di denaro.

L’attuale scenario globale stravolto e dominato dal Coronavirus (Covid-19) sta provocando – e purtroppo provocherà – una crescente crisi economica e finanziaria che investirà pienamente le relazioni industriali e gli scambi commerciali.

Effetti del lockdown sugli scambi commerciali

Le restrizioni oggi imposte dai governi di (quasi) tutto il mondo alla circolazione delle persone, alla produzione – talvolta all’esportazione – di beni e all’erogazione di servizi, nel tentativo di contrastare il virus, limitandone la trasmissione, hanno infatti quale effetto collaterale quello di soffocare intere economie e le loro attività produttive.
In particolare, oggetto di dibattito sono le conseguenze per quelle imprese che non riusciranno a far fronte alle proprie obbligazioni contrattuali, risultando così inadempienti verso altri operatori del mercato.
È noto, per dirla con il Roppo, che “[u]na volta concluso, il contratto getta un vincolo sopra le parti, le impegna, nel senso che esse non possono più sottrarsi ai suoi effetti, i quali a questo punto si producono, piaccia o non piaccia alle parti”: ogni promessa è debito, come ci tramanda la saggezza popolare, oppure, con maggiore compostezza giuridica, pacta sunt servanda, principio accolto nel nostro ordinamento all’art. 1372 c.c., secondo il quale il contratto ha forza di legge tra le parti che lo hanno sottoscritto e solo esse – e la legge nei casi previsti – hanno il potere, concordemente, di modificarlo o scioglierlo.
Ebbene, nel contesto degli scambi commerciali, la portata della cristallizzazione nel contratto della volontà negoziale assume particolare rilievo specialmente in quei rapporti destinati a durare nel tempo, magari dovendo affrontare inaspettati mutamenti delle condizioni come, per l’appunto, il terremoto pandemico in atto.

Attestazione delle Camere di Commercio e forza maggiore

A tal proposito, il Ministero dello Sviluppo Economico, il 25 marzo, ha autorizzato le CCIAA a rilasciare, su richiesta delle imprese, una attestazione in lingua inglese di “sussistenza di forza maggiore” con l’intento di offrire una sponda a quegli operatori italiani che stanno patendo gli effetti della decretazione emergenziale.
Leggi anche Coronavirus: al via le attestazioni per la sussistenza di cause di forza maggiore
Numerosi commentatori hanno dato enfasi a questa iniziativa, eppure occorre evidenziare la debolezza strutturale della predetta attestazione che non presuppone alcuna verifica della CCIAA in ordine alla effettiva impossibilità sopravvenuta sofferta dall’impresa, rappresentando tutt’al più una sorta di vidimazione della doglianza da questa lamentata.
In quale misura, dunque, le imprese italiane potranno fare affidamento su questo strumento che appare già indebolito sin dalla sua formulazione?
La forza maggiore nel contesto internazionale è definita dai Principi Unidroit (art. 7.1.7) e, per la compravendita di beni mobili, dalla CISG (art. 79.1), con enunciati pressoché coincidenti, quale impedimento estraneo al controllo del debitore, ragionevolmente imprevedibile al momento della conclusione del contratto e inevitabile e insuperabile una volta manifestatosi.
L’operatività della clausola di force majeure dipenderà quindi dal suo contenuto, dagli eventi presi in considerazione dalle parti, dalla chiarezza.
In assenza di una clausola, invece, assumerà rilevanza la disciplina della legge nazionale applicabile al contratto, con tutte le conseguenti incognite dovute alla varietà di rimedi offerti dagli ordinamenti giuridici.
Analizzando i presupposti, per quanto, da un lato, il Covid-19 rappresenti un evento certamente estraneo alla volontà di chiunque invochi la forza maggiore e fissando la soglia dell’imprevedibilità al 12 gennaio quando è stato trasmesso il primo report della NHC cinese all’OMS, dall’altro, non può tacersi la tradizionale interpretazione restrittiva della forza maggiore nelle maggiori esperienze giurisdizionali e arbitrali (in particolar modo di common law) specialmente in riferimento alla rilevanza dell’impedimento ai fini del funzionamento della clausola e al grado dello sforzo richiesto alla parte obbligata per superare l’impedimento stesso ed eseguire la prestazione con modalità alternative.
D’altronde, anche il modello 2020 di clausola di forza maggiore dell’ICC prevede che la parte che la invoca dimostri che il presunto impedimento non avrebbe potuto essere evitato o superato.
Proprio questo consolidato diniego della forza maggiore, nel contesto degli scambi commerciali internazionali, può suggerire la ricerca di soluzioni meno drastiche e orientate in senso conservativo dei rapporti in essere, quali, ad esempio, quelle della hardship.

Clausola di hardship

Come noto, la hardship, pur fondandosi sui medesimi presupposti della forza maggiore (eventi indipendenti dal controllo della parte che la invoca, per questa ragionevolmente imprevedibili e successivi alla formazione del contratto, e ragionevolmente inevitabili e inseparabili una volta manifestatisi, ICC Hardship Clause 2020), invece di operare in termini di impedimento tout court all’esecuzione della prestazione dedotta in contratto, implica accadimenti che la rendono eccessivamente più onerosa, alterando sostanzialmente l’equilibrio economico del contratto.
A parere di chi scrive, nell’attuale contesto pandemico e vista la sua diffusione su vastissima scala geografica, con pesanti ricadute comuni a un gran numero di economie nazionali, e temporale, i rimedi più cortesi offerti dalla hardship appaiono maggiormente adeguati, tendendo alla risoluzione dei conflitti con salvaguardia di contratti e progetti di sviluppo d’impresa.
In tal senso, ad esempio, la ICC Hardship Clause, premessa la tempestiva comunicazione all’altra parta dell’intervenuto scompenso al sinallagma contrattuale, per un verso, impone alle parti un tentativo di rinegoziazione, e, per altro verso, la sua recente nuova formulazione, marcando un avvicinamento ormai anche testuale al contenuto dell’art. 6.2.3 dei Principi Unidroit, dispone vie, sì alternative, ma perlopiù volte alla conservazione del contratto, piuttosto che alla sua risoluzione.
Se è vero quanto sopra, anche l’assistenza professionale alle imprese potrebbe essere ripensata, offrendo una attenta due diligence delle diverse posizioni contrattuali aperte e un servizio orientato, dapprima, alla mediation e alla rinegoziazione amichevole con la controparte negoziale, perseguendo, pertanto, quella che di questi tempi ha l’aria di essere una win-win strategy con risparmi di tempo (si pensi solo alle indagini per risalire e dimostrare la catena delle responsabilità) e di denaro, e solo successivamente, in caso di insuccesso della via conciliativa, attivare le più gravi opzioni tendenti alla risoluzione.
 
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D.P.C.M. 10 aprile 2020 – Ulteriori disposizioni attuative del D.L. n. 19/2020 (Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza Covid)

A supporto di chiunque abbia necessità di reperire informazioni sulle misure adottate dallo Stato, Lexellent mette a disposizione la seguente circolare con tutte le indicazioni, in chiave giuslavoristica, in merito alle misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da Covid-19 applicabili sull’intero territorio nazionale
 

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Con riferimento al DPCM 10 aprile 2020 si osserva, in chiave giuslavoristica, quanto segue.
Quadro di riferimento

  1. Le disposizioni del DPCM 10 aprile 2020 producono effetto dal 14 aprile 2020 e sono efficaci fino al 03 maggio 2020.
  2. Dal 14 aprile 2020 cessano di produrre effetti i DPCM 08 marzo 2020, 09 marzo 2020, 11 marzo 2020, 22 marzo 2020 e 01 aprile 2020.
  3. Si continuano ad applicare le misure di contenimento più restrittive adottate dalle Regioni, anche d’intesa con il Ministro della salute, relativamente a specifiche aree del territorio regionale.

Misure di contenimento del contagio

  1. Allo scopo di contrastare e contenere il diffondersi del virus sull’intero territorio nazionale, tre le “misure di contenimento” individuate si segnalando quelle di seguito indicate.

Per continuare la lettura, effettuare il download.

Employment Law 2020: la classifica di Milano Finanza

Milano Finanza ha pubblicato la classifica dei migliori Studi Legali e dei migliori Professionisti in Italia per quanto riguarda il Diritto del Lavoro.
Lo Studio Lexellent e la nostra managing partner Giulietta Bergamaschi sono stati inseriti tra i migliori.
 
Per scaricare la classifica in formato PDF cliccate qui

Il welfare aziendale ai tempi del Covid-19. TuttoWelfare intervista Francesco Bacchini

Di seguito l’articolo a firma di Giorgia Pacini pubblicato da TuttoWelfare.info con l’intervista al nostro Prof. Francesco Bacchini sui temi del “Bonus ai dipendenti che continuano a lavorare, assicurazioni sanitarie in caso di contagio, assistenza medica e psicologica. Le imprese si stanno attivando per premiare il personale in prima linea“.

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Aumenti di stipendio, polizze salute, voucher babysitter. Un’azienda alla volta, l’Italia ha iniziato a prendersi cura di chi continua a lavorare anche nell’era del coronavirus. In prima linea alle casse o attivi alle catene di montaggio, sono tantissimi i dipendenti italiani rimasti al lavoro per garantire beni e servizi di prima necessità.
Per sostenere i loro sforzi anche nelle prossime settimane, decine di imprese che durante la pandemia non possono chiudere o che sono costrette a produrre di più stanno adottando misure e incentivi per premiare il personale. Grazie anche agli strumenti tipici del welfare aziendale.
Le iniziative delle imprese si aggiungono a quanto già previsto dal decreto Cura Italia, adottato il 17 marzo 2020: Smart working, laddove possibile, e bonus di 100 euro per chi opera in sede. Il lavoro agile, oggi fortemente raccomandato per minimizzare il contagio, non è che una diversa modalità di prestazione del lavoro subordinato, che avviene, appunto, da remoto. Non rientra, dunque, nell’insieme delle misure di welfare e sostegno ai lavoratori, ma si caratterizza oggi per la sua forte valenza anti-contagio.
“Il bonus di 100 euro previsto dall’articolo 63 del Decreto legge 18 del 2020, invece, è senza ombra di dubbio una misura di tipo premiale stabilita dalla legge”, spiega Francesco Bacchini, Professore di Diritto del Lavoro all’Università di Milano Bicocca e Direttore del dipartimento Sicurezza del Lavoro dello studio legale Lexellent. Chi ha lavorato in sede durante il mese di marzo ha diritto a una somma pari a 100 euro, parametrati all’attività lavorativa effettivamente prestata in azienda: occorre, quindi, verificare quanti giorni il singolo dipendente ha lavorato in azienda per calcolare il premio in denaro.
“Questi 100 euro o la somma minore, in relazione al lavoro effettivamente prestato, sono esenti da qualsivoglia balzello tributario o fiscale e non rientrano nell’imponibile Irpef”, sottolinea il docente. “È una scelta che il legislatore avrebbe potuto adottare anche su altre tematiche della premialità retributiva, ma che ha invece deciso di limitare solo ai 100 euro previsti per il mese di marzo e riconosciuti a partire dal mese di aprile”. Tuttavia non ogni dipendente che a marzo ha lavorato in azienda ha diritto al premio esentasse, ma solo chi nel 2019 ha percepito un reddito complessivo non superiore a 40mila euro.

Bonus e aumenti a chi deve lavorare

Sulle misure base previste dalla legge si innesta poi tutta una serie di opportunità di tipo premiale che possono essere erogate dai datori di lavoro. Molti lo hanno già fatto. Da Giovanni Rana a Mutti, da Granarolo a Esselunga. E ancora: Intesa San Paolo, Lactalis, Cantine Capetta, Motta Supermercati, Teckeneko. Chi rischia di più riceverà stipendi più alti, bonus welfare, giorni di ferie extra o buoni babysitter.
“Occorre fare una distinzione tra le erogazioni che possono rientrare in un contratto collettivo aziendale e quindi essere riconducibili al premio di risultato tassato al 10%, così come previsto dalle leggi di Bilancio del 2016 e del 2017, e le altre forme di premialità a tassazione piena, che rientrano nella parte variabile della retribuzione”, precisa Bacchini.
Nel caso dell’incentivazione del 25% sulla retribuzione prevista dal pastificio Rana, per esempio, chi ha lavorato in azienda è premiato con una retribuzione di risultato: un riconoscimento pari al 25% del minimo tabellare previsto per quel mese. Su queste somme, il lavoratore paga normalmente le tasse e il datore di lavoro la contribuzione. Se invece le misure fossero state ricondotte all’interno della premialità di risultato, la tassazione a carico del lavoratore si sarebbe fermata al 10%, a fronte di una contribuzione piena da parte del datore di lavoro.
“Il Legislatore avrebbe potuto fare una scelta più significativa, stabilendo che a tutti i premi riconosciuti durante l’emergenza coronavirus si applicasse la tassazione agevolata, e avrebbe potuto prevedere sgravi contributivi in una certa misura anche per i datori di lavoro”, fa notare Bacchini. Una soluzione di questo tipo potrebbe ancora essere adottata nel momento in cui le Camere convertiranno in legge il decreto o in qualche altro provvedimento di decretazione d’urgenza. Anche perché, diversamente da quanto previsto per il bonus statale di 100 euro, ogni aumento retributivo deciso dall’impresa rientrando nell’imponibile potrebbe spostare in avanti l’aliquota Irpef ed esporre il lavoratore a un prelievo fiscale maggiore.

Polizze assicurative per gestire il contagio

Molte imprese si stanno poi muovendo sul fronte assicurativo, attivando polizze specifiche per il contagio da Covid-19. Hanno seguito questa strada Rigoni di Asiago,  Fedon di Vallesella, il gruppo vinicolo Masi in Veneto, così come l’azienda bergamasca ABenergie e la farmaceutica Boehringer Ingelheim Italia.
Per chi si ammala di coronavirus, la copertura sanitaria attivata da Trenord prevede, oltre a un’indennità di ricovero e di convalescenza, anche l’assistenza post ricovero con invio del medico generico e di una collaboratrice familiare, servizio di baby sitting, pet sitting e consegna della spesa a domicilio.
Strumenti di questo tipo rientrano nel novero dei flexible benefit, previsti dagli articoli 51 comma 2 e 100 del Testo unico delle imposte sul reddito (Tuir). “Se l’azienda ha già un piano di welfare aziendale, stabilito con regolamento, accordo o contratto collettivo anche collegato con il premio di risultato, il datore di lavoro potrebbe implementare il paniere dei flexible benefit inserendo elementi aggiuntivi tarati sull’emergenza Covid-19”, continua il docente. “Oppure la situazione attuale potrebbe spingere i datori che non hanno attuato alcuna forma di welfare aziendale a cominciare a dotarsene”.
I benefit flessibili sono beni e servizi che possono essere pagati direttamente dal datore di lavoro o anticipati dal lavoratore e rimborsati in un momento successivo. Per il lavoratore, sono totalmente esclusi dal computo della base imponibile per l’Irpef e quindi tax free. Il datore di lavoro, invece, oltre al vantaggio di non pagare su di essi alcun contributo, potrebbe guadagnarci anche una scontistica sul pagamento dell’Ires: a seconda della modalità di erogazione, unilaterale o contrattata, dei benefit, può infatti avere una detrazione pari al 5xmille o una detrazione piena  rispetto a beni e servizi di utilità sociale che ha erogato ai suoi dipendenti.
“Rientrano nell’ambito dei servizi per finalità sociale di assistenza sanitaria tutti i check-up e le visite specialistiche. Vi rientrano, perciò, anche tutte le visite per Covid-19, inclusi anche i tamponi se fossero disponibili e i servizi di consulenza medica a distanza”. Anche altre situazioni significative sul lato sanitario sono riconducibili ad attività già fatte rientrare nei programmi di welfare aziendale di tipo sanitario, come l’assicurazione stipulata in caso di positività a Covid-19 e le cure mediche successive.
“Si tratta di polizze abbastanza consistenti”, spiega il docente. “Richiedono non meno di 200-300 euro a persona, cifre non indifferenti se applicate a una popolazione aziendale numerosa”. Anche l’assistenza psicologica può rientrare tra le misure di welfare adottate dalle imprese: gruppi e sportelli di ascolto in grado di dare sostegno ai lavoratori costretti in casa da soli, con familiari ammalati o che hanno avuto lutti in famiglia, ma anche a quanti vivono lo stress di dover continuare a lavorare in azienda.

Baby sitting, istruzione e cultura

Sul fronte dei servizi di assistenza, il Legislatore ha previsto un bonus baby sitter di 600 euro per far fronte alle esigenze delle famiglie in queste settimane di chiusura delle scuole. Anche questa è un’area in cui il welfare aziendale può dare grande sostegno, attraverso le misure che rientrano nell’ambito di iniziative di educazione, istruzione e assistenza familiare, rivolte a bambini, anziani, persone disabili o non autosufficienti.
“In questo periodo è importante che il datore che ha già attivato un piano welfare abbia scelto strutture valide alle quali appoggiarsi, agenzie di primo livello che mettano a disposizione risorse competenti”, sottolinea Bacchini. “Spesso purtroppo le piattaforme gestiscono poco i servizi di assistenza, cura ed educazione, concentrandosi più su beni commerciali quali buoni spesa, buoni carburante, carte telefoniche prepagate e biglietteria varia, facendo del welfare aziendale una grande piattaforma di ecommerce”.
Pur potendo godere del voucher di 600 euro o di bonus messi a disposizione dall’impresa, servizi di utilità sociale davvero validi sono sempre più difficili da reperire oggi, se non si fa affidamento su una struttura già collaudata. Il datore di lavoro potrebbe, invece, utilmente fornire ai suoi dipendenti tutta una serie di servizi fondati sulla cultura: buoni per l’acquisto di audiolibri o di musica e accesso ai musei che hanno attivato viaggi virtuali nelle proprie sale. “Tutto quello che si può offrire per dare sollievo ai lavoratori è possibile grazie ai servizi di educazione e istruzione supportati dalla tecnologia”, continua il professore.
“In questo momento le categorie più esposte sono quelle che hanno un contatto necessario con il pubblico: andrebbero supportate con premi in denaro e servizi di welfare”, conclude l’esperto. “Tutte le professioni sanitarie e le forze dell’ordine, chi sta alle casse nei supermercati, ma anche chi svolge attività di pulizia, igienizzazione e sanificazione, così come chi si occupa di manutenzione, istallazione e trasporto. Queste ultime spesso sono realtà minori – piccole imprese, artigiani, padroncini – ma hanno datori di lavoro o committenti che potrebbero valutare un intervento di tipo solidaristico, offrendo beni e servizi nell’ambito dei processi di welfare aziendale che si stanno rivelando molto utili per tanti lavoratori”.
Qui l’articolo in formato pdf.
 

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PRODUTTIVITÀ E CONTRATTAZIONE DI SECONDO LIVELLO: LA DISCIPLINA DEI PREMI DI RISULTATO

Di seguito l’bstract dell’approfondimento a firma del Prof. Francesco Bacchini, pubblicato sul numero di Marzo di DDP (Direzione Del Personale), il trimestrale di infomazione e cultura dei AIDP, l’Associazione italiana per la direzione del personale.

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“Al fine di ridurre il deficit strutturale che condiziona inevitabilmente la crescita del Sistema-Paese e con essa la tenuta del welfare state, fonte di disuguaglianze e disagio sociale, di alleggerire il carico fiscale per sostenere il reddito e, conseguentemente, i consumi delle famiglie (dei lavoratori), fornendo, contemporaneamente, impulso alla competitività delle aziende, con la L. n. 208 del 2015 (Legge di stabilità per l’anno 2016) e la L. n. 232 del 2016 (Legge di bilancio per l’anno 2017) il legislatore reintroduce, questa volta a titolo definitivo rispetto alla provvisorietà del passato, la tassazione agevolata dei premi di risultato (e non, per precisa scelta normativa, come avveniva in passato, del “salario o retribuzione di produttività”).
Si tratta di quei premi, affidati obbligatoriamente alla determinazione della contrattazione collettiva di secondo livello, volti a limitare la rigidità salariale, incrementare il trattamento economico dei lavoratori in base a logiche diverse dalla retribuzione ordinaria (costituzionalmente proporzionale e sufficiente), permettendo alle imprese di assegnare quote di produttività nel salario, rendere disponibile maggiore ricchezza nei periodi di trend positivo e valorizzare in questo modo l’apporto dei collaboratori, fidelizzandoli e coinvolgendoli nelle performance dell’impresa.
[omissis]
L’articolo completo è qui disponibile in versione pdf.

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Il “pasticciaccio” del licenziamento da Covid-19 – L’editoriale del Prof. Bacchini per IPSOA

Di seguito l’articolo a firma del Prof. Francesco Bacchini pubblicato da IPSOA per il Dossier Coronavirus che approfondisce il tema dei licenziamenti legati alla questione epidemiologica.

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Il decreto Cura Italia prevede, a partire dal 17 marzo 2020 (data della sua entrata in vigore) e per i successivi 60 giorni, e cioè fino al 15 maggio 2020 compreso, che il datore di lavoro non possa avviare nuove procedure di licenziamento collettivo e sospende quelle pendenti e avviate dopo il 23 febbraio 2020. Dispone anche che il datore di lavoro, a prescindere dal numero dei dipendenti in forza, non possa effettuare alcun licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Da un’approfondita lettura della norma emerge, però, qualche incongruenza che rischia di generare facili incomprensioni.

Stiamo assistendo, ormai da alcune settimane, a una fitta decretazione sedicente antivirale. Compito non facile, beninteso. I provvedimenti si susseguono a ritmo incalzante, fonti normative (decreti legge) e atti amministrativi (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, Decreti Ministeriali e Ordinanze contingibili ed urgenti di Governatori e Sindaci) dispongono, con scadenze temporali brevi e diverse, sulle stesse fattispecie, sovrapponendosi senza evidenti gerarchie, tanto da rendere necessario un decreto ad hoc per stabilire i reciproci confini normativi (D.L. n. 19/2020). Nondimeno, per le conseguenze pratiche che le nuove disposizioni producono, era lecito confidare in una ben superiore qualità redazionale.
 
E non ci riferiamo solo a qualche zoppia linguistica di troppo e ad una semantica talvolta ambigua, a difetti nel coordinamento o nei richiami normativi, quanto piuttosto a veri e propri passi “falsi o errori giuridici” come ad esempio nel caso della rubrica dell’art. 46 del D.L. n. 18/2020: “Sospensione dei termini per l’impugnazione del licenziamento”, del tutto incongruente rispetto al suo contenuto che riguarda il divieto o la sospensione delle procedure di licenziamento economico-organizzativo e non già l’impugnazione della misura espulsiva.
 
Ciò premesso e impregiudicata la massima giuridica “Rubrica legis non est lex”, non resta che addentrarci nell’analisi del provvedimento.
Il precetto sancisce che, “A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto l’avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24, della legge 23 luglio 1991, n. 223 è precluso per 60 giorni e nel medesimo periodo sono sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020. Sino alla scadenza del suddetto termine, il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604”.
In via di estrema sintesi la norma può essere così schematizzata: a partire dalla data di entrata in vigore del Decreto, ossia il 17 marzo 2020 (così come sancito ex art. 127) e per i successivi 60 giorni e cioè, fino al 15 maggio 2020 compreso:
a. il datore di lavoro non può avviare nuove procedure di licenziamento collettivo;
b. sono sospese le procedure di licenziamento collettivo pendenti e avviate dopo il 23 febbraio 2020;
c. a prescindere dal numero dei dipendenti in forza, il datore di lavoro non può effettuare alcun licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
 
Da una prima lettura, è possibile individuare alcuni spunti di riflessione, distinguendo l’impatto della norma emergenziale, sulla disciplina dei licenziamenti collettivi e su quella dei licenziamenti individuali.
Il riferimento agli artt. 4, 5 e 24 della legge n. 223/1991 riguarda:
· il licenziamento collettivo dei lavoratori sospesi a seguito dell’ammissione dell’impresa al trattamento straordinario di integrazione salariale, nel caso in cui nel corso di attuazione del programma di ristrutturazione, riorganizzazione o conversione aziendale, essa non sia in grado di garantire il reimpiego a tutti e di non poter ricorrere a misure alternative (ex mobilità);
· il licenziamento collettivo per riduzione del personale (da parte di datori di lavoro che occupano più di 15 dipendenti, compresi i dirigenti, e che, in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, intendano effettuare almeno 5 licenziamenti, nell’arco di centoventi giorni).
Il primo dubbio interpretativo emerge in ordine alla disciplina applicabile alle procedure di licenziamento collettivo avviate prima del 23 febbraio, in ragione di circostanze del tutto avulse dall’emergenza sanitaria in corso (ad esempio, per la decisione datoriale di cessare l’attività e disporre la chiusura aziendale).
 
Interpretando la norma alla luce del suo tenore letterale e della ratio sottesa al decreto legge in commento, ossia contrastare gli effetti economico-occupazionali del COVID-19, è ragionevole ritenere che nelle ipotesi di cui sopra non si dovrebbe determinare alcuna sospensione della procedura e dei possibili conseguenti licenziamenti.
Tali procedure, infatti, poiché avviate prima del 23 febbraio 2020, data che farebbe operare una sorta di presunzione, “in re ipsa”, del collegamento con l’emergenza sanitaria in corso, possono reputarsi estranee all’emergenza sanitaria che il Decreto vuole contrastare.
 
Non pare, pertanto, che alle procedure collettive anteriori la fatidica data dell’epifania virale, ma, a quella stessa data, non ancora sfociate nel licenziamento, si possa estendere il divieto di recesso previsto sub c), il quale, invece, sembra applicabile, come si dirà in seguito, ai soli licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo (ma, ovviamente, non per giustificato motivo soggettivo) e ciò anche in virtù dell’espresso richiamo all’art. 3, ultima parte, della legge n 604/1966, che per l’appunto detta la disciplina di questi ultimi.
 
Anche per quanto riguarda l’effettiva portata del “divieto di recesso” sub c), le perplessità non mancano.
È, infatti, possibile ritenere, come sopra accennato, che tale proibizione sia riferibile ai soli licenziamenti individuali, e ciò sia perché essa segue la disciplina espressamente dettata per i licenziamenti collettivi, sia perché, come appena rilevato, richiama espressamente l’art. 3 della legge n 604/1966, la quale, all’art. 11, sancisce che la materia dei licenziamenti collettivi per riduzione di personale è esclusa dalle disposizioni in essa contenute.
 
Pare dunque che tale norma debba intendersi nel senso che al datore di lavoro è fatto divieto, tra il 17 marzo 2020 e il 16 maggio 2020:
· sia di avviare nuove procedure di licenziamento individuale per g.m.o.;
· sia di concludere le procedure di licenziamento individuale per g.m.o. pendenti alla data del 17 marzo 2020.
Tale affermazione discende dall’interpretazione letterale della disposizione, la quale impone, tout court, un “divieto di recesso” per g. m. o. valido in generale, senza che possano essere operate distinzioni tra le procedure di licenziamento individuale da avviare e quelle già in corso, entrambe da ritenersi parimenti precluse.
 
Di particolare interesse appare l’applicabilità o meno dell’art. 46 del D.L. n. 18/2020 anche al licenziamento del dirigente.
Sul punto meritano di essere svolte due distinte analisi in relazione ai licenziamenti collettivi e ai licenziamenti individuali.
Con riferimento ai licenziamenti collettivi non sembra occorrano particolari approfondimenti, sicché, di conseguenza, tra il 17 marzo e il 16 maggio 2020, i dirigenti (senza alcuna distinzione), al pari di tutti gli altri lavoratori, non potranno essere coinvolti in procedure di licenziamento collettivo, nel senso, rispettivamente, del divieto di avvio di nuove procedure e della sospensione di quelle pendenti e avviate dopo il 23 febbraio 2020.
 
Un ragionamento necessariamente diverso si profila, invece, in relazione all’ipotesi di licenziamento individuale del dirigente.
 
A tal proposito, anche alla luce della consolidata giurisprudenza sull’argomento, il “divieto di recesso” nei confronti del dirigente appare a prima vista riconducibile e due distinte ipotesi:
· la prima ipotesi induce a ritenerlo inapplicabile ai dirigenti “apicali”, che pertanto potrebbero essere licenziati secondo la nozione di giustificatezza e ciò in quanto godono delle tutele contrattuali ma non di quelle della L. n. 604/1966, espressamente richiamata nella norma in commento;
· la seconda ipotesi, viceversa, induce a ritenerlo applicabile nei confronti dei dirigenti “non apicali”, i “pseudo-dirigenti”, e ciò in quanto destinatari, per consolidata giurisprudenza, delle tutele della L. n. 604/1966.
 
Il divieto di licenziamento di cui all’art. 46 del D.L. n. 18/2020, si riconduce, nonostante la temporaneità del precetto, all’interno delle ipotesi di nullità del licenziamento previste dalla legge (art. 1418, commi 1 o 3 c.c. e non per frode alla legge ai sensi degli artt. 1343 e 1418, comma 2 c.c.) o nelle quali il licenziamento è intimato per un motivo illecito determinante (ex art. 1345 c.c.).
Anche nel caso del divieto di licenziamento in esame, che potremmo definire da Covid-19, si applicherà, ex art. 18, comma 1, St. Lav. (licenziamento riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 c.c.) nonché ex art. 2, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 (licenziamento riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge), la reintegrazione nel posto di lavoro oltre all’indennità risarcitoria piena a prescindere dal numero di dipendenti occupati dal datore di lavoro.
 
In conclusione, non può evitarsi di ricordare che, pur non essendo espressamente affermata quale ulteriore ipotesi vietata di licenziamento individuale per g.m.o. di cui all’art. 46 del D.L. n. 18/2020, anche il licenziamento per superamento del periodo di comporto che avvenisse conteggiando la malattia o la quarantena equiparata a malattia per Covid-19, risulterebbe affetto da nullità e ciò in quanto, secondo la lettera dell’articolo 26, comma 1, del D.L. n. 18/2020, tale malattia (o equiparazione ad essa) è riconducibile, evidentemente anche in ragione della straordinarietà dell’emergenza patologica, a cause che consentono l’esclusione delle assenze di malattia dal periodo di comporto, come, ad esempio, l’infortunio sul lavoro (ricordiamo, in tal senso, che l’art. 42, comma 2 del D.L. n. 18/2020, stabilisce che nei casi accertati di infezione da coronavirus contratta in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato) o le gravi patologie previste dal CCNL.
 
E’ possibile ritenere, in conclusione, che se il divieto di licenziamento oggettivo-economico non verrà reiterato, cosa che si ritiene più che probabile, dal 16 maggio si assisterà, purtroppo, ad una lunga serie di licenziamenti per g.m.o., soprattutto nei settori produttivi più esposti alla crisi economica determinata dall’emergenza Covid-19, ossia quelli che da più tempo sono impossibilitati a produrre e vendere i propri beni e servizi.
 
L’articolo è qui disponibile in verione pdf.

 

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Lavoro agile? No, “di crisi”. Cercasi regole – Giulietta Bergamaschi su L’Economia del Corriere della sera

Giulietta Bergamaschi, managing partner di Lexellent, tra i professionisti apicali sentiti nel focus pubblicato da L’Economia del Corriere della Sera dal titolo “Smart working: come cambierà dopo l’emergenza

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[omissis]
Una modalità di lavoro “di crisi”, piuttosto che lo smart working o lavoro agile così come lo avevamo inteso fino ad ora. Così definisce il momento che stanno vivendo le aziende l’avvocato Giulietta Bergamaschi, manging partner di Lexellent. “Il lavoro agile, proprio in coerenza con la sua principale caratteristica e cioè la flessibilità, doveva e deve rispondere ad alcuni precisi criteri previsti dalla norma stessa, come l’accordo individuale fra lavoratore e datore di lavoro. La situazione di emergenza ha invece fatto si che, laddove tali accordi individuali non fossero stati sottoscritti in precedenza, si trovasse un modo che consentisse alle parti di ricorrere al lavoro da remoto nel minor tempo possibile e con poche formalità”. È stato da subitochiaro che il ricorso al lavoro agile era consentito anche in assenza di un accordo individuale, promuovendone cioè il massimo utilizzo in forma semplificata, con l’informativa sicurezza dell’ Inail. Proprio per questo le imprese oggi riscontrano problemi organizzativi e non normativi. Ad esempio – aggiunge la legale – “la protezione del patrimonio immateriale dell’azienda che transita su sistemi informatici non adatti a garantirlo, andrebbe affrontato quanto prima con apposite policy”. Un altro tema fondamentale è legato alle modalità con cui i lavoratori agili nell’emergenza affrontano la loro attività lavorativa. Per evitare che il lavoro agile continuativo si trasformi in stress alcune aziende hanno inserito dei consigli nel decalogo dei lavoratori agili dell’emergenza: “fare brevi pause nel corso della giornata, rispettare gli orari di lavoro dell’ufficio evitando di prolungare la presenza al computer ed una eccessiva connessione agli strumenti informatici aziendali”. Altre ancora hanno invece messo a disposizione dei propri dipendenti servizi da remoto per passare piacevoli momenti di distrazione: suggerimenti di letture, film, corsi di yoga, momenti di meditazione o di supporto psicologico.
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Lexellent: al via un servizio di sostegno psicologico e orientamento alle imprese nell’emergenza Covid19

Milano, 27 marzo 2020 – I clienti di Lexellent potranno da oggi usufruire di un servizio di supporto psicologico e di orientamento grazie alla collaborazione con un’equipe di psicologi del lavoro e delle emergenze.
Lexellent, oltre a dare supporto giuslavoristico alle imprese, è da sempre attento ad orientare la propria consulenza alla salute e al benessere psicofisico dei lavoratori, oggi messi a dura prova dall’emergenza Covid19 che sta impattando gravemente sulla vita di tutti.
“L’obiettivo è salvaguardare le persone e l’organizzazione aziendale” spiega la Managing Partner Giulietta Bergamaschi “così da ripartire in modo rapido e determinato alla fine di questo momento di crisi”, conclude.
In allegato la rassegna stampa in formato PDF

Emergenza Covid19: le assemblee sociali virus free

Assemblee sociali “virus free”. Il commento dell’avv. Renato D’Andrea sulle disposizioni del D.L c.d. “Cura Italia”, sulle norme in materia di svolgimento delle assemblee di società pubblicato da Diritto24.
Leggi l’articolo

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Webinar gratuito “La Gestione delle Risorse Umane alla luce della crisi da Coronavirus” – 25 marzo ore 13

Domani, 25 marzo alle ore 13:00, vi invitiamo al webinar gratuito in lingua francese sul tema della gestione delle Risorse umane alla luce della crisi da Coronavirus realizzato dai nostri partner francesi MGG Voltaire in collaborazione con la società LEXALERT.
A introdurre il seminario, con una panoramica sulla situazione delle aziende italiane, il nostro associate Edoardo Gandini.
a piattaforma per accedere al webinar è la seguente: https://www.lexalert.fr/seminar/webinaire-gratuit-faq-coronavirus-et-gestion-des-ressources-humaines.
In alternativa è possibile seguire il seminario anche attraverso l’applicazione gratuita scaricabile dal sito di MGG Voltaire.

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Anche il Diritto è positivo al Covid-19

Riportiamo di seguito l’articolo del Prof. Francesco Bacchini per il MAG di Legalcommunity.

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Stiamo assistendo, da alcune settimane, a una fitta decretazione soi-disant antivirale. Compito non facile, beninteso. Eppure, per le conseguenze pratiche che le nuove disposizioni producono, era lecito confidare in una ben superiore qualità redazionale.
E non ci riferiamo solo a qualche zoppia linguistica di troppo e ad una semantica talvolta ambigua o errata, come ad.es., nel caso della rubrica dell’art. 46 del d.l. n. 18/2020: “Sospensione dei termini per l’impugnazione del licenziamento”, incongruente rispetto al suo contenuto che riguarda il divieto o la sospensione delle procedure di licenziamento economico organizzativo e non già l’impugnazione della misura espulsiva, quanto piuttosto a inattesi passi falsi giuridici.
I DPCM con cui il legislatore d’urgenza (ha) prova(to) a governare il caos pandemico adoperano più volte verbi ed espressioni persuasivi, quasi preghiere (si invita a, evitare di, promuoverei raccomanda, può essere applicata), talvolta incalzanti, attraverso l’ormai solito allegro ricorso agli avverbi (è fortemente raccomandato), ma che il giurista mai si aspetterebbe di incontrare in un testo legislativo e che aprono la strada a incertezze e interpretazioni discrezionali.
La regola giuridica è tale perché, inequivocabilmente, prescrive o vieta una condotta, non in quanto formulata da un oracolo più o meno ascoltato.
Il DPCM del 9 marzo, se da un lato esprime finalmente con chiarezza che “è vietata ogni forma di assembramento di persone […]”, dall’altro dimentica la sanzione, così ridimensionando la norma e rendendone incerta l’applicazione.
E per punire i riottosi, seguendo una pessima abitudine legislativa, si è fatto ricorso a una norma penale – l’art. 650 c.p. – in bianco (ossia una fattispecie nella quale la norma di rango primario rinvia alla fonte regolamentare) e a carattere sussidiario.
È peraltro noto, sebbene il legislatore spesso ne abusi, che l’art. 650 c.p. punisce l’inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità, ossia atti caratterizzati da individualità e specificità, e non delle norme, generali e astratte, quali sono quelle di cui stiamo trattando: è dunque verosimile ritenere che tra alcuni mesi le aule penali saranno ingolfate da procedimenti già incanalati su binari morti.
La fretta, si sa, è cattiva consigliera e la paura, di questi tempi, potrà relegare quanto sopra a minutaglia giuridica, eppure l’accuratezza normativa è un valore che, tanto più nel contesto attuale, dovremo imparare a coltivare.
Il contributo è qui disponibile in versione pdf.

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L’epidemia da Covid-19 è, anche e soprattutto, una questione di sicurezza e salute del lavoro.

Pubblichiamo di seguito l’ultimo contributo dell’avv  Marco Chiesara, partner, sul tema della sicurezza sul lavoro alla luce dell’epidemia in corso, uscito sul numero 8 del 2020 di HR Online, periodico dedicato alle Risorse Umane di AIDP.

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I decreti emergenziali del Presidente del Consiglio dei Ministri, soprattutto quello del 9 marzo scorso, letti in combinazione e interpretati sistematicamente nell’ottica della tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori, portano ad affermare che, per tutte le attività lavorative non sospese, i datori di lavoro, dopo aver promosso il massimo utilizzo delle modalità di lavoro agile in forma semplificata, ossia senza accordo individuale e con l’informativa sicurezza standard redatta dall’INAIL; dopo aver favorito la fruizione delle ferie e dei congedi nonché degli eventuali ulteriori strumenti previsti dalla contrattazione collettiva ed aver pianificato le attività aziendali necessarie, sospendendo quelle non indispensabili, (anche utilizzando gli ammortizzatori sociali), dovranno adottare tutte le misure di prevenzione e protezione in materia di salute e sicurezza discendenti dal d.lgs. n. 81/2008 e normativa collegata.
La prima misura è rappresentata dall’aggiornamento, in collaborazione con RSPP e Medico Competente,della valutazione dei rischi con riferimento a quello, “biologico generico”, da COVID-19.
Da tale valutazione discende l’obbligo di:

  • predisporre protocolli di sicurezza anti-contagio;
  • informare i lavoratori sulle misure igienico-sanitarie previste dal Ministero della Salute, anche mediante affissione e invio telematico con email e/o applicazioni della documentazione infografica messa a disposizione sul sito del Ministero della Salute e delle Regioni;
  • mettere a disposizione dei lavoratori soluzioni idroalcoliche per il lavaggio delle mani;
  • mettere a disposizione dei lavoratori dispositivi di protezione individuale (i.e. mascherine) specie laddove non sia possibile rispettare la distanza interpersonale di un metro;
  • incentivate le operazioni di sanificazione dei luoghi di lavoro e degli strumenti di lavoro.

Il sistema normativo appena delineato viene, per così dire, integrato dal “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro” del 14 marzo scorso, sottoscritto, su invito del Governo, dalle Parti Sociali, proprio in attuazione dell’art. 1 co. 1, n. 9 del DPCM 11 marzo 2020.
Preliminare all’analisi del testo e, comunque, doveroso, è domandarsi quale sia la natura giuridica del Protocollo. Sul punto occorre sottolineare, per un verso, che il Protocollo d’intesa non ha rango di fonte di legge, nemmeno secondaria, rappresentando tutt’al più una regolamentazione che potremmo definire di soft law e, per altro verso, che gli obblighi giuridici in esso richiamati nemmeno discendono dalla suddetta già intervenuta decretazione emergenziale (sulla quale molte parole potrebbero essere spese in termini di rilevante distinzione tra raccomandazione e/o promozione e prescrizione, tra obbligo e relativa sanzione e persuasione e assenza di sanzione, tra norma e provvedimento), bensì dalla legge.
Appunto per questo, la natura di vincolo giuridico dei citati adempimenti in capo al datore di lavoro deriva, innanzitutto, dall’art. 2087 c.c., nonché dall’obbligo di valutare, a norma degli artt. 28e 29 del D. Lgs. n. 81/2008, tutti i rischi che espongono i dipendenti a pericoli per la loro salute e sicurezza, eliminandoli o, comunque, riducendone per quanto possibile l’esposizione, incluso il rischio biologico da Covid-19 all’interno dei luoghi di lavoro (ex art. 266 TUSL) giacché, da un lato, il Covid-19 è definito “rischio biologico generico” nell’incipit del Protocollo d’intesa e, dall’altro, nell’allegato XLVI del TUSL è presente, fra gli altri, anche il Coronaviridae, ossia l’aggregazione (o famiglia) di virus i cui componenti sono noti come “coronavirus”.
Da tale fondamentale osservazione discende, pertanto, che i controlli che gli organi ispettivi (ATS/ASL e ITL) hanno iniziato a svolgere, come ad es. in Veneto, sul rispetto da parte delle aziende, delle misure contenute nel Protocollo, non potranno contestare la mancata attuazione dello stesso, bensì la mancata attuazione degli obblighi di cui alla legislazione di sicurezza e salute del lavoro a cui le misure declinate (informazione, formazione, controlli, igiene degli ambienti, dispositivi di protezione individuale, sorveglianza sanitaria, ma anche organizzazione aziendale, gestione di entrate e uscite, degli spostamenti interni, delle riunioni, turnazioni, spazi comuni) devono necessariamente essere ricondotte quali conseguenze dell’aggiornamento della valutazione dei rischi lavorativi di cui all’art. 28 e 29 del D.lgs. n. 81/2008.
Per aiutare i clienti a verificare e soprattutto a documentare le azioni intraprese per la gestione dell’emergenza Covid-19, abbiamo predisposto una check list(1) di controllo sui punti previsti dal DPCM 11 marzo2020 e dal Protocollo Sicurezza 14 marzo 2020.
L’utilizzo della check list dovrebbe consentire alle aziende di eseguire una verifica sistemica dei vari punti ma, soprattutto, tracciare adeguatamente le misure attuate con eventuali riferimenti a documenti ufficiali interni/esterni (disposizioni interne, circolari, informative, ecc.), risultando, inoltre, utilizzabile anche come input per la revisione del Documento di Valutazione dei Rischi.
Un’adeguata documentazione delle azioni svolte è, infatti, fondamentale per attestare il corretto comportamento del Datore di Lavoro sia verso le autorità esterne che verso i lavoratori e le loro rappresentanze.
(1) a cura di Francesco Bacchini – Lexellent e di Dario Carrettoni – Igeam S.r.l.
L’articolo è disponibile anche qui in formato PDF

Congedi parentali, permessi legge 104, bonus baby-sitting per emergenza COVID-19 – Novità del 20 marzo 2020

Il messaggio reso disponibile oggi sul sito dell’INPS e relativo ai congedi parentali, permessi legge 104, bonus baby-sitting per l’emergenza COVID-19, si limita a spiegare gli istituti disciplinati dal decreto Cura Italia. La presentazione delle domande, anche con data retroattiva, avverrà, tranne in un paio di casi nei quali si utilizza la procedura già in uso per il normale congedo parentale, con una nuova procedura telematica che sarà disponibile entro la fine del mese di marzo
INPS_Messaggio1281_20.03.2020INPS_Messaggio1281_20.03.2020

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Decreto Cura Italia: Misure di potenziamento del Servizio Sanitario Nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19

A supporto di chiunque abbia necessità di reperire informazioni sulle misure adottate dallo Stato a sostegno del lavoro, Lexellent mette a disposizione il seguente vademecum con tutte le osservazioni, in chiave giuslavoristica, al Decreto Cura Italia.

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Con riferimento al nuovo D.L. n. 18/2020 e, in particolare, alle norme ivi contenute relative alle “misure a sostegno” del lavoro e della sicurezza sul lavoro nonché alle “misure fiscali a sostegno” della liquidità delle imprese, si osserva, in chiave giuslavoristica, quanto segue.
Il D.L. è entrato in vigore il giorno stesso della sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, il 17 marzo 2020, e sarà presentato alle Camere per la conversione in
legge.
Il Capo I del Titolo II ha previsto uno snellimento delle procedure necessarie per accedere agli ammortizzatori sociali e ampliato la platea dei destinatari degli stessi su tutto il territorio nazionale.
Di seguito un’analisi dei principali provvedimenti in materia di ammortizzatori sociali.
Per continuare la lettura, effettuare il download.

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Produttività e contrattazione di secondo livello: la disciplina dei premi di risultato

Pubblichiamo di seguito l’ultimo contributo del Prof. Francesco Bacchini sul tema della disciplina dei premi di risultato uscito sul numero 6 del 2020 di HR Online, periodico dedicato alle Risorse Umane di AIDP.

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Al fine di ridurre il deficit strutturale che condiziona inevitabilmente la crescita del sistema-paese e con essa la tenuta del welfare state, fonte di disuguaglianze e disagio sociale, di alleggerire il carico fiscale per sostenere il reddito e, conseguentemente, i consumi delle famiglie (dei lavoratori), fornendo, contemporaneamente, impulso alla competitività delle aziende, con la l. n. 208 del 2015 (legge di stabilità per l’anno 2016) e la l. n. 232 del 2016 (legge di bilancio per l’anno 2017) il legislatore reintroduce, questa volta a titolo definitivo rispetto alla provvisorietà del passato, la tassazione agevolata dei premi di risultato (e non, per precisa scelta normativa, come avveniva in passato, del “salario o retribuzione di produttività”), ossia di quei premi, affidati obbligatoriamente alla determinazione della contrattazione collettiva di secondo livello, volti a limitare la rigidità salariale, incrementare il trattamento economico dei lavoratori in base a logiche diverse dalla retribuzione ordinaria (costituzionalmente proporzionale e sufficiente), permettendo alle imprese di assegnare quote di produttività nel salario, rendere disponibile maggiore ricchezza nei periodi di trend positivo e valorizzare in questo modo l’apporto dei collaboratori, fidelizzandoli e coinvolgendoli nelle performance dell’impresa e ciò anche nel caso del “premio di risultato con opzione welfare aziendale”, da intendersi quale “paniere” di benefici economici di utilità sociale di tipoparamonetario non rientranti nel sinallagma retributivo e, pertanto, detassati e non soggetti a contribuzione, che, sempre e solo il contratto collettivo, può consentire vengano scambiati dai lavoratori, totalmente o parzialmente, con il premio in denaro (comunque tassato, ancorché in misura ridotta).
La disciplina dei premi di risultato e della loro fruibilità anche in beni e servizi di welfare aziendale, espressamente riservata, come per il passato, al settore privato, è sancita dai commi 182-191 dell’art. 1, l. n. 208 del 2015, così come modificata dall’art. 1, comma 160, l. n. 232 del 2016, nonché dal d. interm. 25 marzo 2016 con il quale i ministri del Lavoro e dell’Economia hanno definito (in attuazione del comma 188) i criteri (misurabili rispetto ad un periodo congruo e verificabili in modo obiettivo con il riscontro di indicatori numerici o di altro genere espressamente individuati) per raggiungere gli obiettivi di produttività, redditività, qualità, efficienza e innovazione che possono consistere: nell’aumento della produzione, in risparmi dei fattori produttivi, nel miglioramento della qualità dei prodotti e dei processi anche attraverso la riorganizzazione dell’orario di lavoro (con esclusione dello straordinario) o nel ricorso al lavoro agile.
L’elenco dei criteri di misurazione deve essere specificato nella dichiarazione di conformità del contratto collettivo aziendale o territoriale che necessariamente li pattuisce, la quale è redatta dal datore secondo il modello dell’allegato I e depositata, unitamente al contratto collettivo (in sintonia con il precetto di cui all’art. 14 del d.lgs. n. 151/2015), entro 30 giorni dalla sottoscrizione, presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro. Nel modello sono descritti 20 indicatori di risultato (19 più uno lasciato alla libera determinazione delle parti ad evidente riprova della non tassatività dell’elencazione), fra cui si segnalano: il volume della produzione, il fatturato o il valore aggiunto (come da bilancio) divisi il numero dei dipendenti; il margine operativo lordo diviso il valore aggiunto; gli indici di soddisfazione del cliente; la riduzione degli scarti di lavorazione; il miglioramento dei tempi di consegna; le modifiche dell’organizzazione del lavoro o dei regimi di orario; la riduzione dell’assenteismo; il numero di brevetti depositati; la riduzione degli infortuni; la riduzione dei consumi energetici, e altri ancora che possono anche essere liberamente scelti dalla contrattazione collettiva di secondo livello purché siano oggettivamente rendicontabili.
È, dunque, il raggiungimento degli obbiettivi di produttività in base ai criteri di misurazione individuati dal decreto e necessariamente negoziati collettivamente, da cui dipende la detassazione dei premi di risultato di ammontare variabile corrisposti ai lavoratori.
Il limite stabilito dal legislatore per la detassazione dei premi di risultato è di 3.000€ lordi annui mentre il tetto massimo di reddito percepito dal lavoratore per usufruire dell’agevolazione fiscale è di 80.000€ lordi all’anno.
Con la modifica operata dall’art. 55 del d.l. n. 50, convertito dalla l. n. 96/2017, in forza del quale viene novellato il comma 189 della l. n. 208/2015, non è più previsto l’innalzamento dell’importo del premio di risultato detassabile a 4.000€ per le aziende che coinvolgono pariteticamente i lavoratori nell’organizzazione del lavoro, bensì la riduzione del 20% dell’aliquota contributiva a carico del datore di lavoro per il regime relativo all’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti su una quota del premio di risultato non superiore a 800€. In aggiunta, con riferimento alla quota di cui sopra è prevista la corrispondentemente riduzione dell’aliquota contributiva di computo ai fini pensionistici e sulla stessa non è dovuta alcuna contribuzione a carico del lavoratore. Con questo provvedimento ulteriormente incentivante (riconducibile, pur nella sua limitata, ma non irrilevante, dimensione, all’interno della largamente inattuata cornice normativa dell’art. 46 Cost.) il legislatore reintroduce stabilmente una fattispecie di decontribuzione complementare alla detassazione, che aveva, inopinatamente, abbandonato già dal 2015.
In base all’art. 4 del d. interm., il vantaggio contributivo discende dalla previsione nel contratto collettivo (aziendale o territoriale), ancorché a titolo esemplificativo, di gruppi di lavoro nei quali agiscono responsabili aziendali e lavoratori, vale a dire gruppi misti di manager, quadri, impiegati ed operai finalizzati al miglioramento o all’innovazione di aree produttive o sistemi di produzione, con strutture permanenti di orientamento e monitoraggio degli obbiettivi da perseguire nonché di rendicontazione periodica dei risultati raggiunti, all’interno dei quali non rientrano, per espressa previsione regolamentare “gruppi di lavoro di semplice consultazione, addestramento o formazione”.
L’imposta, sostitutiva dell’IRPEF e delle addizionali regionali e comunali, prevista per i premi di risultato è unitariamentefissata nel 10% delle somme erogate entro i limiti appena richiamati; tuttavia, poiché essa può risultare in alcuni casi svantaggiosa, il legislatore riconosce al lavoratore il diritto di rinunciarvi espressamente con una comunicazione scritta al datore di lavoro o in sede di dichiarazione dei redditi.
Per conseguire l’agevolazione fiscale è, tuttavia, indispensabile, come precedentemente ricordato, che i premi siano erogati in esecuzione di contratti collettivi di secondo livello, aziendali (stipulati da RSU o RSA) o territoriali, in entrambi i casi negoziati con il sindacato maggiormente rappresentativo a livello nazionale, così come stabilito dall’art. 51, d.lgs. n. 81 del 2015.
Si tratta di una limitazione comprensibile, tanto nell’ottica di stimolo alla contrattazione di “prossimità” e alla realizzazione di nuovi modelli di relazioni sindacali partecipative, quanto nella prospettiva del perseguimento del risultato atteso dal legislatore, essendo il riferimento a tali contratti l’unico che può garantire aumenti di produttività reali e non solo di facciata. Innegabilmente, attesa la limitata diffusione di tale contrattazione, soprattutto nelle aziende di piccole e medie dimensioni, il rischio è quello che gran parte dei lavoratori restino esclusi dai vantaggi fiscali connessi ai premi di risultato. Con il manifesto intento di allargare la platea dei fruitori dei premi di risultato detassati (e della loro possibile conversione in servizi welfare) anche nelle piccole e medie imprese prive di rappresentanze sindacali, deve leggersi l’Accordo Interconfederale Quadro del 14 luglio 2016 stipulato da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, per la definizione di accordi territoriali (a livello provinciale) in materia di agevolazione fiscale dei premi di risultato e di welfare contrattuale.
Secondo i dati del Ministero del Lavoro, al 16/12/2019 sono state compilate 52.588 dichiarazioni di conformità (moduli): 17.937 si riferiscono a contratti tuttora attivi; 13.912 sono riferite a contratti aziendali e 4.025 a contratti territoriali. Dei 17.937 contratti attivi, 13.714 si propongono di raggiungere obiettivi di produttività, 10.369 di redditività, 8.120 di qualità, mentre 2.046 prevedono un piano di partecipazione e 9.491 prevedono misure di welfare aziendale. Prendendo, invece, in considerazione la distribuzione geografica, per sede legale, delle aziende che hanno depositato le 52.588 dichiarazioni si evidenzia che il 78% è concentrato al Nord, il 16% al Centro e solo il 6% al Sud.
L’articolo è disponibile anche qui in formato PDF

Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro

Sicurezza sul Lavoro.
Rendiamo disponibile a questo link il testo integrale del Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure
per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro.
Il prof. Francesco Bacchini ha commentato: “Fra le indicazioni operative decise dal Governo e dalle parti sociali nel protocollo firmato oggi per contrastare il contagio da Covid-19 nelle aziende che continuano a produrre, molte delle quali già contenute sinteticamente nei vari DPCM e, comunque, da tempo attuate dalle imprese in applicazione dei principi generali e specifici di sicurezza e salute del lavoro, merita di essere segnalata, in particolare, una misura di prevenzione e protezione, visti i forti dubbi, peraltro infondati, avanzati anche dal sindacato sulla sua legittimità, ossia quella che consente al datore di lavoro di sottoporre il personale (anche quello degli appaltatori es. imprese di pulizie, manutenzione, ecc.) prima dell’accesso al luogo di lavoro, al controllo della temperatura corporea (sempre nel rispetto della privacy del lavoratore) e di vietare l’accesso alle persone il cui stato febbrile superi i 37,5°; tali persone saranno momentaneamente isolate, fornite di mascherine e dovranno contattare nel più breve tempo possibile il proprio medico curante seguendo le sue indicazioni“.

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Anche quest’anno Lexellent e Giulietta Bergamaschi su Chambers & Partners

Chambers & Partners, tra le directories più apprezzate al mondo nel settore legale, conferma il posizionamento di  Lexellent come boutique d’eccellenza nel Diritto del Lavoro in Italia (Band 5).
Testualmente:

Per cosa è riconosciuta la squadra
“Il team di Lexellent assiste i clienti su una varietà di problemi occupazionali, tra cui salute, sicurezza, trattative sindacali, licenziamenti collettivi e individuali. Fornisce inoltre consulenza in merito alle relative controversie legali. Offre un’ampia gamma di competenze che comprende le trattative con con le rappresentanze sindacali. Rappresenta clienti nazionali e multinazionali appartenenti a diverse industry, e in particolare società in ambito Life Science.”
Mandati in evidenza

“L’assistenza a Farmaceutici Damor sulla ristrutturazione e riorganizzazione della forza lavoro dell’azienda, compreso il licenziamento di alcuni dirigenti di alto livello.”
Professionista di punta

Managing partner e capo del dipartimento, Giulietta Bergamaschi è esperta dei settori farmaceutico ed energetico. Fornisce in particolare consulenza sulle riorganizzazioni aziendali, sulle revoche di dirigenti senior e sull’attuazione delle politiche di gestione della diversity.”

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Coronavirus e smart working, come difendere i dati aziendali

L’avvocato Renato D’Andrea, ha scritto per Startupbusiness un interessante approfondimento in merito all’accesso ai dati aziedali in questa fase di emergenza dettata dal Coronavirus in cui molti lavoratori sono stati messi nelle condizioni di effettuare “smart working”. 

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L’emergenza coronavirus inventiva lo smart working, ma per le aziende è necessario adottarlo insieme a cautele informatiche e comportamentali.

L’allarme Coronavirus, complice la normativa emergenziale del D.L n.6/2020 e susseguente DPCM 01 marzo 2020, sta incrementando a dismisura il già cospicuo numero di smart workers che svolgono la prestazione lavorativa al di fuori della sede aziendale e mediante device che permettono di connettersi H24 al sistema informatico datoriale.
Tale modalità lavorativa implica quindi l’accesso in remoto a svariati dati aziendali riservati, quali email commerciali, elenchi clienti e fornitori, scadenziari contrattuali, profilazioni e statistiche, disegni tecnici, layout e settaggio di impianti; altresì delegando al dipendente la gestione di dati personali (ad esempio recapiti telefonici privati) soggetti alla normativa privacy e del cui eventuale breach il datore di lavoro risponde come Titolare del Trattamento.
Sono perciò evidenti le conseguenze dannose derivanti da una divulgazione accidentale (o addirittura da abusi) di tali assett immateriali aziendali, per effetto sia di hackeraggi esterni, sia di comportamenti colposi o dolosi ascrivibili allo smart worker. Un problema che in primo luogo andrebbe affrontato con misure tecniche difensive di tipo informatico.
La protezione degli endpoint deve infatti iniziare prima che i dispositivi abbandonino il perimetro aziendale, garantendo che le patch siano aggiornate, che le vulnerabilità siano note e gestite, che siano implementati antivirus e antimalware. Si deve poi attivare il regolare backup dei dispositivi e l’uso di un’efficace crittografia dell’hard disk, così innalzando una barriera qualora il dispositivo venga hackerato, smarrito o rubato.
Ulteriori precauzioni hanno poi matrice comportamentale. Negli spostamenti gli smart workers dovrebbero cioè assicurarsi che i device restino a portata di mano, o riposti in luogo sicuro, soprattutto in aeroporti, treni e mezzi pubblici, laddove cresce esponenzialmente il rischio di smarrimento e furto. Anche il Wi-Fi pubblico andrebbe usato con cautela, mai senza che le informazioni sensibili passino attraverso una rete privata virtuale di sicurezza. Né deve tralasciarsi il fatto che un laptop aperto su un aereo, in un bar o ristorante, può attirare sguardi indesiderati.
Tali best practice, tuttavia, possono divenire cogenti solo formalizzando un’apposita policy aziendale.In altre parole, per quanto lo smart working sia una modalità incentivata e vieppiù semplificata dalla normativa emergenziale, e già immune ex art.1 L.81/2017 da vincoli di orario, luogo e postazione, in essa la tutela dei dati aziendali è pur sempre demandata all’adozione (non necessariamente contestuale all’avvio della modalità agile) di misure difensive, tecniche e negoziali, tali da “ritenersi ragionevolmente adeguate a mantenere segreti” i dati aziendali, solo così “aventi valore economico” ex art. 98 Codice Proprietà Industriale.
A questo link l’articolo
 

Giulietta Bergamaschi intervistata nello Speciale Tg1 “Pari ma dispari”

Giulietta Bergamaschi intervistata di Cinzia Fiorato ed Enrica Majo parla di lavoro agile e flessibilità (dal min. -42:12 al min. -41:00)

Il lavoro agile non è soltanto una modalità per agevolare la conciliazione vita-lavoro.
È qualche cosa di più ampio che rientra tra gli strumento organizzativi dell’impresa e che va a favore sia dell’impresa che del lavoratore.
La flessibilità dell’organizzazione del lavoro alla fine consente all’impresa di trattenere al proprio interno le persone e quindi di garantirsi “a tempo indeterminato”, senza che ci sia un continuo turnover, i migliori talenti che può reperire sul mercato”.
Qui il link alla puntata dello Speciale Tg1, disponibile su RaiPlay

 
“Ogni anno 30mila donne lasciano il lavoro perché fanno figli e da quel momento diventa tutto difficile, se non impossibile. Le prospettive di carriera vacillano, scarseggiano welfare e servizi pubblici, dai costi esorbitanti quelli privati, mentre mobbing e licenziamenti restano in agguato.
Nella giornata della donna, parte da qui lo Speciale Tg1 di Cinzia Fiorato ed Enrica Majo che racconta la vita delle donne nel mondo del lavoro, ancora alle prese con disparità, ingiustizie e asimmetrie con gli uomini. Donne messe all’angolo, tagliate lentamente fuori, spesso sole ma altrettanto spesso determinate a reagire reinventando lavoro e vita.
Donne che spiegano quanto sia ancora difficile fronteggiare una cultura retrograda, nonostante l’Italia sia, insieme con la Francia, il paese che più tutela con le leggi la maternità. La sfida è conciliare i tempi del lavoro con la vita privata e se le aziende cominciano ad attuare lo smart working e prevedere forme di protezione della genitorialità, ogni giorno si fanno i conti – ancora – con aggressioni e molestie. Quattro donne, senza mostrarsi in viso per paura di ritorsioni, raccontano quelle subite sul posto di lavoro e lo fanno per aiutare le altre che non hanno il coraggio di uscire allo scoperto. Attacchi violenti e continui, molestie pesanti e gravi che creano terrore psicologico e lasciano un segno profondo. Le donne, poi, continuano ad essere discriminate anche sul piano economico.
La loro busta paga, infatti, pesa spesso la metà anche quando fanno lo stesso lavoro dei colleghi uomini e il gap occupazionale è ancora molto forte: l’Italia è penultima in Europa. Fondamentale che tutte le aziende adottino un codice etico aziendale che vieti ogni tipo di disparità tra uomo e donna.
Nel reportage l’analisi, le opinioni e le riflessioni di esperti, accademici, psicologi, giornalisti, avvocati. Un quadro sconfortante, tanto che, secondo quanto prevede il World Economic Forum, “per raggiungere la parità ci vorranno 100 anni”.
 
 
 

 

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Rinnovati i vertici dell’Associazione Amici delle Stelline, Giulietta Bergamaschi nuovo Segretario

Nell’Assemblea di mercoledì 19 febbraio 2020 sono stati rinnovati i vertici dell’Associazione Amici delle Stelline, comunità presentata il 18 luglio 2013 dalla Presidente della Fondazione Stelline PierCarla Delpiano con l’obiettivo di dare vita a un contenitore culturale e divulgatore di progetti che la Fondazione intende promuovere perché possano essere realizzati in un’ottica di sviluppo concreto della città di Milano e della Lombardia.
Il Presidente neoeletto è il giornalista Fabio Massa, mentre il nuovo Segretario è l’Avvocato Giulietta Bergamaschi.
Nel Direttivo sono stati eletti l’Avvocato Giovanna Giampà (Vicepresidente), il Dottor Dario Iaccarino (Tesoriere) e la Professoressa Maria Cristina Treu.
In questi ultimi anni l’Associazione Amici delle Stelline è stata di supporto alla Fondazione Stelline con l’ideazione e la proposta di due progetti di grande successo: l’Hub Leonardo e Italia Direzione Nord.
Durante la riunione, sono stati discussi anche i nuovi progetti per il 2020: a tenere banco, i temi della creatività femminile, della scultura e della sostenibilità.
La notizia disponibile anche qui.

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Lo smart working al tempo del coronavirus

Pubblichiamo di seguito l’ultimo editoriale del Prof. Francesco Bacchini per IPSOA, sul tema del ricorso allo smart-working, anche in assenza di accordi individuali, in ragione dell’emergenza sanitaria da  Covid-19  c.d. Coronavirus.

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Nella dinamica delle misure di sicurezza anti-coronavirus utilizzabili dalle aziende, la normativa emergenziale ha incentrato la sua attenzione sullo smart working. Con una disposizione di natura temporanea, si è infatti disposto che – fino al 15 marzo 2020 – i datori di lavoro con sede in Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Piemonte, Veneto e Liguria (e i lavoratori qui residenti o domiciliati che lavorano al di fuori da tali territori) potranno ricorrere allo smart working anche in assenza di accordi individuali. Resta, invece, confermato l’obbligo di consegna al lavoratore dell’informativa scritta sulla salute e sicurezza. E i dipendenti che non potranno svolgere il proprio lavoro a distanza?

 
Il testo del decreto legge n. 6/2020 (G.U. Serie Generale n. 45 del 23-02-2020) merita di essere commentato, per quanto di nostra competenza, giacché si occupa di alcuni aspetti di rilevanza giuslavoristica.
A tale riguardo, si rileva che il commento del decreto legge non può esse disgiunto da quello dei due decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri i quali, emanati il primo in pari data, il secondo a due giorni di distanza (DPCM 25 febbraio 2020), ne contengono alcune disposizioni attuative (efficaci per un limitato periodo di tempo dall’entrata in vigore), e segnatamente le misure finalizzate al contenimento dell’epidemia nei comuni noti alle cronache sanitarie come “zona rossa” (di Lombardia e Veneto), con le quali è stata sancita la pressoché totale interruzione di ogni attività sociale ed economica nonché la “segregazione fisica” degli abitanti, unitamente ad altri provvedimenti emergenziali di portata territorialmente più ampia coincidenti con le regioni: Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Veneto, Piemonte e Liguria, fra i quali spicca l’intervento, provvisoriamente derogatorio (interamente riscritto), della disciplina del lavoro agile di cui alla l. n. 81/2017.
Prima di addentrarci nella regolamentazione contingente del lavoro agile, occupiamoci del D.L. che ne costituisce il presupposto giuridico.
In prima battuta deve rimarcarsi, non avendo, come contesta l’OMS, ancora compreso dove sia/siano i focolai del contagio e quali le cause dello stesso, che le indicazioni topografiche di attuazione del decreto risultano quanto mai generiche; la norma, infatti, trova applicazione “nei comuni o nelle aree nei quali risulta positiva almeno una persona per la quale non si conosce la fonte di trasmissione o comunque nei quali vi è un caso non riconducibile ad una persona proveniente da un’area già interessata dal contagio di virus (…)”.
A fronte di questo incerto campo di vincolatività del decreto, segue una elencazione, chiaramente non tassativa, di eventuali misure, adeguate e proporzionali all’evolversi della situazione epidemiologica, che potranno essere prese, a scopo cautelare, dalle autorità competenti.
Fra codeste misure, quelle a maggiore impatto, diretto e indiretto, sul lavoro riguardano la chiusura delle attività commerciali e delle attività lavorative delle imprese (e dei lavoratori) “ad esclusione di quelle che erogano servizi essenziali e di pubblica utilità (…) e di quelle che possono essere svolte in modalità domiciliare ovvero in modalità a distanza”,
Ebbene, non essendovi stata, ad oggi, alcuna sospensione generalizzata delle attività lavorative e d’impresa – ad eccezione della richiamata “zona rossa” – spetterà al datore di lavoro decidere se e come assicurare la continuità operativa delle aziende garantendo, nel contempo, la tutela della sicurezza e della salute dei propri dipendenti e collaboratori.
Ciò dovrà avvenire valutando ex novo o aggiornando sia la valutazione relativa al rischio biologico di contagio da coronavirus, sia il protocollo sanitario elaborato dal medico competente; informando i lavoratori, anche telematicamente, sulle misure di sicurezza e salute da adottare; invitando o intimando chi fosse comunque malato dal non presentarsi sul posto di lavoro; sospendendo o riducendo le trasferte e i servizi svolti presso terzi committenti; dotando i lavoratori che debbono necessariamente prestare la propria attività di dispositivi di protezione individuale e di presidi medico chirurgici adeguati, nonché di procedure minime di sicurezza come da circolari del Ministero della Salute.
Nella dinamica delle misure di sicurezza anti coronavirus utilizzabili dalle aziende, la normativa emergenziale, in forza della previsione di cui alla lett. n) del D.L. n. 6/2020, ha incentrato la sua attenzione sulla modalità di lavoro domiciliare o a distanza. A tale proposito, merita evidenziare che all’art. 3 del DPCM del 23 febbraio, si dispone(va) l’applicabilità (efficace, ex art. 5, solo per 14 giorni dal 23 febbraio) del lavoro agile (smart working) di cui alla l. n. 81/2017, “in via automatica ad ogni rapporto di lavoro subordinato nel rispetto dei principi dettati dalle menzionate disposizioni e anche in assenza degli accordi individuali ivi previsti”, prevedendosi, inoltre, la possibilità di adempiere gli “obblighi di informativa di cui all’art. 23 della legge 22 maggio 2017, n. 81, (…) in via telematica anche ricorrendo alla documentazione resa disponibile sul sito dell’Istituto nazionale assicurazione infortuni sul lavoro”.
Il precetto di cui sopra, invero tutt’altro che chiaro, evidenziava da subito almeno un paio di problemi interpretativi: il primo aveva ad oggetto la portata generale o specifica della norma, valida solo, si leggeva, “nell’ambito di aree considerate a rischio nelle situazioni di emergenza nazionale o locale”, così da potersi intendere, con interpretazione restrittiva, limitata alla sola “zona rossa”, mentre, con interpretazione estensiva, applicabile in tutti gli altri ambiti territoriali, nazionali o locali, via via coinvolti dal rischio epidemico; il secondo aveva a che fare con il riferimento agli obblighi di informativa di cui all’art. 23 della l. n. 81/2017, non comprendendosi se la norma si riferisse all’informativa di sicurezza sul lavoro agile, disciplinata all’art. 22, co.1, o all’invio telematico della comunicazione dell’accordo per lo svolgimento della prestazione lavorativa agile prevista dall’art. 23 co. 1, rilevante agli esclusivi fini assicurativi, anche ricorrendo alla documentazione resa disponibile sul sito dell’INAIL.
Al fine di ovviare a tali dilemmi nel nuovo DPCM, che contiene ulteriori disposizioni attuative del D.L. n. 6/2020, pubblicato nella G.U. n. 47 del 25 febbraio 2020, l’art. 3 nella precedente formulazione viene abrogato e interamente sostituito.
Per la verità la novella normativa di cui all’art. 2 del DPCM 25 febbraio, non risolve appieno i problemi sopra evidenziati, e, nella formulazione pubblicata, purtroppo lascia qualche dubbio sull’applicabilità delle deroghe temporanee alla disciplina del lavoro agile ex l. n. 81/2017: dubbi residuali in merito al profilo territoriale, dubbi sostanziali rispetto a quello dell’informativa della sicurezza sul lavoro e della comunicazione di attivazione del lavoro agile agli enti competenti.
Quanto al primo profilo di dubbio il nuovo testo sancisce, che in via provvisoria, ossia fino al 15 marzo 2020, i datori di lavoro aventi sede legale o operativa nelle Regioni: Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Piemonte, Veneto e Liguria, e i lavoratori ivi residenti o domiciliati che svolgano attività lavorativa al di fuori da tali territori, potranno utilizzare la modalità di lavoro agile in ogni rapporto di lavoro subordinato, nel rispetto dei principi dettati dalla legislazione di riferimento, “anche in assenza degli accordi individuali”.
Ne consegue, pertanto, che l’applicazione della modalità di lavoro agile in deroga al vincolo dell’accordo individuale opererà non solo nella “zona rossa” bensì in tutte le regioni tassativamente elencate e risulterà utilizzabile sicuramente nei confronti di ogni rapporto di lavoro subordinato posto in essere con un datore di lavoro che ha sede legale o operativa in dette regioni, nonché, ragionevolmente interpretando il provvedimento normativo, varrà anche nei confronti dei lavoratori ivi residenti o domiciliati, nel caso in cui svolgano l’attività lavorativa fuori da tali territori in quanto dipendenti da datori di lavoro con sede legale o operativa in regioni diverse da quelle appellate.
Quanto, invece, alla seconda questione, il nuovo testo ha corretto l’evidente errore commesso richiamando l’informativa dell’art. 23 della l. n. 81/2017, ora sostituita dal giusto riferimento all’art. 22 e ha confermato la previsione di assolvimento dell’obbligo di consegna al lavoratore dell’informativa in materia di sicurezza sul lavoro in via telematica, utilizzando la documentazione resa disponibile sul sito dell’INAIL. A tal proposito si segnala che, dal 26 febbraio, è scaricabile sul sito dell’Istituto assicuratore un modello di informativa sulla salute e sicurezza nel lavoro agile ai sensi dell’art. 22, comma 1, l. 81/2017 che i datori di lavoro potranno utilizzare per informare i propri lavoratori agili.
Resta, pertanto, impregiudicato, anche in codesta disciplina emergenziale, l’obbligo della consegna dell’informativa scritta sui rischi (generali e specifici) “connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro” di cui all’art. 22 del D.lgs. n. 81/2017, che il lavoratore agile, per così dire, forzato, dovrà necessariamente ricevere dal datore di lavoro seppure in via telematica e con schema standardizzato.
Nonostante il venir meno, nel nuovo testo dell’art. 3 del DPCM del 23 febbraio, del riferimento all’art. 23 della l. n. 81/2017, e pur in assenza di un accordo individuale, pare doversi confermare l’obbligo in esso contenuto di comunicazione telematica per l’attivazione del lavoro agile. Conferma di ciò si trae direttamente da un comunicato del Ministero del lavoro del 24 febbraio in cui si afferma che nel caso di specie “nella procedura telematica l’accordo individuale è sostituito da un’autocertificazione che il lavoro agile si riferisce ad un soggetto appartenente a una delle aree a rischio. Nel campo “data di sottoscrizione dell’accordo”, va inserita la data di inizio dello smart working”.
In conclusione, merita di essere ricordato che non tutti i dipendenti potranno svolgere il proprio lavoro in modalità agile, sicché mentre chi, in conseguenza della tipologia di mansioni e già in possesso di strumenti tecnologici e di collegamento telematico, è in grado di operare da remoto potrà continuare a lavorare, previo coordinamento con il datore di lavoro che dovrà comunque fornire le disposizioni necessarie allo svolgimento dell’attività lavorativa, chi, diversamente, sempreché sano, in ragione delle mansioni e/o della mancanza di detti strumenti e collegamenti, non è in grado di lavorare a distanza, dovrà recarsi sul posto di lavoro per rendere la prestazione lavorativa o esserne espressamente temporaneamente esonerato dal datore di lavoro per motivi di sicurezza e salute, con mantenimento della retribuzione.
 
L’articolo è disponibile anche qui.

Studi legali travolti dal coronavirus: avvocati in smart working (e in taxi)

Boom di richieste di consulenza legale per le conseguenze del virus: gli avvocati d’affari tutti in smart working (o con il buono taxi)
Valeria Uva ha realizzato un servizio per il Sole 24 Ore in cui ha cercato di spiegare come gli Studi Legali milanesi stanno affrontando la situazione creatasi a fronte dell’emergenza “coronavirus”.
Smart working “ liberalizzato” per avvocati e segretarie, stop alle trasferte, buoni taxi ai dipendenti per evitare gli spostamenti con i mezzi pubblici. Ma anche linee telefoniche “roventi” con tanti clienti da rassicurare e problematiche mai affrontate finora. La prima giornata di lavoro degli studi legali milanesi al tempo del coronavirus è passata così, con tanto Skype e zero riunioni in presenza in uffici, di fatto, semi vuoti.
Su questo tema è stata sentita anche la nostra Managing Partner Giulietta Bergamaschi che in riferimento alla situazione del Tribunale di Milano ha così commentato:
Aule aperte e udienze (quasi) regolari invece, al Palazzo di giustizia di Milano. Sono state rinviate solo le udienze e le attività che coinvolgevano gli avvocati provenienti dalle zone chiuse per contagio. Per gli altri, l’attività è proseguita regolarmente ma con l’invito a evitare sovraffollamenti e quindi a non coinvolgere “praticanti e tirocinanti”. «Abbiamo accolto questa richiesta – precisa Giulietta Bergamaschi, managing partner di Lexellent – e abbiamo ridotto al minimo le presenze, ma non sono stati necessari rinvii». A tutti il tribunale ha raccomandato di rispettare le distanze di sicurezza e quindi ha consigliato di «evitare che ci siano contatti a distanza inferiore ai 2 metri». «E  in effetti oggi per la prima volta abbiamo svolto una conciliazione in una grande sala riunioni tenendoci proprio a due metri di distanza» conclude Bergamaschi.
A questo link l’articolo completo

Coronavirus: quali cautele deve adottare il datore di lavoro

Di seguito l’articolo a firma del Prof. Francesco Bacchini sul tema del Coronavirus e delle cautele che devono adottare i datori di lavoro, pubblicato da IPSOA.

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L’epidemia da coronavirus 2019-nCoV, al centro delle cronache degli ultimi giorni, porta alla ribalta un tema di grande interesse. Si tratta delle misure preventive che il datore di lavoro deve adottare, con la collaborazione del medico competente, per tutelare i lavoratori dal rischio biologico. Secondo il Ministero della Salute, che ha fornito le indicazioni operative con la circolare n. 3190 dello scorso 3 febbraio (superata dai fatti), per i casi di contatti a rischio con gli ammalati si ritiene sufficiente adottare le comuni misure preventive della diffusione delle malattie trasmesse per via respiratoria. Il datore di lavoro è poi tenuto ad accortezze ulteriori nei riguardi dei lavoratori in trasferta o distacco in Cina o in aree geografiche “a rischio”.

La propagazione del contagio da coronavirus, al centro delle cronache mondiali degli ultimi giorni, sta proiettando l’attenzione collettiva (di esperti, Istituzioni, cittadini) sulle modalità con cui prevenire il pericolo della progressiva diffusione dell’epidemia, specie in ragione del suo elevatissimo grado di trasmissibilità.
Va da sé che i principali rischi pandemici si concentrano nei luoghi di sosta o transito per consistenti masse di popolazione: aree pubbliche, aperte al pubblico o destinate a eventi a larga partecipazione, mezzi di trasporto e, ovviamente, luoghi di lavoro.

Misure preventive sui luoghi di lavoro

I dubbi in merito alle concrete misure preventive del contagio proprio nel contesto lavorativo hanno indotto il Ministero della Salute, con la circolare n. 3190 dello scorso 3 febbraio, a fornire chiarimenti sui comportamenti prescritti agli operatori che, per ragioni lavorative, vengono a contatto con il pubblico; indicazioni che, come chiarito al termine della circolare, i datori di lavoro hanno l’onere di comunicare all’intero personale dipendente.
Il provvedimento citato, anzitutto, riconduce l’emergenza coronavirus all’obbligo, gravante sul datore di lavoro insieme al medico competente ai sensi del D. Lgs. 81/2008 (Titolo X, Capo II), di tutelare i dipendenti dal c.d. “rischio biologico, in funzione della entità del pericolo corrente.
Tale rischio ricorre qualora l’attività lavorativa comporti la possibile esposizione a un “agente biologico”, ossia qualsiasi microorganismo, anche se geneticamente modificato, coltura cellulare ed endoparassita umano che potrebbe provocare infezioni, allergie o intossicazioni” (v. artt. 266 e 267 D. Lgs. 81/2008).
A quest’ultimo riguardo, prosegue il Ministero, deve comunque osservarsi che il virus non risulta attualmente in circolazione sul nostro territorio nazionale; in ragione di ciò, ad oggi si ritiene sufficiente che i lavoratori adottino le comuni misure preventive (cura dell’igiene della persona e dell’ambiente, attenzione nel tenersi distanti da persone con sintomi influenzali) o quelle comunque dettate dal datore di lavoro.
A quest’ultimo riguardo, essendo, purtroppo, ormai smentita l’affermazione sulla quale il Ministero aveva basato le sue raccomandazioni, ossia che il virus non risultasse attualmente in circolazione sul nostro territorio nazionale, è ben possibile dubitare, in ragione di ciò, che possano ritenersi sufficienti l’adozione, nei confronti dei lavoratori, delle comuni misure preventive (cura dell’igiene della persona e dell’ambiente, attenzione nel tenersi distanti da persone con sintomi influenzali) o di quelle ulteriori e più drastiche comunque dettate dal datore di lavoro a fronte di una specifica valutazione dei rischi, imponendosi, per legge, al più presto, il varo di misure di salute pubblica come il trattamento sanitario obbligatorio di quarantena.

Attenzione ai casi sospetti

Prescrizioni specifiche e più stringenti operano, invece, con riferimento ai soggetti (nella specie, gli operatori sanitari) che abbiano avuto contatti diretti con persone contagiate o rientranti nella definizione di “caso sospetto” ai sensi dell’allegato 1 della circolare del Ministero della Salute del 27.1.2020.
In tale contesto, per “caso sospetto” si intende:
A. Una persona con infezione respiratoria acuta grave – SARI – (febbre, tosse e che ha richiesto il ricovero in ospedale), senza un’altra eziologia che spieghi pienamente la presentazione clinica e almeno una delle seguenti condizioni:
• storia di viaggi o residenza in aree a rischio della Cina, nei 14 giorni precedenti l’insorgenza della sintomatologia; oppure
• il paziente è un operatore sanitario che ha lavorato in un ambiente dove si stanno curando pazienti con infezioni respiratorie acute gravi ad eziologia sconosciuta.
B. Una persona con malattia respiratoria acuta e almeno una delle seguenti condizioni:
• contatto stretto con un caso probabile o confermato di infezione da nCoV nei 14 giorni precedenti l’insorgenza della sintomatologia; oppure
• ha visitato o ha lavorato in un mercato di animali vivi a Wuhan, provincia di Hubei, Cina, nei 14 giorni precedenti l’insorgenza della sintomatologia; oppure
• ha lavorato o frequentato una struttura sanitaria nei 14 giorni precedenti l’insorgenza della sintomatologia dove sono stati ricoverati pazienti con infezioni nosocomiali da 2019-nCov.
In tali casi occorrerà contattare i servizi sanitari e, nell’attesa, evitare ulteriori contatti con i malati, fornire loro maschere chirurgiche, lavare accuratamente le mani e prevenire il contatto con liquidi delle persone contagiate o con materiali infetti da queste ultime utilizzati.

Obblighi per i datori di lavoro…

Al di là di tali direttive ministeriali, rivolte direttamente nei confronti di operatori di servizi o esercizi a contatto con il pubblico, operano poi gli specifici obblighi gravanti sul datore di lavoro quale gestore responsabile della prevenzione e della protezione del “rischio biologico” nei riguardi dei propri dipendenti.
A questo proposito, con particolare riferimento alla tutela dei lavoratori stabilmente impegnati all’interno di locali aziendali ubicati nel contesto nazionale, rimangono ferme le misure intuitivamente necessarie (anche in ottica strumentale all’attuazione delle prescrizioni ministeriali da parte dei singoli) ad assicurare la salubrità degli ambienti: tra queste, l’installazione di erogatori di gel antibatterici, l’accurata pulizia degli spazi e delle superfici con appositi prodotti igienizzanti, la dotazione di guanti o mascherine protettive e simili accorgimenti.

… e alcune accortezze

Fermi restando tali obblighi “minimi”, l’imprenditore è poi tenuto ad accortezze ulteriori nei riguardi dei lavoratori in trasferta o distacco presso unità produttive con sede in Cina o in aree geografiche comunque ritenute “a rischio”.
Ciò in quanto anche in tali ipotesi rimane fermo l’obbligo datoriale di attuare specifiche misure di sicurezza (si veda nello specifico l’art. 18, co.1, lett. e), D. Lgs. n. 151/2015) calibrate anche in funzione delle condizioni sanitarie (si veda l’interpello Ministero del Lavoro n. 11/2016) del luogo della prestazione.
In tal senso, per fronteggiare al meglio il concreto pericolo di contagio, è sempre più frequente il ricorso delle aziende sia a forme di lavoro “da remoto” (“lavoro agile/smart-working” o telelavoro), sia a provvedimenti di sospensione della dell’attività lavorativa pur in costanza di retribuzione; iniziative, queste, che stanno trovando riscontro anche nei riguardi di lavoratori “in quarantena” dopo essere tornati in Italia da zone particolarmente esposte all’epidemia.
La stessa logica preventiva del “rischio biologico” sta poi orientando le aziende nella gestione del personale che debba recarsi in trasferta nell’area orientale o in zone “a rischio”. In tali ipotesi la tendenza appare quella di ritenere legittimo (e dunque irrilevante ai fini disciplinari) l’eventuale rifiuto opposto dal dipendente, in ragione dell’epidemia, al provvedimento di trasferta o distacco.
Così descritto il quadro attuale, rimane inteso che le misure precauzionali richieste o messe in atto da operatori e datori di lavoro potranno/dovranno progressivamente mutare alla luce dei futuri sviluppi della malattia e delle conseguenti indicazioni fornite dalle Istituzioni nazionali, dall’OMS e dagli esperti del settore.

Cariche sociali e rapporto di lavoro subordinato: una convivenza possibile? Marco Chiesara sul MAG

Di seguito un abstract dell’articolo a firma di Marco Chiesara, pubblicato da Legalcommunity sull’ultimo MAG (n. 135 del 10.02.2020), sul tema della coesistenza tra cariche societarie e lavoro subordinato.

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Non è raro  che il contenzioso lavoristico, specie quando ha ad oggetto l’accertamento della subordinazione, imponga di esaminare il tema della compatibilità tra cariche societarie e lavoro dipendente che ha, tra le altre cose, importanti conseguenze di tipo previdenziale e assistenziale.
La questione riguarda la possibilità che un soggetto rivesta, contemporaneamente e per la stessa società (di capitali), sia funzioni amministrative dell’ente, sia la posizione di lavoratore subordinato (in particolare, dirigente).
[omissis]
L’articolo completo è disponibile qui.
 

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Forbes Italia stila la Top100 degli studi italiani: Lexellent c’è.

Giovedì 6 Febbraio Forbes Italia ha pubblicato la classifica “100 Legal Leader“, una selezione delle “100 società al top nel mondo legale e della consulenza“.
Lexellent è stato incluso come Studio: “Specializzato in diritto del lavoro, vanta una riconosciuta esperienza nelle relazioni industriali e sindacali e nel relativo contenzioso, possedendone approfondita conoscenza in tutti gli aspetti legislativi e contrattuali.
Giulietta Bergamaschi, managing partner dal giugno 2018, ha rafforzato il network internazionale e favorito la nascita e lo sviluppo di due nuovi dipartimenti: sicurezza del lavoro e terzo settore.
Clicca qui per leggere l’articolo completo in formato PDF.

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Incentivi alle assunzioni, ecco la mappa disegnata dalla legge di Bilancio 2020

Di seguito l’intervista alla nostra Managing Partner Giulietta Bergamaschi per Hr Link, sul tema delle novità introdotte dalla Legge di Bilancio 2020 in materia di nuove assunzioni.

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Sblocco o proroga di alcuni incentivi contributivi per l’assunzione di nuovo personale: questa una delle novità tra quelle introdotte dalla legge di Bilancio 2020, che si pone l’obiettivo di mettere ordine nella materia, dopo la confusione generata dal Decreto Dignità. Abbiamo chiesto a Giulietta Bergamaschi, Managing Partner di Lexellent, di darci il quadro di quanto previsto.

Avvocata Bergamaschi, cosa cambia ai fini dell’assunzione di nuovo personale con la legge di Bilancio?

La Legge di bilancio n. 160/2019, entrata in vigore il primo gennaio 2020, prevede innanzitutto significativi sgravi contributivi nei casi di assunzioni con contratti di apprendistato cosiddetti “di primo livello”. Tali vantaggi sono rivolti a datori di lavoro privati con non più di nove dipendenti che assumeranno, entro il 31 dicembre 2020, giovani tra i 15 e i 25 anni tramite contratti di apprendistato per la qualifica, il diploma professionale e il certificato di specializzazione tecnica superiore (art. 43, comma 1, D. Lgs. 81/2015). Grazie a tale previsione, le piccole aziende godranno di un esonero totale dai contributi dovuti per i primi tre anni di esecuzione del rapporto di lavoro;  se quest’ultimo ha però durata più lunga, lo sgravio riguarderà il 10% dei contributi dovuti per la parte eccedente i tre anni.

Cosa è previsto per gli under 35?

L’articolo 1, comma 10 riguarda gli esoneri contributivi per le assunzioni di giovani “under 35” con contratti a tutele crescenti a tempo indeterminato – istituiti dal Decreto legislativo 23 del 2015 beneficio già previsto dalla Legge di bilancio del 2017, ma finora relativo alle sole assunzioni degli under 30 e perfezionate entro il 31 dicembre 2018. Rispetto a quanto già previsto, la manovra per l’anno 2020, oltre a prorogare l’ultimo termine – che adesso viene ora posticipato al 31 dicembre 2020 – estende il beneficio alle assunzioni di risorse under 35 che non siano già state occupate a tempo indeterminato, sia con il medesimo datore di lavoro presso altri. In sostanza, andando più nel dettaglio, in virtù di questo incentivo, tutti i datori di lavoro privati – a prescindere dal numero di dipendenti – saranno esonerati, per 36 mesi, dal versamento del 50% dei contributi previdenziali. In questo modo con questa legge di Bilancio vengono superati gli ostacoli che il Decreto Dignità (D.L. 87/2018) aveva posto al concreto riconoscimento dell’esonero.

Facciamo un passo indietro: cosa era successo allora?

Il Decreto Dignità demandava la disciplina delle specifiche modalità di fruizione dell’esonero a un successivo decreto interministeriale; questo provvedimento, però, non è mai stato adottato e l’esonero contributivo è rimasto sostanzialmente disapplicato: il comma che lo prevedeva è stato addirittura abrogato. Bisogna sottolineare che la novità produce effetti retroattivi perché consente, in sostanza, ai datori di lavoro di recuperare i contributi per le assunzioni effettuate sin dal primo gennaio 2019, oltre che per tutto il 2020.

Cosa introduce, invece, il bonus eccellenze?

Di fatto viene richiamata la Legge di Bilancio del 2018, nella quale si prevedeva – per i datori di lavoro privati che nel 2019 avessero assunto a tempo indeterminato giovani particolarmente meritevoli in possesso di specifici requisiti (ex art. 1/707) – un esonero dal versamento dei contributi previdenziali per i primi 12 mesi dall’assunzione, nel limite massimo di 8.000 Euro per ogni unità. Ad oggi, tuttavia, rispetto alla disciplina già vigente, la Legge di bilancio per il 2020 non modifica il periodo entro cui devono essere effettuate le assunzioni che comportano l’esonero, che resta quindi circoscritto al 2019; ciò significa che, in assenza di ulteriori modifiche legislative, il  “bonus eccellenze” sembrerebbe non riguardare gli incrementi di personale disposti nel 2020.

C’è poi una parte dedicata atlete professioniste: di cosa si tratta?

Per il triennio 2020-2022 è previsto l’esonero totale dal versamento dei contributi – entro 8 mila euro annui – per l’assunzione di atlete professioniste da parte di società sportive femminili: si tratta di una novità senz’altro rilevante perché tende al superamento della storica discriminazione di genere che sappiamo essere dilagante nel settore del lavoro sportivo. Nessuna federazione sportiva italiana, infatti, ha finora acconsentito – pur potendolo fare grazie alle legge 91/1981 sul professionismo sportivo – alla qualificazione delle atlete donne come professioniste; e ciò, come è noto, non a causa di preclusioni formali, ma per mere logiche di risparmio sui costi. Ecco perché, a maggior ragione, si può prevedere che l’esonero contributivo appena introdotto, accolto con grande consenso, contribuirà sensibilmente a colmare il divario di genere ad oggi esistente tra uomini e donne impegnati nello sport, tuttavia senza nessun automatismo e senza dimenticare che il potere decisionale in tal senso spetta sempre alle federazioni sportive.
La versione pdf dell’articolo è disponibile qui.

La negoziazione collettiva del welfare aziendale: dal vincolo della volontarietà unilaterale alla contrattazione fiscalmente vantaggiosa

Pubblichiamo di seguito l’ultimo contributo del Prof. Francesco Bacchini sul tema del Welfare aziendale, uscito sul numero 2 del 2020 di HR Online, periodico dedicato alle Risorse Umane di AIDP.

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C’è stato un tempo in cui il welfare aziendale non poteva essere contrattato collettivamente, pena la privazione di ogni vantaggio fiscale per i lavoratori.
Così, fatta salva la decisività del ruolo giocato dalla contrattazione collettiva di livello nazionale nella regolazione della previdenza complementare e della sanità integrativa (fondi chiusi di categoria), è innegabile che i sindacati (e, conseguentemente, i lavoratori) abbiano mostrato (e in parte ancora mostrino) una certa diffidenza nei confronti dei progetti di welfare aziendale. Le ragioni di tale diffidenza erano (ma, in parte ancora, sono) molteplici: il timore dell’erosione del welfare universale pubblico; l’aumento delle disparità di trattamento a livello territoriale (nord-sud), categoriale e aziendale (settori produttivi forti-deboli, aziende in salute-in crisi), l’aumento dei dualismi e degli squilibri nel mercato del lavoro (insider-outsider), ma, soprattutto, la convinzione (non sempre errata) che l’interesse sotteso all’offerta di “servizi sociali aziendali” sia esclusivamente quello datoriale di riduzione dei costi degli incrementi retributivi in denaro, di alternatività al salario e non quello dell’effettiva promozione del benessere dei lavoratori, a fronte, per giunta, di benefits spesso predeterminati unilateralmente dall’azienda, finalizzati a soddisfare bisogni marginali, di qualità incerta, non sempre utili (a tutti) e facilmente fruibili.
Il motivo di quest’ultima e più significativa diffidenza derivava (ma in parte ancora deriva), principalmente, dal limite della “volontarietà” (con il conseguente divieto di ricorso alla negoziazione collettiva) dell’erogazione datoriale dei flexible benefits di cui all’art. 51, comma 2, del TUIR per l’accesso ai vantaggi fiscali, la quale ha finito per imporne la definizione unilaterale da parte delle imprese. L’evidente stortura normativa, frutto di un vetusto approccio paternalistico-donativo a proposito della natura delle opere e dei servizi introiettati nei piani di welfare aziendale a scapito della naturale vocazione alla regolazione collettiva del rapporto di lavoro e alla determinazione della sua remunerazione, è stata, infine, corretta dalla legge di stabilità per il 2016 (e ulteriormente precisata da quella di bilancio per il 2017).
La citata novella della lett. f), dell’art. 51, comma 2, TUIR, da intendersi logicamente estesa anche alle lett. f-bis), f-ter) ed f-quater), non potendo, le ultime tre, che costituire una specificazione della prima, sancisce, infatti, che non concorrono alla formazione del reddito di lavoro dipendente “l’utilizzazione delle opere e dei servizi riconosciuti dal datore di lavoro volontariamente o in conformità a disposizioni di contratto o di accordo o di regolamento aziendale (…)”.
Pur confermando la possibilità della scelta volontaristico-unilaterale, il legislatore, con la duplice finalità di rafforzare il welfare aziendale unitamente alla contrattazione collettiva (innanzitutto aziendale o territoriale), ha deliberato il riconoscimento del vantaggio fiscale al dipendente anche nel caso in cui le opere e i servizi di utilità sociale siano riconosciuti e disciplinati da un contratto, accordo o regolamento aziendale, determinando, per di più, in conseguenza dell’adempimento dell’obbligo negoziale, “la deducibilità integrale dei relativi costi da parte del datore di lavoro ai sensi dell’articolo 95 del TUIR, e non nel solo limite del cinque per mille, secondo quanto previsto dall’articolo 100 del medesimo testo unico” (deducibilità piena in relazione all’IRES e all’IRAP ma quest’ultima solo nei confronti dei lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato, mentre per quelli assunti a termine sono generalmente deducibili solo le prestazioni in natura e non quelle rimborsuali) in relazione all’ipotesi in cui le opere e i servizi siano, invece, offerti volontariamente.
Se per contratto aziendale si deve intendere il contratto collettivo di secondo livello (anche territoriale) stipulato nei limiti di quanto attribuito (o non disciplinato) dal contratto collettivo nazionale, per accordo aziendale si deve, presumibilmente, intendere quello “gestionale” (accordo operativo nei confronti dell’intera maestranza aziendale, data l’unitarietà del potere datoriale di autolimitazione o proceduralizzazione delle proprie prerogative) oppure quello stipulato in deroga (anche ex art. 8, l. n. 148 del 2011) rispetto alla disciplina del contratto collettivo nazionale/aziendale, con particolare riferimento al trattamento normativo (orario di lavoro, riposi, pause, classificazione, inquadramento, mansioni e percorsi di carriera) e retributivo di produttività e premialità (come, appunto, i flexible benefits).
Il dettato normativo appena analizzato, a conferma dei limiti evidenziati nella ricostruzione delle tipologie contrattual-collettive richiamate, viene significativamente integrato da una norma interpretativa (art. 1, comma 162) contenuta nella legge di bilancio per il 2017 in forza della quale il legislatore sancisce che il vantaggio fiscale di cui all’art. 51, comma 2, lett. f) del TUIR trova applicazione anche nel caso in cui le opere e i servizi di utilità sociale siano erogati dal datore di lavoro privato o pubblico “in conformità a disposizioni di contratto collettivo nazionale di lavoro, di accordo interconfederale o di contratto collettivo territoriale”.
Non solo, dunque, contrattazione di prossimità ma anche nazionale e intercategoriale.
Discorso diverso e più problematico appare, invece, quello relativo all’identificazione del regolamento aziendale. Infatti, poiché per regolamento aziendale si deve intendere quel complesso di disposizioni, riunite in un unico documento, unilateralmente impartite (nell’alveo degli artt. 2086 e 2104 Cod. Civ.) dal datore di lavoro in quanto relative all’organizzazione tecnico-disciplinare dell’azienda ed alle quali è sempre rimasto estraneo il trattamento economico del lavoratore, la locuzione deve essere evidentemente interpretata (posto anche il progressivo assorbimento dei suoi contenuti nella contrattazione collettiva aziendale) in senso ampio e atecnico, quale informativa per i dipendenti avente ad oggetto le modalità di funzionamento dell’erogazione dei beni e dei servizi di utilità sociale.
Si dovrebbe, pertanto, trattare di una policy con la quale il datore definisce e comunica (alla generalità dei lavoratori o a categorie di essi) le regole gestionali del welfare aziendale, come, ad esempio: tipologie di benefits, massimali messi a disposizione con eventuali distinzioni per tipologie, termini e modalità di fruizione (erogazione datoriale diretta, tramite terzi o a titolo di rimborso spese sostenute e documentate dal lavoratore), destinazione del credito welfare non ancora utilizzato, anche a fronte della cessazione del rapporto di lavoro, con possibilità (o meno) di conversione in denaro (sottoposto, però, a imposizione fiscale e contributiva) e quant’altro. Pur restando un atto unilaterale, la policy o regolamento sul welfare aziendale, esprimendo una sorta di (auto)contrattualizzazione del potere datoriale (similmente all’accordo collettivo gestionale sopra richiamato), rappresenta, di fatto, un’alternativa alla negoziazione collettiva (e al formale coinvolgimento del sindacato), condividendone, tuttavia, per espressa previsione normativa, gli stessi vantaggi fiscali (deducibilità integrale dei costi sostenuti dall’azienda) riconosciuti solo in parte (nel limite del 5 per mille) in caso di welfare volontariamente gestito dal datore senza alcuna procedimentalizzazione formalizzata, alla stregua (e con le problematiche) dell’uso aziendale.
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Riders tra autonomia e subordinazione: la soluzione, paradossale, del rebus c’è

Pubblichiamo di seguito l’editoriale del Prof. Francesco Bacchini per IPSOA – Quotidiano, con il quale torna sull’annoso tema dei riders e, in particolare, sulla possibile soluzione al dilemma se inquadrarli in ambito del lavoro autonomo o quello dipendente.

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Dall’analisi della legge di conversione del decreto sui riders emerge la percezione di una pregnante disorganicità dell’intervento del legislatore. Il rider parrebbe, infatti, essere “conteso” da due forze uguali e contrarie, date, rispettivamente, dalla sfera applicativa delle “nuove” collaborazioni etero organizzate (con un potere organizzativo del committente oggi affievolito, nonostante l’applicazione del regime della subordinazione) e dalle specifiche tutele del lavoro autonomo. Nel tentativo di rinvenire un fil rouge che porti a congiungere le diverse modifiche, si può ipotizzare una prima – possibile – chiave di lettura.

Pezo el tacón del buso recita un noto proverbio veneziano, ossia: peggio la pezza del buco, per dire che, spesso, il rimedio è peggiore del danno prodotto.
 
La voce della saggezza popolare pare ben attagliarsi alle modifiche apportate dalla legge n. 128/2019 che ha convertito il D.L. n. 101/2019, il “decreto crisi”, il quale, oltre ad aver disciplinato, sotto le mentite spoglie della rubrica del Capo V-bis del D.Lgs. n. 81/2015, apparentemente dedicata alla generale “tutela del lavoro tramite piattaforme digitali”, solo quella dei “lavoratori autonomi che svolgono attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano…”, i popolari “riders”, aveva, inopinatamente, modificato anche l’art. 2, co. 1, del medesimo decreto, riscrivendo, o tentando di farlo, il paradigma in chiave digitale (ma non solo) della collaborazione organizzata dal committente.
 
La legge di conversione, in primo luogo, rivisita sensibilmente le maglie di tipicità della collaborazione etero organizzata, fattispecie oggi declinabile nel senso di un rapporto avente ad oggetto “prestazioni prevalentemente personali, continuative, e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente”.
Due, quindi, e senz’altro macroscopici, i profili di novità che presenta la definizione appena riportata.
Anzitutto, la prestazione del collaboratore etero organizzato viene intesa quale contributo “prevalentemente”, non “esclusivamente” personale; circostanza, questa, utile a prefigurare un supporto organizzativo che, se per un verso potrà andare ben oltre lo smartphone, il tablet o il PC (ma anche la bicicletta o lo scooter), non potrà comunque integrare gli estremi di un apparato con fisionomia – anche solo per approssimazione – aziendale, prerogativa del solo imprenditore (art. 2555 c.c.).
Già questo primo dato legittima un’immediata, sostanziale analogia tra la “nuova” collaborazione etero organizzata e il paradigma dell’autonomia.
 
Una prestazione che non sia tout court “personale”, infatti, appare subito riconducibile al paradigma del lavoro autonomo (descritto dall’art. 2222 c.c. quale prevalentemente proprio e prestato in assenza vincolo di subordinazione), ed al contempo inconciliabile con l’attività lavorativa (esclusivamente) propria (e personale) svolta, ex art. 2094 c.c., dal prestatore subordinato, siccome alle dipendenze e sotto la direzione del datore di lavoro ovvero all’interno dell’altrui apparato organizzativo.
Ad avvicinare la rinnovata collaborazione etero organizzata al lavoro autonomo contribuisce, poi, l’altra modifica che la L. 128 apporta all’art. 2 del Decreto 81/2015: l’esclusione, cioè, di tempi e luogo di lavoro dal campo di operatività definitoria del potere organizzativo per opera del committente.
Ciò che ne deriva è, sicuramente, la percezione di una pregnante disorganicità dell’intervento di conversione, per le ragioni che veniamo ad esporre.
 
E’ evidente che sottrarre il “quando” (compreso il “per quanto tempo”) e il “dove” alla sfera dell’intervento etero organizzativo fa ancor più stridere l’incipit dello stesso art. 2 (che enuncia, quasi con fare di slogan, l’applicazione delle tutele del lavoro dipendente); e ciò, a fortiori, per l’inclusione, nell’alveo delle nuove collaborazioni etero organizzate (ma non etero dirette) e del conseguente regime della subordinazione, dei platform workers generalmente intesi, riders compresi, digitali o meno.
Per quanto riguarda questi ultimi, il loro ben noto modus operandi (scelta sia della fascia oraria di consegna che del tragitto da percorrere) sembra richiamare proprio la fisionomia della collaborazione etero diretta per come ridisegnata dalla legge di conversione (stante l’esclusione, oggi, della determinazione di tempo e luogo della prestazione da parte del committente): infatti, secondo la prassi corrente, il rider disponibile al trasporto si limita ad attivare la piattaforma ed attendere la richiesta di collaborazione (da accettare o meno) da parte del committente, per poi disconnettersi qualora non intenda compiere altre consegne.
 
Sennonché, in disparte la condivisibilità e l’utilità pratica di tale operazione qualificatoria (da sondarsi anche in relazione al dibattito che deriverà dalla norma in commento), certo è che, accanto al rider tutelato (almeno nominativamente) nelle forme della subordinazione secondo il nuovo art. 2 comma 1 D. Lgs. 81/2015, il successivo art. 47 bis, comma 1, in apertura del nuovo Capo V bis, traccia i contorni (e i livelli minimi di tutela in favore) di un “omologo” fattorino a domicilio, questa volta espressamente qualificato come “lavoratore autonomo”, che consegna beni per conto altrui, in città e a bordo di bicicletta o motorino (entro 50 cm cubici e 50 km/h), “attraverso piattaforme anche digitali”.
Piattaforme da intendersi, secondo la definizione di cui al co. 2 (si noti la persistente lacuna definitoria della “piattaforma non digitale”, esemplificata, nella relazione tecnica al Decreto, con il tralatizio riferimento ai sistemi di smistamento delle chiamate telefoniche): “i programmi e le procedure informatiche utilizzati dal committente che sono strumentali alle attività di consegna dei beni, fissandone il compenso e determinando le modalità di esecuzione della prestazione”.
 
Al netto delle valutazioni già espresse circa l’effettiva necessità e urgenza di una decretazione a tutela dei riders (leggi anche: Riders e platform workers. La tutela incompiuta del lavoro digitale), passiamone in rassegna i principali strumenti.
 
Si muove dalla forma contrattuale (scritta ad probationem, e corredata da ogni informazione utile sui diritti e la sicurezza del prestatore, pena sanzione risarcitoria da commisurarsi in via equitativa), passando per il compenso (per la cui individuazione si rinvia alla contrattazione collettiva di riferimento – quale? – o, in mancanza, quella vigente in settori “affini o equivalenti”), ai cui fini è prevista ex lege un’indennità integrativa almeno pari al 10% in caso di prestazioni notturne, festive o rese in condizioni metereologiche avverse; per giungere alle previsioni in tema di assicurazione obbligatoria contro infortuni e malattie, nonché di obblighi gravanti sul committente a tutela della sicurezza e salute dei prestatori, surrettiziamente e inopportunamente caricato di tutti quelli di cui al d.lgs. n. 81/2008 e quindi trattato, pur non essendolo vista la natura autonoma della prestazione lavorativa del rider, alla stregua del datore di lavoro.
 
Al di là delle osservazioni in merito alla effettività di tali tutele, a rendere ancor meno decifrabile la ratio sottesa all’intervento di conversione è l’espressa volontà legislativa di applicare l’intero Capo V-bis “fatto salvo quanto previsto dall’articolo 2, comma 1”.
Orbene, ciò impone di interpretare in termini sintetici le novità introdotte dalla Legge 128; operazione complessa sia perché destinata a muoversi su uno sfondo di per sé notoriamente magmatico (la “zona grigia” che separa il lavoro dipendente da quello coordinato senza subordinazione), sia perché osteggiata da una normativa all’insegna del paradosso.
Nel tentativo di rinvenire un fil rouge che congiunga le modifiche al D.Lgs. n. 81/2015, i primi commenti sul tema ipotizzano una possibile chiave di lettura.
 
In sintesi, si osserva che, muovendo da un’interpretazione letterale dell’art. 2, comma 1 (che, come abbiamo visto, prescinde ormai testualmente dalla fissazione del tempo e del luogo della prestazione quali espressioni del potere etero organizzativo) insieme alla clausola “di salvaguardia” posta in apertura del Capo V-bis, si giungerebbe ad attivare le tutele ivi dettate soltanto in ipotesi di scuola: nei soli casi, che esulano dalla prassi corrente descritta sopra, in cui la piattaforma giungesse a imporre sia gli slots orari che il tempo massimo -e magari il percorso- di consegna.
Di conseguenza, per non vanificare le finalità (almeno asseritamente) garantiste del D.L. n. 101, non rimarrebbe che far rientrare la dimensione spazio-temporale all’interno delle “modalità d’esecuzione” etero organizzate, con conseguente applicazione del regime della subordinazione; così delineato l’ambito applicativo dell’art. 2, comma 1, le tutele sancite dal Capo V-bis potrebbero trovare applicazione nelle ipotesi residuali (maggioritarie) in cui il committente non detti né il “quando” né il “dove” della prestazione.
La ricostruzione così formulata, nel prospettare un possibile escamotage dal rebus normativo, non esime, comunque, da alcune osservazioni conclusive.
 
Come è agevole intuire, la conversione del D.L. n. 101 non ha in alcun modo risolto perplessità e contraddizioni di una decretazione che, sul versante lavoristico, sembrava difficilmente comprensibile già nelle sue premesse.  Piuttosto, ciò che emerge dalla legge in commento è una caotica sovrapposizione di categorie, discipline e tutele.
Il rider (soggetto debole da tutelarsi con priorità ritenuta indifferibile!) parrebbe, infatti, essere “conteso” da due forze uguali e contrarie, date, rispettivamente, dalla sfera applicativa delle “nuove” co.co.org (connotate da un potere organizzativo del committente oggi assai affievolito, nonostante l’applicazione del regime della subordinazione) e delle tutele di cui al Capo V-bis, riservate espressamente al ciclofattorino autonomo.
Non è dato comprendere in quale direzione, ma l’impressione sembra essere quella di una clonazione (auspicabilmente involontaria) decisamente malriuscita.
 
L’articolo disponibile anche qui in versione pdf.
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Donne al top nelle law firm: parità difficile. Giulietta Bergamaschi su Il Sole 24 Ore

Giulietta Bergamaschi, managing partner di Lexellent, tra le professioniste apicali sentite da Flavia Landolfi nel focus pubblicato ieri da Il Sole 24 Ore sulla parità nelle law firm italiane: tra “stereotipi duri a morire e con un modello di lavoro “in presenza” “.

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[omissis]
“La percentuale delle donne ai vertici degli studi è molto simile a quella delle donne che rivestono la carica di AD nel settore privato: è una conferma che la scarsa presenza femminile nelle posizioni di vertice è trasversale in buona parte delle professioni e dei settori economici.Penso che il tema della parità di genere sia più che altro culturale.”
Clicca qui per leggere l’articolo completo in formato PDF.

Le parole della violenza nei luoghi di lavoro. Giulietta Bergamaschi speaker all’incontro del Comune di Milano

Domani, 11 Dicembre 2019, la nostra managing partner Giulietta Bergamaschi sarà tra gli speaker all’incontro dal titolo: “Le parole della violenza nei luoghi di lavoro. Fenomeni sentinella; Come reagire; Ambienti di lavoro inclusivi”, organizzato da Comune di Milano e CUG (Comitato Unico di Garanzia Comune di Milano).
L’intervento, in particolare, avrà luogo durante la Tavola Rotonda “Cambiare si può: esperienze a confronto”.
L’incontro si terrà presso la Sala Conferenze di Palazzo Reale, Piazza Duomo, a partire dalle ore 9:00.
Maggiori dettagli e programma sono disponibili qui.
 
 

Evento in diretta streaming: quartetto d’archi dei Pomeriggi Musicali

Lexellent è lieto di invitarvi al suo Concerto di Natale in live streaming, durante il quale si esibirà un quartetto d’archi dell’orchestra i Pomeriggi Musicali.
L’evento si terrà lunedì 14 dicembre dalle ore 18.
In prossimità dell’evento, in questa pagina troverete il link per partecipare.


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Salario minimo legale. È proprio necessario?

Pubblichiamo di seguito l’editoriale del Prof. Francesco Bacchini per IPSOA – Quotidiano, sul tema della retribuzione minima legale, ultimamente tornata in auge.

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Nell’attuale ordinamento normativo la disciplina dei criteri di calcolo della retribuzione è affidata alla contrattazione collettiva, che per lo più ha garantito un livello minimo di salario soddisfacente e dignitoso. Ecco perché in Italia è stata scarsamente avvertita l’esigenza che il salario minimo fosse, come accade in molti paesi europei, garantito per legge. Ma il Governo ha riportato in auge la questione, con proposte dai contorni vaghi e scarsamente condivisi, soprattutto dalle organizzazioni sindacali e datoriali. Allora, in una economia in costante trasformazione tecnologica e organizzativa, in un mercato del lavoro sempre più indirizzato ad una maggiore flessibilità oraria e orientato a remunerare la professionalità dei lavoratori, che senso ha parlare di salario minimo legale? Sempreché, nel frattempo, non ci venga imposto dall’Europa…

 
“In Europa le famiglie che lavorano duramente hanno ancora troppa difficoltà ad arrivare alla fine del mese. Voglio fare in modo che il lavoro garantisca un reddito sufficiente. In un’economia sociale di mercato, ogni lavoratore a tempo pieno dovrebbe percepire un salario minimo sufficiente a condurre una vita dignitosa. Elaboreremo un quadro in tal senso, naturalmente nel rispetto dei nostri diversi mercati del lavoro. Penso tuttavia che l’opzione migliore consista nella contrattazione collettiva tra associazioni dei datori di lavoro e sindacati dei lavoratori, perché adegua il salario minimo allo specifico settore o alla specifica regione. So che esistono diversi modelli, naturalmente, ma dobbiamo elaborare un quadro generale”. Con queste riflessioni, pronunciate nel discorso di apertura della seduta plenaria del Parlamento Europeo, Ursula Von Der Leyen, la nuova Presidente della Commissione europea, ripropone e legittima a livello eurounitario il problema sociale della determinazione eteronoma vincolante, di fonte legislativa o amministrativa, di un salario equo finalizzato ad assicurare una “vita dignitosa” a tutti i lavoratori, in una materia, quella retributiva, che, ad esclusione della parità salariale di genere, finora è stata totalmente riservata alla competenza dei singoli Stati membri (art. 153, par. 5, TFUE, nel quale sancisce che “le disposizioni del seguente articolo non si applicano alla retribuzione[…]”).
 
Benché nel panorama retributivo europeo la maggioranza degli Stati membri (22 su 28) possiedano già una forma di salario minimo legale (con esclusione di Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Svezia e Italia nei quali i minimi stipendiali sono determinati dalla contrattazione collettiva), tale istituto non ha una natura universalmente riconosciuta, non esistendo un unico modello di applicazione e di calcolo, bensì coesistendo vari modelli che derivano dalle esigenze economico-sociali, ma anche dalla cultura giuridico-lavoristica di ogni singolo Stato e che si fondano sul potere d’acquisto, sull’indice dei prezzi al consumo, sull’inflazione, sulla produttività nazionale e sulla situazione economica del paese, essendone, fra l’altro, sovente, affidata la determinazione all’elaborazione di commissioni indipendenti.
 
Il salario minimo orario lordo (al quale deve applicarsi la detrazione dell’imposta sul reddito e i contributi previdenziali) più elevato in Europa si registra in Lussemburgo ed è pari a 11.97€, mentre quello più basso è previsto in Bulgaria e ammonta a 1.62€.
Vero è che l’entità del salario minimo orario è quanto mai variabile da Paese a Paese: quelli in via di sviluppo (i paesi dell’Europa dell’est o dell’ex Jugoslavia) così come alcuni paesi mediterranei che escono da pesanti crisi economiche hanno salari minimi orari anche significativamente inferiori a 5€, mentre i paesi con economie industriali consolidate e più sviluppate si posizionano sopra i 9 €. Il salario minimo in Francia è fissato in 10,03€ (è in vigore dal 1950, lo SMIC, Salaire Minimum Inteprofessionnel de Croissance, il quale viene rivalutato il primo gennaio di ogni anno), in Germania è pari a 9.19€ (previsto dalla Mindestlohngesetz – MiLoG), in Belgio è di 9.41€ (vige un “sistema duale” in cui la contrattazione collettiva si innesta sul vincolo salariale definito per legge), in Olanda è di 9,33€, in Spagna è fissato a 6.09€ (il valore legale può essere modificato dalla contrattazione per settore economico di appartenenza), nel Regno Unito è pari a 9,54€, in Inghilterra è invece pari a 8.21€ (applicandosi vincoli retributivi differenti in base all’età del lavoratore e alla tipologia di contratti), in Irlanda ha un valore di 9,80€.
 
Le differenze nella determinazione del salario minimo all’interno dei paesi dell’Unione europea sono, quindi, di tutta evidenza, sia a livello economico-sociale complessivo (costo della vita, produttività, competitività e sviluppo), che a livello giuslavoristico tanto in relazione alle componenti della retribuzione quanto all’orario di lavoro e, partendo da tale situazione l’individuazione di un valore monetario unico, efficace, efficiente e congruo in tutta Europa, appare pressoché utopistica.
Infatti, posto che la media salariale mensile degli Stati europei è pari a circa 924€, se il salario minimo europeo fosse calcolato in base a tale media, non troverebbe mai possibilità di approvazione, in quanto determinerebbe per molti Paesi un incremento insostenibile del costo del lavoro e così la crescita del livello di disoccupazione, l’aumento del lavoro irregolare e la perdita di competitività.
 
Diversamente, se la soglia venisse fissata a un livello decisamente più basso, gli Stati economicamente meno sviluppati manterrebbero un certo spazio di manovra per portarsi al livello stabilito, ma con il rischio di una contrattazione al ribasso per i lavoratori dei Paesi più ricchi rispetto ai Paesi che ricchi lo sono meno.
Ragionando in un’altra ottica, si potrebbe allora immaginare il salario minimo non come un valore preordinato, ma come un valore da determinarsi per il tramite di un sistema che individui, per tutti, alcuni parametri fissi e una metodologia di calcolo in ragione del livello economico-sociale e del costo del lavoro di ciascun Paese.
 
Attualmente la maggior parte delle proposte di individuazione legale del livello salariale minimo europeo non prevede un valore fisso, bensì un valore corrispondente al 60% del valore mediano dei salari di ogni singolo Paese per contrastare la crescita del dumping salariale, con l’obiettivo, incrementando le soglie di retribuzione per tutti i lavoratori europei, di stimolare uniformità e convergenza tra le differenti economie, riducendo diseguaglianze, disparità, ma anche flussi migratori che preoccupano non poco molti degli Stati, più o meno sviluppati, dell’Unione.
In questo complesso scenario si devono inserire anche le dinamiche retributive italiane.
 
Nell’attuale ordinamento normativo la disciplina degli aspetti quantitativi e dei sistemi e criteri di calcolo della retribuzione è affidata alla contrattazione collettiva che, integrata dall’autonomia individuale, comunque vincolata ai principi costituzionali di proporzionalità e sufficienza, e operante in chiave migliorativa, ne costituisce la fonte largamente preminente, assolvendo al compito di garantire, soprattutto per i lavoratori professionalmente meno qualificati, un livello minimo di salario soddisfacente e dignitoso.
Del resto, l’interpretazione giurisprudenziale dell’art. 36 Cost. ha finito per riconoscere ai trattamenti economici stabiliti dai contratti collettivi (c.d. minimi tabellari), pur carenti di vincolatività erga omnes, la natura di retribuzione “costituzionale”, tanto che in Italia è stata scarsamente avvertita l’esigenza che il salario minimo fosse, come accade in molti altri ordinamenti giuridici europei, garantito per legge.
 
In tale contesto, il ruolo di controllo eteronomo delle dinamiche retributive svolto dalla legislazione ordinaria è stato moderato, circoscritto e, sovente, estemporaneo (vedi il credito IRPEF del “bonus Renzi”) e il tentativo del Jobs Act (art. 1, co. 7, lett. g) legge n. 183/2014), più strumentale e strategico che concreto, di introdurre un “compenso orario minimo”, scaduta la delega, si è concluso con un nulla di fatto.
Ciò posto, da un lato, la proliferazione di contratti collettivi stipulati da parti sociali prive di reale rappresentatività sindacale (c.d. contratti pirata) a scapito di quelli firmati dai sindacati storicamente rappresentativi, con annesso dumping rispetto ai trattamenti salariali minimi previsti dal contratto leader, nonché, dall’altro lato, l’ingresso di nuove forze politiche fautrici del centralismo normativo statale in materia di lavoro, hanno riportato in auge nell’agenda di Governo la questione della determinazione per legge del salario minimo.
 
In tale quadro, si inserisce il disegno di legge n. 658 del 12 luglio 2018, presentato dal Movimento Cinque Stelle, in forza del quale tale istituto, de iure condendo, risulterebbe finalizzato a determinare, in attuazione del medesimo art. 36 Cost., una “retribuzione uniforme per tutti i rapporti di lavoro subordinato fissando per legge sul tema del trattamento economico che integri la retribuzione dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali più rappresentative” circoscrivendo la “retribuzione complessiva proporzionata e sufficiente alla qualità e quantità del lavoro prestato non inferiore a quello definito dal contratto collettivo nazionale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro.”, comunque “non inferiore ai 9 euro all’ora al lordo degli oneri contributivi e previdenziali”.
 
Vero è, tuttavia, che i contorni dell’istituto risultano, comunque, piuttosto vaghi e scarsamente condivisi, soprattutto dalle organizzazioni sindacali e datoriali.
Del resto, il livello retributivo italiano non è espresso e declinato solo dai minimi contrattuali per livelli di inquadramento, ma è caratterizzato da numerose voci variabili che contribuiscono a rendere assai disomogeneo il panorama salariale e che devono necessariamente essere considerate nell’ottica dell’introduzione del salario minimo legale, dovendosi esplicitare cosa ricomprendere nel valore fisso determinato per legge (si pensi alle mensilità aggiuntive, ossia tredicesima e quattordicesima, al trattamento di fine rapporto, alle ferie, ai permessi retribuiti, a tutta la retribuzione variabile di tipo premiale, ma anche alla contribuzione previdenziale e alla tassazione la quale, dipendendo dal reddito complessivo, è soggettivamente variabile).
 
Occorre, inoltre, considerare che tra i fattori che incidono sulla determinazione del salario minimo risulta fondamentale anche l’orario convenzionale lavorativo annuale, determinato dal rapporto tra orario settimanale e numero di settimane lavorative all’anno, con significative differenze retributive nei vari settori di contrattazione.
A tale riguardo, secondo i calcoli elaborati dall’INPS prendendo in considerazione gli stipendi senza i ratei di retribuzione aggiuntive, emerge che il 22% dei lavoratori italiani (il 24% nel settore agricolo) percepisce una paga oraria inferiore ai 9€ e che tale percentuale aumenta notevolmente nel caso in cui si consideri quale parametro di riferimento la retribuzione annuale.
Ebbene, nella difficile ricerca di un giusto valore salariale minimo è doveroso ricordare che la determinazione di una tariffa troppo alta potrebbe scoraggiare la domanda di lavoro e/o rappresentare un incentivo al lavoro irregolare, mentre una troppo bassa finirebbe per non garantire le condizioni di vita dignitose alle quali l’istituto è finalizzato.
 
Secondo l’OCSE, fissando la soglia del salario minimo legale a 9€ lordi l’ora, il livello retributivo italiano diverrebbe uno dei più elevati fra i Paesi membri, con potenziali gravi ripercussioni e costi assai elevati: i lavoratori coinvolti nell’incremento salariale risulterebbero, infatti, pari a 2,9 milioni, con un aumento retributivo medio annuo di 1.073€, con un incremento complessivo del valore di 3,2 miliardi e un costo totale per le aziende stimato attorno ai 6,7 miliardi.
Tale aumento del costo del lavoro avrebbe un impatto negativo principalmente sulle piccole e medie imprese, riducendone drasticamente la competitività soprattutto nei mercati internazionali; gli effetti negativi potrebbero essere, invece, più contenuti per le imprese di grandi dimensioni, tendenzialmente più solide e con maggiori disponibilità economiche.
 
Pur stabilendo un valore più congruo, individuato da molti studi intorno ai 7€ lordi l’ora, l’introduzione del salario minimo legale solleva, in ogni caso, molti dubbi sulla sua reale utilità.
Nel contesto di una economia in costante trasformazione tecnologica e organizzativa, in un mercato del lavoro sempre meno ancorato a schemi tradizionali e standardizzati e sempre più indirizzato, pur nella forma comune della subordinazione, ad una maggiore flessibilità oraria e agilità delle modalità con le quali si rende la prestazione lavorativa, oltre che sempre più orientato a remunerare la professionalità dei lavoratori piuttosto che le qualifiche definite dai contratti collettivi attraverso premi di risultato anche convertiti in beni e servizi di utilità sociale ricompresi nel welfare aziendale, la misurazione del trattamento economico complessivo (il TEC dell’accordo interconfederale 9 marzo 2018, “Patto della fabbrica”) è sicuramente molto complicata.
 
In un siffatto scenario il salario minimo legale rischia, pertanto, di rappresentare una misura anacronistica, finendo per essere una risposta ai problemi del mercato del lavoro di ieri piuttosto che a quelli del mercato del lavoro di oggi e di domani, non essendo in grado di incidere autonomamente sulla riduzione della povertà che necessita di ulteriori variabili quali il livello di occupazione, la produttività del lavoro, ma anche le politiche di sostegno al reddito delle famiglie. Del resto, nei paesi che hanno già introdotto il salario minimo legale la questione dei lavoratori sottopagati e la diffusione di pratiche illegali sono, purtroppo, ancora presenti e ciò nonostante l’incremento dei controlli tecnologici sui dati stipendiali fino ad arrivare all’applicazione di pratiche come il name and shaming con cui si denunciano pubblicamente le aziende che non rispettano i minimi salariali legali.
 
Forse, agendo, anche per legge, sull’effettiva maggiore rappresentatività delle organizzazioni sindacali, sulla riduzione o delimitazione dei settori di stipulazione, nonché, indirettamente (nella perdurante disapplicazione dell’art. 39 Cost.), sulla più ampia vincolatività dei contratti leader e degli stipendi base da loro negoziati, il ricorso al salario minimo legale risulterebbe del tutto inutile potendosi immaginare, tutt’al più, di istituirlo solo per i settori produttivi (o per i lavoratori) privi di contrattazione collettiva, come, peraltro (non senza l’insorgenza di interrogativi sugli effetti della dualità del sistema che ne discenderebbe), già prevedeva la delega scaduta di cui al Jobs Act.
 
Sempreché, nel frattempo, il salario minimo legale non ci venga imposto dall’Unione europea, quale (ennesima) espressione dell’integrazione istituzionale, stimolo e simbolo di un convergente modello economico-sociale europeo.
L’articolo disponibile anche qui.

I controlli datoriali tramite agenzie investigative

Di seguito l’articolo dell’avv. Marco Chiesara sul tema della vigilanza datoriale sui prestatori di lavoro, tramite agenzie investigative esterne all’azienda e dunque non rientranti nella previsione degli artt. 2, 3 e 4 dello Statuto dei Lavoratri, pubblicato da AIDP sulla Newsletter Lavoro n. 69 di novembre 2019.

***

Ai fini della tutela del patrimonio aziendale, l’imprenditore, ai sensi degli artt. 2, 3 e 4 St. Lav., può vigilare sui prestatori di lavoro mediante i seguenti mezzi: guardie giurate, personale di vigilanza, impianti audiovisivi e “altri strumenti di controllo a distanza”. Le norme appena richiamate non prevedono espressamente la possibilità di ricorrere ad agenzie investigative esterne all’azienda.
La liceità di tale ultimo mezzo di indagine è stata, tuttavia, affermata in via interpretativa: la giurisprudenza infatti ha dato vita ad un orientamento ormai consolidato (cfr., ex multis, Cass. Civ. 21621/2018, ord. Cass. Civ. 15094/2018, Cass. Civ. 8373/2018 Cass. Civ. 17723/2017, Cass. Civ. 20440/2015, Cass. Civ. 4984/2014), affermando che l’imprenditore possa delegare all’investigatore la sola vigilanza su specifici illeciti – accertati o anche solo sospettati – commessi dai dipendenti (quali, a titolo esemplificativo, prestazione di attività lavorativa a favore di terzi, divulgazione di informazioni riservate, abuso di permessi ex L. 104/1992) e non anche il controllo in merito all’esatta esecuzione della prestazione lavorativa.
Ciò premesso, per valutare la liceità o meno del ricorso ad agenzie investigative è indispensabile individuare il “discrimen” tra inadempimento (la cui verifica è rimessa unicamente al datore) e fatto illecito (sondabile tramite investigatore). A questo proposito la giurisprudenza non indica criteri risolutivi validi in generale: pertanto, la distinzione in parola, difficilmente apprezzabile, specie nei casi di mancata prestazione lavorativa, andrà effettuata caso per caso, con tutte le incertezze che ne derivano sul piano applicativo (sul punto si richiamano le Sentenze del Tribunale di Padova, Sez. Lav. dell’8/11/2018 e del 4/10/2019 e la Cass. 8373/2018). Ammessa entro tali limiti la legittimità dei controlli investigativi, è necessario un cenno ai rapporti tra tale strumento di indagine e la tutela della privacy del lavoratore.
Anzitutto, occorre comprendere quali regole disciplinano il conferimento dell’incarico all’investigatore e quali sono gli obblighi che lo stesso deve rispettare al fine di non ledere la privacy del controllato.
In argomento sono ancora valide le Regole deontologiche in tema di trattamento di dati personali da parte di investigatori privati (allegate al D. Lgs. 196/2003), ritenute compatibili con il Reg. UE 679/2016 (c.d. “GDPR”) mediante provvedimento n. 512 adottato dal Garante privacy in data 18.12.18 (pubblicato in G.U. n. 12 del 15.1.19). Il trattamento dati per opera dell’investigatore incaricato deve condursi, anzitutto, con le modalità che risultino più adeguate, caso per caso, a favorire in concreto l’effettivo rispetto dei diritti, delle libertà e della dignità degli interessati, applicando i princìpi di finalità, proporzionalità e minimizzazione dei dati sulla base di un’attenta valutazione sostanziale e non formalistica delle garanzie previste, nonché di un’analisi della quantità e qualità delle informazioni che utilizza e dei possibili rischi (ar t. 8).
Da non trascurare, poi, sono i requisiti dettati dalle medesime regole circa il contenuto dell’atto di incarico all’investigatore, che deve menzionare, in maniera specifica,il diritto che si intende esercitare in sede giudiziaria, (…) nonché i principali elementi di fatto che giustificano l’investigazione e il termine ragionevole entro cui questa deve essere conclusa.
Una volta, poi, che l’investigatore abbia acquisito, nel rispetto delle prescrizioni citate, dati riguardanti il lavoratore, si pone la questione dei limiti del trattamento delle suddette informazioni da parte del datore di lavoro; trattamento che, con riguardo alle “particolari categorie di dati” trova disciplina nell’Autorizzazione generale del Garante Privacy n. 1/2016, anch’essa ritenuta dallo stesso Garante (v. provv. n. 497 del 13 dicembre 2018) compatibile sia con il GDPR che con il D. Lgs. 101/2018.
Quanto, infine, alla valenza probatoria del c.d. “report investigativo” quest’ultimo è generalmente ricondotto dalla giurisprudenza (v., tra le altre, ord. Trib. Milano, 8 aprile 2013 e sent. Trib. Milano, Sez. IX, del 1.7.15) tra gli “scritti del terzo con funzione testimoniale”, a loro volta compresi nella più ampia categoria della “prova atipica”. Pertanto, vista l’ammissibilità della testimonianza scritta solo mediante modi e forme tipizzate dall’art. 257 bis c.p.c., affinché il fascicolo investigativo rivesta valore probatorio dinanzi ad una contestazione avversaria, deve essere acquisito al procedimento mediante escussione testimoniale dell’investigatore, pena violazione le norme del “giusto processo”.
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Disabilità e lavoro. Storie di aziende che investono sull’inclusione

Lexellent vi invita a partecipare al workshop organizzato da ABILITIAMO LA DISABILITA’ dal titolo “DISABILITÀ E LAVORO. STORIE DI AZIENDE CHE INVESTONO SULL’INCLUSIONE”, per un confronto sui temi dell’inclusione e della disabilità.

L’evento si svolgerà il giorno 3 dicembre 2019 dalle ore 14:00 alle ore 19:00 presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore – Via Nirone 15 MILANO.

Agenda:
ore 14.00 Accredito – Registrazione
ore 14.30 Saluti istituzionali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
ore 14.45 Presentazione del tavolo «Abilitiamo la disabilità», Andrea Orlandini – AIDP
ore 15.15 Tavola rotonda – Esperienze a confronto:
                 Accenture, Alstom, IBM, Intesa Sanpaolo, Nestlé, UniCredit,
                 modera Giulietta Bergamaschi – Lexellent
ore 16.45 Question time
ore 17.15 Intervento: «Lavoro e malattie croniche oggi», Prof.ssa Matilde Leonardi – Fondazione IRCCS Istituto Neurologico C. Besta
ore 17.45 Conclusioni a cura di Camillo Caputo – ASST Fatebenefratelli Sacco
ore 18.00 Aperitivo di Networking a cura del team di #Rob de Matt
In allegato la locandina completa
Per iscrizioni cliccare qui

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WeWorld Festival, l’intervista a Marco Chiesara sul Corriere della Sera

Il Corriere della Sera dedica un approfondimento al WeWorld Festival, l’appuntamento che il 23 e 24 Novembre, presso il Teatro Litta di Milano, vedrà un sussegursi di dibattiti, film, reading, performance teatrali e mostre con la partecipazione di prestigiosi nomi del mondo culturale: tutti uniti per combattere gli stereotipi legati alla figura femminile, alla radice di ogni violenza.

Pubblichiamo di seguito un estratto dell’intervista al Presidente di WeWorld Onlus, nonchè Partner dello studio Lexellent, Marco Chiesara.

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Da Saviano a Cantarella. I primi 10 anni di lotta.
L’edizione celebrativa schiera anche lo scrittore sotto scorta. Chiesara: «Quando abbiamo cominciato il tema era di nicchia»
Si tiene a Milano, al Teatro Litta, il 23 e 24 novembre. Il WeWorld Festival, giunto alla decima edizione, è l’evento con cui WeWorld Onlus, associazione da oltre vent’anni impegnata nella difesa dei diritti di donne e bambini in Italia e nel Mondo, si presenta ogni autunno al grande pubblico.
In realtà, come sottolinea Marco Chiesara, presidente della Onlus, è molto più di un festival.
«Queste manifestazioni regalano grande visibilità, noi la sfruttiamo trasformandola in momento di advocacy» dice.
In un’Italia dove il femminicidio è diventato una triste quotidianità e la violenza improvvisa, feroce, viene ancora identificata come «raptus», si avverte il bisogno di un intervento di contrasto concreto.
«Il problema è culturale – afferma Chiesara -, il problema sono gli stereotipi maschilisti, ancora presenti, e le differenze di genere che alimentano quel pensiero che apre la porta alla violenza.
[…]
Per leggere l’intervista completa, e gli altri articoli di approfondimento, cliccare qui.

Lexellent per WeWorld Festival – 10° Edizione

Milano, 23 – 24 novembre 2019.
WeWorld Festival giunge quest’anno alla sua decima edizione e, in occasione della Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne, organizza due giorni di Film, Teatro e Incontri presso il Teatro Litta, in Corso Magenta 24.
Lexellent, da sempre in prima linea sulle tematiche legate al genere e contro ogni forma di violenza, è onorato di poter presenziare alla kermesse e sostenere l’opera di WeWolrd Onlus e del suo Presidente, e nostro partner, Marco Chiesara.
Con l’occasione si ricorda che l’ingresso è gratuito, su prenotazione.
 

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Alcuni “perchè” di una politica aziendale in tema di diversità

Pubblichiamo un articolo in tema di politiche di diversity a firma di Giulietta Bergamaschi per il MAG di Legalcommunity.
Con il decreto legislativo n.254/2016 è stata recepita la direttiva 2014/95 UE (in tema di comunicazione di informazioni di carattere non finanziario e di informazioni sulla diversità da parte di talune imprese e di taluni gruppi di grandi dimensioni) ed è stato modificato l’articolo 123 – bis Tuf, sul contenuto della “Relazione sul governo societario e gli assetti proprietari” che le società quotate in mercati regolamentati sono tenute a redigere.
La Relazione deve contenere “una descrizione delle politiche in materia di diversità applicate in relazione alla composizione degli organi di amministrazione, gestione e controllo relativamente ad aspetti quali l’età, la composizione di genere e il percorso formativo e professionale, nonché una descrizione degli obiettivi, delle modalità di attuazione e dei risultati di tali politiche”.
L’adozione di politiche in tema di diversity non costituisce un obbligo per le emittenti quotate: la società che non applichi alcuna politica sul tema è tenuta a motivare in maniera chiara e articolata le ragioni della scelta, secondo il principio comply or explain. La modifica del Tuf origina dal 18° considerando della direttiva 2014/95 UE: la diversità per genere, età, provenienza geografica, background professionale tra amministratori e sindaci produce una dialettica che rende la volontà dell’ente aperta a idee innovative; condizione ritenuta imprescindibile perché l’attività sociale sia frutto di un pensiero di gruppo e non di logiche impositive a discapito delle minoranze. Con tale modifica il sistema italiano ha compiuto un passo in avanti per l’affermazione dei valori di board diversity nei sistemi di governance societaria, sulla scia degli effetti positivi prodotti dalla legge n. 120/2011 in tema di equilibrio di genere nei consigli di amministrazione e nei collegi sindacali.
Il percorso di sensibilizzazione delle imprese ai valori di diversità e inclusione, ormai avviato, è orientato verso obiettivi ambiziosi, come confermato da recenti iniziative messe in atto per proseguirlo.
Nel luglio 2018 è stato modificato il codice di autodisciplina di Borsa Italiana: un “modello di riferimento” volto a promuovere il buon governo delle società italiane quotate, in linea con le best practices internazionali, che si è tradotto nell’inserimento dei principi 2. P. 4 e 8. P. 2, a tenore dei quali l’emittente applica criteri di diversità, anche di genere, nella composizione del consiglio di amministrazione e del collegio sindacale.
Il 22/11/2018 è stato siglato il protocollo d’intesa tra presidenza del Consiglio dei ministri, Consob e Banca d’Italia, che ha istituito l’osservatorio interistituzionale sulla partecipazione femminile negli organi di amministrazione e controllo delle società di capitale italiane per la raccolta dei dati e la promozione di attività volte a promuovere la presenza femminile in tali contesti.
Aidaf (Associazione Italiana delle aziende familiari) in collaborazione con l’Università Bocconi, ha formulato un codice di autodisciplina per il governo delle società non quotate a controllo familiare, in vigore dal gennaio 2018, che estende a tali società quei principi di buon andamento societario per la diffusione di un sistema di governance più evoluto e ben funzionante, e promuove i valori di diversità dei componenti sia del consiglio di amministrazione sia del collegio sindacale.
Quanto alle proposte di legge all’esame del Parlamento si segnalano la n. 1418 (presentata il 29/12/2018) sulla proroga della legge n. 120/2011 per 3 ulteriori mandati e la n. 615 (presentata il 11/05/2018).
Quest’ultima andrebbe a modificare l’articolo 46 del Codice delle pari opportunità tra uomo e donna (disciplina del rapporto sulla situazione del personale) che ad oggi prevede l’obbligo di formulare detto rapporto con cadenza biennale per le sole aziende che impiegano oltre 100 dipendenti.
La modifica proposta amplierebbe il novero delle aziende chiamate a redigere il rapporto inserendo la facoltà, per le aziende con meno di 100 dipendenti, di elaborare lo stesso documento. Inoltre, rimette al ministero del lavoro la definizione dei “parametri minimi di rispetto delle pari opportunità, con particolare riferimento alla retribuzione corrisposta [in un’ottica di eliminazione/contenimento del gender pay gap] e alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro” alle aziende rispettose dei parametri verrà rilasciata la “certificazione di pari opportunità di lavoro”.
In definitiva, la diversità e l’inclusione, temi prima al centro delle sole politiche sociali, sono sempre più percepiti come cardini su cui fondare le moderne organizzazioni produttive, intese a largo spettro, quindi anche le società non quotate, di modeste dimensioni o riconducibili ad un modello di controllo familiare. Un’impresa più inclusiva che informa il mercato delle politiche attuate all’interno può indurre gli altri operatori ad allinearsi a tali buone pratiche, nella direzione di un circuito economico complessivamente più virtuoso e trasparente.
In allegato l’articolo in formato PDF

Whistleblowers: l’Europa rafforza le tutele. Nuovi compiti anche per le aziende

Pubblichiamo di seguito l’editoriale del Prof. Francesco Bacchini per IPSOA – Quotidiano, una comparazione sistematica fra legge nazionale e direttiva europea in materia di whistleblowers.

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Rispetto all’impianto normativo delineato dal legislatore italiano, la direttiva europea sui whistleblowers amplia il raggio di operatività delle tutele per chi denuncia violazioni sul luogo di lavoro. Un primo mutamento di prospettiva rispetto al sistema italiano, che dovrà essere profondamente modificato, entro il 2021, per recepire i principi eurounitari. Anche per le sanzioni ci dovranno essere dei cambiamenti: sarà necessario prevedere specifiche norme nei confronti delle persone fisiche e giuridiche che ostacolino le segnalazioni o che pongano in essere ritorsioni, vessazioni o che violino il diritto alla riservatezza dell’identità degli informatori; ma anche gli stessi whistleblowers, quando si accerti l’effettuazione di segnalazioni scientemente false, potranno essere sanzionati. Quindi, si dovrà andare ben oltre l’attuale dimensione nazionale delle tutele esclusivamente connessa alla adozione del modello di organizzazione e gestione del decreto 231 …

Nel nostro ordinamento, la tutela dei whistleblowers (letteralmente dei “fischiatori”, dalla frase “blow the whistle”, “soffiare il fischietto”), ossia degli “informatori”, delle persone che, all’interno del proprio ambito lavorativo, segnalano frodi, violazioni, reati, irregolarità, trova disciplina nella legge n. 179/2017, la quale, diversamente dal settore pubblico, per il settore privato, si muove essenzialmente all’interno del campo di applicazione del D.Lgs. n. 231/2001 (che sancisce la responsabilità delle persone giuridiche per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato).

Di conseguenza, la normativa di protezione vanta un ambito applicativo soggettivo piuttosto circoscritto, operando nei confronti dei lavoratori all’interno dei soli enti:
– compresi nell’elenco dei soggetti destinatari del predetto decreto (enti forniti di personalità giuridica, società e associazioni anche prive di personalità giuridica, ai sensi dell’art. 1, comma 2);
– che abbiano, in concreto, adottato il sistema di compliance ivi prescritto (adozione di un modello di organizzazione e gestione e nomina dell’organismo autonomo di vigilanza)
Limitati sono anche i confini dell’ambito applicativo oggettivo della legge n. 179/2017, che coincidono con l’elenco dei “reati presupposto” in presenza dei quali può configurarsi la responsabilità dell’ente (principio di tipicità).
 
Quanto ai mezzi di tutela del segnalante (whistleblower), l’art. 2 della stessa legge integra il contenuto dei modelli organizzativi, che devono contemplare:
– specifici canali informativi dedicati alle segnalazioni, di cui almeno uno con modalità informatiche, tali da garantire la riservatezza dell’identità del segnalante;
– il divieto di atti di ritorsione o di discriminazione nei confronti del segnalante;
– l’inserimento all’interno del sistema disciplinare del modello organizzativo di sanzioni nei confronti di chi viola le misure di tutela del segnalante, nonché di chi effettua con dolo o colpa grave segnalazioni poi rivelatesi infondate;
– la previsione di una giusta causa di rivelazione di notizie coperte dall’obbligo di segreto di cui agli artt. 326, 622 e 623 c.p. e all’art. 2105 c.c.
A tutela del segnalante, è inoltre espressamente prevista la nullità:
– del licenziamento (ritorsivo o discriminatorio);
– del demansionamento;
– di qualsiasi misura ritorsiva o discriminatoria per motivi collegati direttamente o indirettamente alla segnalazione.
 
In caso di controversia, l’onere della prova di aver adottato il provvedimento disciplinare o di variazione dello status lavorativo del prestatore successivo alla presentazione della segnalazione “sospetto di nullità” per ragioni diverse dalla segnalazione stessa è, ovviamente, posto in capo al datore di lavoro.
In definitiva, fatta salva l’espressa comminatoria di nullità delle eventuali misure ritorsive o discriminatorie adottate nei confronti del segnalante, nonché la facoltà di denuncia all’ITL (per i provvedimenti di propria competenza) attribuita al medesimo o all’organizzazione sindacale dallo stesso indicata, la legge n. 179/2017 rimette larga parte della protezione del whistleblower alla discrezionalità del datore di lavoro, che integrerà il proprio modello organizzativo con le modalità tecniche reputate più adatte a conseguire gli obiettivi di tutela sottesi alla normativa ad oggi vigente.
 
Rispetto all’impianto normativo così delineato dal legislatore italiano, la direttiva approvata dal Consiglio dell’Unione europea il 7 ottobre 2019 (che gli Stati Membri devono recepire entro il 2021) amplia decisamente il raggio di operatività della tutela in favore dei whistleblowers che denuncino violazioni del vigente diritto eurounitario nei settori indicati all’art. 2 (“Ambito di applicazione materiale”) ossia: appalti pubblici, sicurezza dei prodotti, servizi e mercati finanziari, riciclaggio e finanziamento del terrorismo, sicurezza dei trasporti, protezione dell’ambiente, salute pubblica, sicurezza degli alimenti, sicurezza nucleare, protezione dei consumatori, tutela della vita privata, protezione dei dati personali delle reti e dei sistemi informativi, interessi finanziari UE, e violazioni riguardanti il mercato interno, la concorrenza e gli aiuti di Stato.
 
Ciò consente di riscontrare un primo mutamento di prospettiva rispetto al sistema italiano di cui alla legge n. 179/2017: la tutela del segnalante, infatti, opera non più in conseguenza dell’integrazione (allo stadio tentato o consumato) delle fattispecie incriminatrici nel novero dei “reati presupposto”, bensì, più in generale, all’atto della lesione di un bene giuridico tutelato dal diritto UE.
Tuttavia, è bene osservare che la tutela delineata, congiuntamente, dal D.Lgs. n. 231/2001 e dalla legge n. 179/2017 opera anche dinanzi a delitti contro la personalità individuale (art. 25-quinquies del D.Lgs. n. 231/2001), mentre la direttiva UE sembra più orientata alla repressione di interessi di natura economica o, comunque, superindividuale (al di là, invero, del riferimento alla “tutela della vita privata ai sensi dell’art. 2, par. 1, lett. x).
 
Quanto all’ampliamento dell’ambito applicativo personale, i “segnalanti” destinatari della disciplina sono, in virtù dell’art. 4, par. 1:
– le persone aventi la qualità di lavoratore, compresi i dipendenti pubblici;
– le persone aventi la qualità di lavoratore autonomo (consulenti, freelance, ecc.);
– gli azionisti e i membri dell’organo di amministrazione, direzione o vigilanza di un’impresa, compresi i membri senza incarichi esecutivi;
– i volontari e i tirocinanti retribuiti e non retribuiti;
– qualsiasi persona che lavora sotto la supervisione e la direzione di appaltatori, subappaltatori e fornitori.
 
I paragrafi 2, 3 e 4 aggiungono, inoltre, rispettivamente, che la direttiva trova applicazione anche nei confronti dei segnalatori che comunichino o divulghino informazioni sulle violazioni acquisite nell’ambito di un rapporto di lavoro nel frattempo terminato o non ancora iniziato e ciò in relazione alle informazioni riguardanti violazioni acquisite durante il processo di selezione o altre fasi delle trattative precontrattuali, ma anche nei confronti dei facilitatori che assistono l’informatore e dei terzi collegati con lo stesso, quali colleghi o parenti che potrebbero subire in conseguenza del collegamento ritorsioni sul lavoro.
La direttiva si rivolge alle imprese private con almeno 50 dipendenti, ma è facoltà degli Stati Membri (ex art. 8, par. 7), a fronte di adeguata valutazione dei rischi e tenuto conto della natura dell’attività, di estenderne le previsioni anche a enti con un numero di lavoratori inferiore.
Sotto il profilo procedurale, il Legislatore europeo detta prescrizioni più stringenti rispetto a quelle della legge nazionale italiana, individuando un sistema di canali di segnalazione articolato su due livelli: il primo interno (che il segnalatore deve privilegiare), il secondo esterno.
 
Con l’intento di assicurare l’efficienza delle procedure di segnalazione interna, l’art. 9 della direttiva individua i seguenti elementi fondamentali che dovranno essere previsti:
– i canali per ricevere le segnalazioni devono essere progettati, realizzati e gestiti in modo sicuro, garantendo la riservatezza dell’identità del segnalante, la protezione degli eventuali terzi citati nella segnalazione e impedendo l’accesso al personale non autorizzato;
– entro sette giorni dalla segnalazione l’informatore deve essere avvisato della ricezione;
– deve essere designata una persona o un servizio (potrebbe essere anche lo stesso che riceve le segnalazioni), competente e imparziale, per dare seguito, in modo diligente, alle segnalazioni (anche anonime se previste dal diritto nazionale), restare in contatto il segnalante e, se necessario, chiedere ulteriori informazioni e fornirgli riscontro;
– deve essere previsto un termine ragionevole, non superiore a tre mesi a far data dall’avviso di ricevimento (in assenza di avviso al segnalante, i tre mesi si calcolano dalla scadenza del termine di sette giorni dall’effettuazione della segnalazione), per dare un riscontro alla segnalazione;
– devono essere rese disponibili informazioni chiare e facilmente accessibili sulle procedure per effettuare segnalazioni esterne alle autorità competenti e, se del caso, a istituzioni, organi e organismi dell’Unione Europea.
 
L’art. 10 della direttiva prevede che, dopo aver effettuato la segnalazione per mezzo dei canali interni, ma, in alternativa, anche in prima battuta, gli informatori possono attivare una procedura “esterna”, indipendente e autonoma, che gli Stati Membri demanderanno alle autorità competenti, chiamandole ad informare il pubblico circa il concreto funzionamento del sistema di denuncia (art. 13).
Tali canali potranno considerarsi indipendenti e autonomi qualora soddisfino due parametri (art. 12):
– siano progettati, stabiliti e gestiti in modo da garantire la completezza, l’integrità e la riservatezza delle informazioni e impediscano l’accesso da parte del personale non autorizzato dell’autorità competente;
– permettano la memorizzazione di informazioni su supporti durevoli, conformemente all’art. 18, per consentire l’effettuazione di ulteriori indagini.
 
Tra le misure di protezione, che si applicano sempre quando l’informatore abbia fondati motivi per ritenere che, al momento della segnalazione, le notizie fossero vere e abbia seguito le procedure previste di segnalazione interne o esterne, diversamente da quanto previsto dalla legge n. 179/2017 che non le prevede nei confronti di chi effettua con dolo o colpa grave segnalazioni che si rivelano infondate, la direttiva contempla:
1) divieto di ritorsione (art. 19) tramite: licenziamento, retrocessione di grado, mancata promozione, mutamento di funzioni, cambiamento di luogo o di orario di lavoro, riduzione dello stipendio, sospensione della formazione, referenze negative, misure disciplinari, note di biasimo, mancata stabilizzazione di un lavoro temporaneo, coercizione, molestie, intimidazioni, ostracismo, ecc.
Si prevede, quindi, un elenco molto dettagliato, in luogo della formula di chiusura “qualsiasi altra misura ritorsiva o discriminatoria” impiegata dalla l. n. 179/2017;
2) misure di sostegno per l’autore della segnalazione (art. 20): garanzie sul piano informativo, assistenza, patrocinio gratuito a spese dello Stato, supporto psicologico;
3) misure di protezione dell’autore della segnalazione (art. 21): esclusione di ogni responsabilità per lecita acquisizione o divulgazione di informazioni propedeutiche alla denuncia; principio dell’integralità del risarcimento per danni subiti dal segnalante (par. 8);
4) misure di protezione anche per le “persone coinvolte” (ex art. 5 n. 10, le persone fisiche o giuridiche menzionate nella segnalazione o divulgazione come persone alle quali la violazione è attribuita o con le quali tali persone sono associate): diritto proporre ricorso effettivo dinanzi ad un giudice imparziale, presunzione di innocenza, diritto di difesa, di essere sentito e di accesso al fascicolo, tutela dell’identità durante le indagini (art. 22).
 
Gli Stati Membri possono, da ultimo, prevedere uno specifico apparato sanzionatorio nei confronti delle persone fisiche e giuridiche che ostacolino le segnalazioni o che pongano in essere ritorsioni, vessazioni o che violino il diritto alla riservatezza dell’identità degli informatori; allo stesso modo possono essere previste sanzioni anche nei confronti degli informatori quando si accerti che hanno effettuato segnalazioni scientemente false.
 
Dall’analisi della disciplina della direttiva sul whistleblowing emerge chiaramente il forte impatto sulla normativa italiana che dovrà essere profondamente modificata, entro il 2021, per recepire i principi eurounitari, andando ben oltre l’attuale dimensione esclusivamente connessa all’adozione del modello di organizzazione e gestione del D.Lgs. n. 231/2001.
 
L’articolo disponibile anche qui.

Licenziamento CEO McDonald’s: Giulietta Bergamaschi intervistata su TGCom24

La notizia del licenziamento di Steve Easterbrook, CEO di McDonald’s “colpevole” di aver violato il codice di condotta dell’azienda per aver intrattenuto una relazione sentimentale – consenziente –  con una dipendente, ha fatto il giro del mondo e sollevato interrogativi etici e giuridici anche nel nostro paese.
Intervistata da TGCom24, la nostra Managing Partner Giulietta Bergamaschi ha spiegato come il problema che le aziende intendono controllare con la sottoscrizione di queste policy interne è il conflitto di interessi nella gestione del personale: evitare situazioni di disequilibrio con ricadute negative per l’organizzazione.
Giulietta Bergamaschi ha sottolineato come in Italia la situazione sia, attualmente, diversa: i codici di condotta delle nostre aziende non sono altrettanto stringenti, si predilige una valutazione caso per caso, che tenga conto del coinvolgimento di aspetti personali (soprattutto quando c’è consensualità).
La multinazionale americana ha gestito la questione con un rigore che non è nuovo oltreoceano, dove i temi dell’etica e della trasparenza superano qualsiasi altra valutazione (anche dei risultati eventualmente portati dal dipendente, come nel caso di Steve Easterbrook).
Giulietta Bergamaschi ha concluso con una valutazione sulla probabilità che, a seguito di questa vicenda, le aziende italiane optino per un irrigidimento delle policy, attualmente più orientate alla gestione delle molestie (“altra faccia della moneta”).
L’intervista è disponibile qui.

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Il “whistleblowing” prima e dopo la recente Direttiva UE in argomento

L’ultimo articolo del Prof. Francesco Bacchini sul tema “whistleblowing“, per il numero di novembre di HR Online, periodico dedicato alle Risorse Umane di AIDP.

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La figura del whistleblower (colui che, all’interno del proprio ambito lavorativo, segnala frodi, violazioni, reati, irregolarità) trova tutela, in Italia, nella L. n. 179/2017, efficace nel perimetro applicativo del D.Lgs.n. 231/2001 (che sancisce la responsabilità delle persone giuridiche per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato) e quindi rivolta ai lavoratori nei soli enti:

  • destinatari del predetto Decreto (enti forniti di personalità giuridica, società e associazioni anche prive di personalità giuridica, ai sensi dell’art.1, comma 2);
  • che si siano adeguati al sistema di compliance ivi prescritto (adozione di un modello di organizzazione e gestione e nomina dell’organismo autonomo di vigilanza).

La vigente L. 179/2017 interviene, quindi, a fronte dei soli illeciti (inclusi nell’elenco dei c.d. “reati presupposto”)che possono determinare la responsabilità dell’ente.
L’art. 2 della stessa legge impone infatti che i modelli organizzativi adottati dall’ente prevedano, a tutela del denunciante:

  • specifici canali informativi dedicati alle segnalazioni, di cui almeno uno con modalità informatiche, tali da garantire la riservatezza dell’identità del segnalante;
  • il divieto di atti di ritorsione o di discriminazione nei confronti del segnalante;
  • sanzioni per chi viola le misure di tutela del segnalante nonché di chi effettua con dolo o colpa grave segnalazioni poi rivelatesi infondate;
  • la previsione di una giusta causa di rivelazione di notizie coperte dall’obbligo di segreto di cui agli artt. 326, 622 e 623 c.p. e all’art. 2105 c.c.

Direttamente prevista dalla Legge, a beneficio del whistleblower, è l’espressa nullità (presunta, con conseguente onere di prova contraria in capo al datore):

  • del licenziamento (ritorsivo o discriminatorio);
  • del demansionamento;
  • di qualsiasi misura ritorsiva o discriminatoria per motivi collegati direttamente o indirettamente alla segnalazione.

Da tutto quanto sopra emerge, quindi, come la protezione del whistleblower sia oggi parziale e non generale, in quanto prevista solo in relazione ai reati presupposto del d.lgs. n. 231/2001 e comunque rimessa alla discrezionalità dell’ente, il quale trasporrà nel proprio modello organizzativo i mezzi di tutela ritenuti più adeguati in favore del segnalante.
I margini di tutela così tracciati dalla normativa nazionale saranno sensibilmente ampliati grazie alla Direttiva approvata lo scorso 7 ottobre dal Consiglio dell’Unione Europea (da recepirsi entro il 2021), che interviene in favore dei soggetti che denuncino, in imprese private con almeno 50 dipendenti, trasgressioni del diritto eurounitario vigente in settori quali: appalti pubblici, sicurezza dei prodotti, servizi e mercati finanziari, riciclaggio, finanziamento del terrorismo, ambiente, sicurezza degli alimenti, etc…
Tra i “segnalanti” la Direttiva contempla non solo i lavoratori “in senso ampio” (dipendenti, anche pubblici, lavoratori autonomi – quali consulenti o freelance -, volontari, tirocinanti retribuiti e non, soggetti sottoposti alla supervisione e la direzione di appaltatori, subappaltatori e fornitori), ma pure azionisti e titolari di cariche (anche non esecutive) in impresa, oltre a soggetti il cui rapporto lavorativo non sia iniziato (e che siano venuti a conoscenza di violazioni in fase precontrattuale) o sia già concluso, e ancora, i facilitatori e i terzi che assistono l’informatore (ad esempio, colleghi o parenti potenzialmente esposti a ritorsioni sul lavoro).
Sotto il profilo procedurale, il segnalante disporrà di due canali di denuncia (il primo, interno all’azienda, da preferire, il secondo esterno) che, nel rispetto dei requisiti dettati dalla Direttiva, devono assicurare, anzitutto, la riservatezza del segnalante, nonché la tempestività e la trasparenza dell’intera procedura.
La Direttiva tutela inoltre l’informatore (purché quest’ultimo abbia effettuato la denuncia mediante i suddetti canali e sulla base di notizie fondatamente ritenute vere all’atto della segnalazione) con:

  1. divieto di misure ritorsive (tra cui l’art. 19 contempla, in un elenco molto dettagliato: licenziamento, retrocessione di grado, mancata promozione, mutamento di funzioni, cambiamento di luogo o di orario di lavoro, etc…)
  2. misure di sostegno e protezione (artt. 20 e 21):garanzie sul piano informativo, patrocinio gratuito a spese dello Stato, supporto psicologico, integralità del risarcimento dei danni, esonero di responsabilità per lecita acquisizione di dati strumentali alla denuncia;

Tra le misure protettive per le “persone coinvolte” (i denunciati quali responsabili della violazione o i soggetti a questi ultimi collegati) troviamo, invece: il diritto di ricorso ad un giudice imparziale, la presunzione di innocenza, il diritto di difesa, di essere sentito e di accesso al fascicolo, la riservatezza durante le indagini (art. 22).
In ultima analisi, è evidente che il recepimento della Direttiva nel sistema italiano comporterà un significativo passo in avanti verso la tutela del whistleblower, che dovrà operare a livello generale e, quindi, ben al di là di quanto previsto nei modelli di organizzazione e gestione di cui al D. Lgs. 231/2001.
L’articolo è disponibile anche qui in formato PDF

Per i lavoratori nel Terzo settore nascono dipartimenti ad hoc – Il Sole 24 Ore

Di seguito l’articolo a firma di Valentina Melis, pubblicato da Il Sole 24 Ore sul tema del Terzo Settore, con l’intervista al nostro partner Marco Chiesara che opera nel dipartimento di Studio dedicato, coadiuvato dall’associate Valentina Messana.

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La nicchia dei giuslavoristi
I lavoratori del terzo settore sono cresciuti costantemente negli ultimi anni, arrivando a quota 845mila, da 488mila del 2001.
E se è vero che l’85% delle organizzazioni opera senza dipendenti, questa percentuale si abbassa di molto in alcuni settori di attività, ad esempio per gli enti che si occupano di istruzione, ricerca, sviluppo economico, assistenza sociale.
La crescita del “mercato” di riferimento, con la Lombardia e il Nord Ovest in testa, è uno dei motivi che ha spinto lo studio legale Lexellent, attivo dal 1975, con sede a Milano e Roma e specializzato in diritto del lavoro, a fondare un dipartimento ad hoc per il Terzo Settore. Se ne occupano gli avvocati Marco Chiesara e Valentina Messana.
[…]
L’articolo completo è disponibile qui.

Francesco Bacchini relatore all’evento “AZIMUT LIBERA IMRESA EXPO”

Francesco Bacchini interverrà all’evento “Azimut Libera Impresa Expo”, il giorno 30 ottobre dalle ore 12:00 alle ore 13:00, con una relazione dal titolo: “La negoziazione collettiva del welfare aziendale: dal vincolo della volontarietà unilaterale alla contrattualizzazione fiscalmente vantaggiosa. Regolamento aziendale, accordo e contratto collettivo con o senza premio di risultato convertibile”.
La conferenza si svolgerà presso il Padiglione 7, Stand Area 2, Rho Fiera
Vi aspettiamo numerosi!

 

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Lexellent partner dell’evento “AZIMUT LIBERA IMPRESA EXPO”

I prossimi 29 e 30 ottobre 2019 Lexellent sarà partner dell’evento “AZIMUT LIBERA IMPRESA EXPO” che si svolgerà presso il Centro Congressi Stella Polare della fiera di Rho.
Francesco Bacchini interverrà con una relazione dal titolo: “La negoziazione collettiva del welfare aziendale: dal vincolo della volontarietà unilaterale alla contrattualizzazione fiscalmente vantaggiosa. Regolamento aziendale, accordo e contratto collettivo con o senza premio di risultato convertibile”.
Seguiranno a breve altri aggiornamenti relativi all’orario.

Global Inclusion – Generazioni senza frontiere: il racconto della giornata

L’iniziativa apolitica e senza scopo di lucro, tenutasi lo scorso 11 settembre a Bologna, è stata un vero successo testimoniato da una forte partecipazione di pubblico e di imprese ma anche di istituzioni, università, business school e mondo non profit: tutti al lavoro per il #cambiamento.
Il racconto di quella giornata, in numeri e immagini, è disponibile anche qui.

Global Inclusion: l’intervista a Giulietta Bergamaschi

Pubblichiamo di seguito la video intervista alla managing partner Giulietta Bergamaschi rilasciata in occasione dell’evento Global Inclusion, lo scorso 11 settembre a Bologna. Un breve contributo sul tema della cultura inclusiva nelle aziende.

Clicca qui per vedere l’intervista

La contrattazione di prossimità ex art. 8 del DL 138/2011

Pubblichiamo di seguito l’articolo dell’avv. Marco Chiesara sul tema delle molte opportunità offerte dal contratto collettivo di prossimità – per il numero 16 di HR Online, periodico dedicato alle Risorse Umane di AIDP.

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Il contratto collettivo di prossimità disciplinato dall’art. 8 del DL 183/2011 è uno strumento che offre alle imprese la possibilità di derogare, entro certi limiti e per specifiche materie, alle disposizioni di legge e di contratto collettivo per adeguarle alle condizioni e alle esigenze di organizzazione del lavoro di ciascuna azienda. Il comma 2 bis della disposizione sopra richiamata, infatti, consente ai contratti di prossimità, di operare “in deroga alle disposizioni di legge che disciplinano le materie richiamate dal comma 2 ed alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro”, fermo il rispetto della Costituzione, della normativa comunitaria e delle convenzioni internazionali sul lavoro.
Se si scorre l’elenco delle materie cui le parti collettive possono derogare, risulta immediatamente evidente la rilevanza di questo strumento e la sua capacità di adattarsi in maniera sartoriale alle specifiche situazioni di ciascuna impresa. Il comma 2 della norma in esame prevede la possibilità di ricorrere a questo tipo di accordo con riferimento “a) agli impianti audiovisivi e alla introduzione di nuove tecnologie; b) alle mansioni del lavoratore, alla classificazione e inquadramento del personale; c) ai contratti a termine, ai contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, al regime della solidarietà negli appalti e ai casi di ricorso alla somministrazione di lavoro; d) alla disciplina dell’orario di lavoro; e) alle modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative a progetto e le partite IVA, alla trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e alle conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro, fatta eccezione per il licenziamento discriminatorio e il licenziamento della lavoratrice in concomitanza del matrimonio”. Come si può osservare, si tratta di materie che possono incidere in maniera decisiva sull’organizzazione del lavoro di una data impresa.È bene però precisare che, considerata l’eccezionalità della norma, l’elenco di cui al comma 2 è tassativo e gli accordi di prossimità non possono intervenire su materie diverse.
A conferma dell’interesse nei confronti di questo strumento, abbiamo potuto assistere recentemente a un incremento del ricorso alla stipulazione di accordi di prossimità, a seguito della stretta sul lavoro temporaneo introdotta dal c.d. Decreto Dignità (DL 87/2018): sono infatti diverse le intese che le parti collettive hanno raggiunto, allo scopo, ad esempio, di superare i vincoli legati al nuovo regime delle causali.
L’ulteriore elemento di sicuro interesse della disciplina qui esaminata è l’efficacia erga omnes degli accordi collettivi di prossimità che dunque si applicano a tutti i dipendenti dell’azienda, a prescindere dal fatto che siano o meno aderenti alle sigle sindacali che hanno sottoscritto gli accordi.
Tuttavia, considerato il loro carattere derogatorio e dunque di eccezionalità, per essere validi e superare l’eventuale scrutinio del Tribunale, gli accordi di prossimità devono rispettare le condizioni imposte dalla legge, come ha recentemente ribadito la sentenza del Tribunale di Firenze n. 528 del 4 giugno 2019.
Accanto ai requisiti e alle condizioni sino a qui ricordati, merita sottolineare che il comma 1 dell’art. 8 DL 183/2011, stabilisce che detti accordi debbano essere necessariamente finalizzati a garantire una maggiore occupazione, a favorire la qualità dei contratti di lavoro, l’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, l’emersione del lavoro irregolare, a gestire incrementi di competitività e di salario, e alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, investimenti e l’avvio di nuove attività.
A tale riguardo, la giurisprudenza di merito ha precisato che, ai fini della legittimità del contratto di prossimità e delle norme derogatorie ivi contenute, non è sufficiente il mero richiamo in via generale alle finalità enunciate nel disposto normativo, ma è necessario che le parti contraenti indichino in maniera puntuale le finalità perseguite e le circostanze di fatto che giustificano il ricorso al regime derogatorio (si vedano, in tal senso, oltre alla richiamata sentenza del Tribunale di Firenze, la precedente pronuncia della Corte d’Appello di Firenze del 20 novembre 2017). In caso di impugnazione dell’accordo stipulato, grava in capo al datore di lavoro l’onere di provare la rispondenza della disciplina contenuta nell’accordo al tipo delineato dall’art. 8 DL 183/2011.
È bene da ultimo ricordare che gli accordi di prossimità, per loro natura, possono essere siglati a livello aziendale o territoriale, non nazionale. In assenza di una specifica previsione, la definizione dell’ambito territoriale (comunale, provinciale, regionale, distrettuale) è rimessa all’autonomia delle parti sociali.
I soggetti legittimati a sottoscriverli sono, nel caso degli accordi territoriali, le associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale e, nel caso di accordi aziendali, le loro rappresentanze operanti nell’impresa ai sensi della legge e dell’accordi interconfederali vigenti, incluso il TU sulla rappresentanza sottoscritto il 10 gennaio 2014 da Confindustria e Cgil, Cisl e Uil.
Dal, seppur sintetico, quadro sopra descritto, emerge come la contrattazione di prossimità possa davvero costituire un utile strumento per imprese e lavoratori al fine di avvicinare la disciplina del rapporto di lavoro alle specifiche esigenze di ciascuna realtà aziendale.
L’articolo è disponibile per la lettura anche qui.

Provvedimento Garante privacy per le modalità di trattamento di categorie particolari di dati personali

Di seguito una una breve nota espositiva dei contenuti del provvedimento n. 146 adottato dal Garante della privacy il 5 giugno 2019 (pubblicato in G.U. il 29 luglio u.s.), relativo alle modalità di trattamento di categorie particolari di dati personali ai fini del rapporto di lavoro.
Le prescrizioni, rivolte anzitutto ai datori di lavoro, dettano precise istruzioni operative rispetto alle finalità, ai limiti ed alle modalità concernenti l’acquisizione di particolari tipi di informazioni che riguardano tanto i candidati al lavoro, quanto i dipendenti.

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Attraverso il recente provvedimento n. 146, pubblicato in G.U. lo scorso 29 luglio, il Garante della privacy ha definito le modalità di trattamento di categorie particolari di dati personali (ovvero, ai sensi dell’art. 9 GDPR, quei dati personali che rivelino l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale, nonché dati genetici, dati biometrici [1] intesi a identificare in modo univoco una persona fisica, dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona) ai fini del rapporto di lavoro.

Le nuove prescrizioni si rivolgono ai soggetti che, in qualità di titolari o responsabili del trattamento, debbano acquisire dati sensibili ai fini dell’ instaurazione, gestione od estinzione del rapporto lavorativo.

In particolare, ai sensi dell’art. 1 dell’allegato 1, il provvedimento si applica a:

  • Agenzie per il lavoro e altri soggetti che svolgono attività di intermediazione, ricerca e selezione del personale, o supporto alla formazione professionale;
  • Persone fisiche e giuridiche, imprese (anche sociali) che utilizzano prestazioni lavorative;
  • Organismi paritetici o che gestiscono osservatori in materia di lavoro;
  • Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza;
  • Soggetti che curano gli adempimenti in materia di lavoro, di previdenza ed assistenza sociale e fiscale nell’interesse di altri soggetti che sono parte di un rapporto lavorativo;
  • Associazioni, organizzazioni, federazioni rappresentative di categorie di lavoratori;
  • Medico competente in materia di salute e sicurezza sul lavoro, quale libero professionista o dipendente del datore di lavoro o di strutture convenzionate.

I dati personali oggetto della presente disciplina devono poi riguardare:

a) candidati all’instaurazione dei rapporti di lavoro;
b) lavoratori subordinati, anche se parti di un contratto di apprendistato, di formazione, a termine, di lavoro intermittente, di lavoro occasionale ovvero praticanti per l’abilitazione professionale, ovvero prestatori di lavoro nell’ambito di un contratto di somministrazione di lavoro, o in rapporto di tirocinio, ovvero ad associati anche in compartecipazione;
c) consulenti e liberi professionisti, agenti, rappresentanti e mandatari;
d) soggetti che svolgono collaborazioni organizzate dal committente, o altri lavoratori autonomi in rapporto di collaborazione, anche sotto forma di prestazioni di lavoro accessorio;
e) persone fisiche che ricoprono cariche sociali o altri incarichi nelle persone giuridiche, negli enti, nelle associazioni e negli organismi indicati nel precedente punto 1.1.;
f) terzi danneggiati nell’esercizio dell’attività lavorativa o professionale;
g) terzi (familiari o conviventi dei soggetti di cui alla precedente lett. b) e d) per il rilascio di agevolazioni e permessi.

Il titolare del trattamento può, inoltre, acquisire dati c.d. “sensibili” soltanto ove ciò sia necessario a soddisfare le seguenti finalità:

a) adempiere o esigere l’adempimento di specifici obblighi legati all’instaurazione, gestione od estinzione del rapporto lavorativo; ottenere il riconoscimento di agevolazioni o l’erogazione di contributi; applicare la normativa in materia di previdenza ed assistenza, ovvero in tema di igiene e sicurezza del lavoro, nonché in materia fiscale e sindacale;
b) tenuta della contabilità o della corresponsione di stipendi, assegni, premi, altri emolumenti, liberalità o benefici accessori;
c) salvaguardia della vita o dell’incolumità fisica del lavoratore o di un terzo;
d) far valere o difendere un diritto, anche da parte di un terzo, in sede giudiziaria, nonché in sede amministrativa o nelle procedure di arbitrato e di conciliazione;
e) adempiere ad obblighi derivanti da contratti di assicurazione finalizzati alla copertura dei rischi connessi alla responsabilità del datore di lavoro in materia di salute e sicurezza del lavoro e di malattie professionali o per i danni cagionati a terzi nell’esercizio dell’attività lavorativa o professionale;
f) assicurare le pari opportunità nel lavoro;
g) perseguire gli scopi individuati da statuti di associazioni, organizzazioni, federazioni o confederazioni rappresentative di categorie di datori di lavoro o dai contratti collettivi, in materia di assistenza sindacale ai datori di lavoro.

Il provvedimento adottato dal Garante privacy, poi, limita il trattamento dei dati a seconda che questo venga svolto nella fase preliminare alle assunzioni, ovvero in corso di esecuzione del rapporto.

In particolare, prima dell’assunzione, le agenzie per il lavoro e gli altri intermediari possono trattare dati riguardanti lo stato di salute e l’origine etnico-razziale dei candidati soltanto allo scopo di instaurare un rapporto di lavoro.

In fase precontrattuale, inoltre, i dati (acquisiti tramite questionari inviati ai candidati o da questi ultimi inseriti spontaneamente nei curricula) devono riguardare le sole informazioni strettamente pertinenti e necessarie, anche tenuto conto delle particolari mansioni e/o delle specificità dei profili professionali richiesti.

Qualora, invece, il datore debba trattare dati sensibili del dipendente nel corso del rapporto lavorativo, deve tener presente che:

  1. le informazioni che rivelano orientamenti filosofico-religiosi del lavoratore possono essere trattate soltanto per la fruizione di permessi, in occasione di festività religiose o per la fruizione del servizio mensa;
  2. le informazioni circa opinioni politiche o sindacali del lavoratore possono essere trattate soltanto per concedere permessi o aspettativa, ovvero per l’esercizio dei diritti sindacali;
  3. qualora un dipendente partecipi ad operazioni elettorali quale rappresentante di lista, non può trattare dati che ne rivelino opinioni politiche.

Quanto alle modalità di trattamento, viene poi previsto che:

  1. i dati sensibili devono essere raccolti, di regola, presso l’interessato;
  2. tutte le comunicazioni riguardanti dati sensibili devono essere rivolte al relativo titolare (ovvero a un delegato); tali trasmissioni possono avvenire in forma scritta (documento cartaceo in busta chiusa, con firma per ricevuta) o per e-mail;
  3. qualora i documenti contenenti dati sensibili vadano trasmessi ad altri uffici o funzioni della stessa struttura organizzativa, devono contenere le sole informazioni necessarie allo svolgimento della funzione;
  4. se, per ragioni legate all’organizzazione del lavoro (per esempio, calendarizzazione dei turni), i dati riguardanti le assenze devono essere divulgati a più colleghi, tali informazioni devono riportare solo il giorno di assenza e non la causa (es. malattia, aspettativa, etc. ….).

[1]Definiti dall’art. 4, n. 14, GDPR, come i dati personali ottenuti da un trattamento tecnico specifico relativi alle caratteristiche fisiche, fisiologiche o comportamentali di una persona fisica che ne consentono o confermano l’identificazione univoca, quali l’immagine facciale o i dati dattiloscopici.

Legalcommunity Labour Awards 2019 – Lexellent e Giulietta Bergamaschi tra i premiati

Si è svolta ieri, 30 settembre 2019 la serata di premiazione dei Legalcommunity Labour Awards 2019 durante la quale sono stati consegnati i premi agli studi  e ai professionisti italiani specializzati in Diritto del Lavoro.
Lexellent è stato premiato in due categorie:

  • PREMIO BEST PRACTICE PREVIDENZA SOCIALE con la seguente motivazione: “Professionalità e competenza e capacità di dialogo sono le qualità più segnalate di un team molto stimato dal mercato. Apprezzati quest’anno in particolare per l’importante attività svolta nel campo della previdenza sociale”.
  • PREMIO AIDP AL MANAGING PARTNER a Giulietta Bergamaschi con la seguente motivazione: “Per aver rafforzato il network internazionale dello studio e per aver favorito la nascita e lo sviluppo di due nuovi dipartimenti: sicurezza del lavoro e terzo settore”.

Giuslavoristi alla sfida dell’intelligenza artificiale – Il Sole 24 Ore – 30 settembre 2019

Pagina a cura di Dario Aquaro e Valentina Melis
Sfruttare la tecnologia, per lasciare alle macchine il lavoro più rutinario e concentrarsi sulle consulenze a maggior valore aggiunto, anziché concepirla come una minaccia. Con l’avvertenza, soprattutto per gli studi più piccoli, che bisogna restare al passo con i tempi, per non essere “sostituiti” dall’automazione.
È una delle sfide sulle quali si confronteranno questa settimana a Verona gli avvocati giuslavoristi italiani, al convegno della loro associazione nazionale (Agi), da giovedì a sabato. Il titolo è «I tempi e i luoghi del lavoro»: la riflessione su come sono cambiati orari e spazi delle prestazioni si intreccerà con quella sui cambiamenti in corso nelle aziende e sul futuro degli avvocati del lavoro, che più di altri, fra i legali, vivono a stretto contatto con i clienti, siano datori o lavoratori. Gli iscritti all Agi sono 2mila.
Posto che con l’uso dell intelligenza artificiale si possono scandagliare migliaia di documenti e sentenze, eliminando ore di lavoro dello studio (finora fatturate al cliente), quale è l’attività ad alto valore aggiunto che resta al giuslavorista?
……
La spinta all aggregazione
I più “piccoli” si organizzano per fare rete. Ad esempio Lexellent, boutique specializzata in diritto del lavoro, è parte di un network con altri studi esteri (in Europa e uno in Cina), basato su una piattaforma tecnologica di condivisione e confronto. «Una sorta di gestionale internazionale – lo definisce la managing partner Giulietta Bergamaschi – usato sia per aspetti tecnici, sia amministrativi. Inoltre – aggiunge – stiamo pensando di aggregare intorno a progetti di intelligenza artificiale altre realtà come la nostra, creare sinergie con altri studi per acquistare prodotti sul mercato e accogliere risorse con competenze tecnologiche». 

Lexellent all’ottava edizione del LGBT People at Work Business Forum

Domani, 27 settembre 2019, Giulietta Bergamaschi parteciperà al LGBT People at Work Business Forum, quest’anno alla sua all’ottava edizione, con una relazione sul quadro legislativo nella sessione “L’utilità dell’inclusione: genitorialità sociale”.
Per programma, iscrizioni e altre informazioni utili, cliccare qui.

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9.00 – 9.30 Registrazione
9.30 – 10.15 Saluti di benvenuto
10.15 – 11.30 PLENARIA – Il potere delle convers(az)ioni
Convers(az)ioni (il potere della Gaussiana):
– Donato Iacovone, CEO EY Italia, EY Managing Partner Italia, Spagna e Portogallo
– Gerd Pircher, CEO Italy, HSBC
Siamo tutti coinvolti: cosa ci guadagno?
– Giada Anania, Team Leader, Vector SPA
– Domenico Luciani, TIM
– Chiara Massa, Country Safety Manager, EY
– Gabriele Paini, Technical Development Manager, Barilla
Modera: Igor Suran, Direttore Esecutivo, Parks – Liberi e Uguali
11.30 – 12.00 Caffè e networking
12.00 – 13.00 SESSIONI PARALLELE
1) Il costo della coazione a ripetere:
 startup e sindrome del mini-me:
Conversazione con:
– Anna Chiara Gaudenzi, Direttrice Responsabile, StartupItalia
– Linda Serra, Founder & CEO, Work Wide Women
Modera: Giampaolo Colletti, Digital communication manager, giornalista e storyteller
2) Il potere del talento: candidati LGBT e 
recruiting
– Regole, procedure e protocolli aziendali: metodologie
– La valutazione dei candidati
Gestisce: Andrea Notarnicola Cociani, Partner Newton
3) L’utilità dell’inclusione: genitorialità sociale

– Quadro legislativo:
Giulietta Bergamaschi, Managing Partner, Lexellent
– Esperienze aziendali:
– Sarah Bonte, Corporate Social Responsibility, CNP-Vita
– Manfredi Rimbotti, Responsabile Relazioni Sindacali, Findomestic
Modera: Ferdinando Poscio, Partner, Clifford Chance
13.05 – 13.15 La forza del cambiamento:
Conversazione con Gianmarco Negri, Avvocato e Sindaco di Tromello (Pavia)
13.15 – 14.15 Pranzo
14.15 – 14.45 Pièce teatrale: 
Angels in America
Con Elio De Capitani, Ida Marinelli e Angelo Di Genio
14.45 – 16.00 PLENARIA – Quando la matematica non ha potere:
 l’intersezionalità delle differenze
Esperienza aziendale:
Stephane Codeluppi, Onboard Sales&Key Positions Performance, Talent&Development and D&I Manager Fleet Hotel HR, Costa Crociere
La teoria:
– Paolo Valerio, Professore Onorario di Psicologia Clinica, Università Federico II, Presidente Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere
– Barbara Giovanna Bello, Postcod researcher, Università degli Studi di Milano
Le testimonianze:
– Arianna Forzani, Expenses Manager, IBM
– Alma Laura Hernández Luja, Disegnatrice, fotografa e attivista IAM
– Karla Jessica Reyes Villegas, Compositrice, artista e attivista IAM
– Vincenzo Speranza, Consulente Direct Banking, BNL Gruppo BNP Paribas
Modera: Milena Cannavacciuolo, Direttrice del sito LezPop.it
16.00 – 17.15 PLENARIA – Il costo del potere. Molestie sessuali
Non è una battuta:
– Barbara Falcomer, Direttrice Generale, ValoreD
– Igor Suran, Direttore Esecutivo Parks – Liberi e Uguali
Il costo economico, legale e sociale delle molestie:
– Emanuele Recchia, Head of Industrial Relations, Labour Policies and Welfare, Unicredit
– Giulia Zacchia, Ricercatrice in Economia politica presso il Dipartimento di Scienze Statistiche di Sapienza Università di Roma
Testimonianze
Modera: Maria Cristina Origlia, Giornalista economica
17.15 – 17.30 Saluti finali

Riders e platform workers. La tutela (incompiuta) del lavoro digitale

Pubblichiamo di seguito l’editoriale del Prof. Francesco Bacchini per IPSOA – Quotidiano, che torna sul tema dei lavoratori delle piattaforme digitali, riders e consimili, e sull’opportunità di una decretazione d’urgenza.

***

Un decreto d’urgenza per i riders? Che sono circa il 10%, 10.000 quelli che lavorano per le piattaforme di food delivery, del decisamente più vasto fenomeno della gig economy digitale, lavori on demand che si incontrano on-line attraverso apposite piattaforme digitali? Numeri significativi, ma certo non al punto, soprattutto per quanto riguarda i rider, da necessitare una decretazione d’urgenza, per giunta asistematica e incompleta. Infatti, benché riferito universalmente alla tutela del lavoro tramite piattaforma (anche) digitale, il campo di applicazione delle tutele lavoristiche è limitato ai soli rider che consegnano beni in città, con buona pace di tutti gli altri (molti) lavoratori che forniscono beni e servizi tramite piattaforme non solo digitali. E che dire della retribuzione?

L’ennesimo decreto legge in materia di lavoro. Ma davvero siamo sempre di fronte a casi straordinari di necessità e di urgenza che consentono al Governo di emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria anche senza delegazione delle Camere?
Per quanto riguarda il D.L. n. 101/2019, rubricato “Disposizioni urgenti per la tutela del lavoro e per la risoluzione di crisi aziendali”, se necessità e urgenza possono ravvisarsi in relazione alla risoluzione delle crisi aziendali (ILVA in particolare), così non pare per le opinabili e controverse disposizioni in materia di lavoro tramite piattaforme digitali o, più precisamente e, purtroppo, limitatamente, di lavoro digitalmente intermediato, consistente “in attività di consegna di beni per conto altrui in ambito urbano”(i riders), infilate alla bell’e meglio nel D.Lgs. n. 81/2015.
 
Leggi anche Lavoratori digitali: personaggi in cerca d’autore… e di tutele
 
Infatti, secondo una recente indagine (Fondazione Rodolfo Debenedetti i cui risultati preliminari sono riportati nel rapporto INPS 2018) i rider sono circa il 10%, 10.000 quelli che lavorano per le piattaforme di food delivery, del decisamente più vasto fenomeno della gig economy digitale (lavori on demand che si incontrano on-line attraverso apposite piattaforme digitali) che vede occupati, in maggioranza in modo intermittente di breve durata e per breve tempo, circa 700.000 lavoratori.
Numeri significativi in generale, ma certo non al punto, soprattutto per quanto riguarda i rider, da necessitare una decretazione d’urgenza, per giunta asistematica e incompleta.
L’analisi dell’intervento normativo teso a tutelare il lavoro tramite piattaforma digitale deve essere condotta su due istituti che il legislatore consapevolmente distingue, ma che, forse suo malgrado, risultano inevitabilmente connessi: il primo è rappresentato dalla collaborazione organizzata dal committente della quale si pretende di precisare (inutilmente) l’ambito di operatività delle “disposizioni” precettive, estendendolo espressamente ai platform worker tutti, digitali e non; il secondo è l’introduzione di una ulteriore nuova disciplina della prestazione di lavoro non subordinato e, quindi, autonomo che, apparentemente, sancisce tutele minime per tutti i platform workers anche se, in concreto, si limita a prevederle solo per i rider.
 
Ma andiamo con ordine, per quanto possibile, cercando di trovare, sempre che ve ne siano, i tratti sistematici del provvedimento normativo.
La scelta del Governo è stata, innanzitutto, quella di tentare di disciplinare la materia rifugiandosi, forzandone la mano in termini di fattispecie, nella già travagliata e caotica interpretazione applicativa dell’art. 2, comma 1, del D.Lgs. n. 81/2015.
E’ possibile ritenere che tale scelta sia stata indotta dalla sentenza della Corte d’Appello di Torino relativa alla vicenda dei riders di Foodora, secondo la quale, diversamente dall’interpretazione fatta propria dal giudice di prime cure, ravvedendo nella richiamata disposizione il tertium genus fra subordinazione (etero diretta ed etero organizzata) e collaborazione continuativa consensualmente coordinata fra le parti (auto organizzata e diretta), i ciclofattorini devono essere qualificati collaboratori organizzati dal committente (non etero diretti però etero organizzati) reputandosi la fissazione della turnistica, delle zone di partenza, degli indirizzi di consegna da parte della piattaforma, condizione idonea a provare l’organizzazione impositiva altrui, da cui deriva, nei loro confronti, l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato, compatibile, aggiungiamo noi, con l’attività comunque autonoma, siccome effettivamente prestata nella vigenza del rapporto contrattuale.
 
Prescindendo dalla condivisibilità o meno dell’arresto giurisprudenziale, che si fonda sulla controversa e opinabile distinzione fra etero direzione e etero organizzazione quali condizioni genetiche distinte della subordinazione lavorativa e, in relazione alla seconda, sulla ritenuta sufficienza a configurare, nella sola unilaterale (ammesso e non concesso che, nel caso di specie, lo fosse) determinazione del tempo e del luogo della prestazione da parte del committente (svalorizzando quel “anche” il quale parrebbe ricondurla all’interno della più ampia organizzazione delle modalità di esecuzione delle prestazioni di lavoro che tanto ha fatto discutere) il presupposto per l’applicazione alla collaborazione autonoma della disciplina della subordinazione, l’aggiunta all’art. 2, comma 1, della previsione secondo la quale le disposizioni in esso contenute “si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali”, risulta, in ogni caso, del tutto inutile.
 
Inutile in quanto, non potendo in alcun modo attribuire al provvedimento natura di presunzione legale riguardo all’etero organizzazione del lavoro tramite piattaforma (anche) digitale (come, invece, parrebbe ricavarsi dalla lettura della definizione di piattaforma digitale di cui al comma 2, dell’art. 47-bis contenuto nel nuovo Capo V-bis e sembrerebbe adombrarsi nella relazione tecnica al D.L. n. 101/2019), né relativa (iuris tantum) né, men che meno, assoluta (iuris et de iure), sarà sempre e comunque il giudice a valutare la sussistenza, nel caso di specie, delle modalità esecutive della prestazione di lavoro unilateralmente determinate dal committente anche (ma non solo?) con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro e, conseguentemente, ad applicare ai collaboratori etero organizzati dalle piattaforme, digitali e non, gli istituti tipici del lavoro subordinato: retribuzione diretta, indiretta e differita da CCNL, contribuzione previdenziale, ferie, riposi, malattia, tutela della genitorialità, tutela di sicurezza e salute e assicurazione INAIL, solo per citare quelli compatibili e già riconosciuti dalla giurisprudenza di merito anche prima del 5 settembre, data di pubblicazione del D.L. in G.U. e di entrata in vigore della novella.
Ma i dubbi sulla “sensatezza” del disegno normativo contenuto nel D.L. n. 101/2019 nella parte relativa alla tutela del lavoro tramite piattaforma anche digitale aumentano non poco alla luce del nuovo Capo V-bis del D.Lgs. n. 81/2015, specialmente se interpretato in combinazione con la modifica dell’art. 2, comma 1, del medesimo decreto, della quale si è appena trattato.
 
Infatti, benché riferito universalmente alla tutela di tale modalità di prestazione del lavoro, i destinatari delle tutele in realtà sono esclusivamente i prestatori occupati con rapporti di lavoro non subordinato impiegati nelle attività di consegna di beni per conto altrui (soltanto) in ambito urbano che utilizzano biciclette (velocipedi) o motorini a due, tre o quattro ruote (anche elettrici) che non superino i 50 cm cubici e la velocità di 50 km/h (veicoli a motore di cui all’art. 47, comma 2, lett. a), del D.Lgs. n. 285/1992).
Il campo di applicazione soggettivo delle tutele lavoristiche è, quindi, limitato ai soli riders che consegnano beni in città, con buona pace di tutti gli altri (molti) lavoratori che forniscono beni e servizi tramite piattaforme non solo digitali.
Pure la definizione di piattaforma digitale (quella di piattaforma non digitale, implicitamente evocata dall’uso della congiunzione “anche”, non è stata fornita, ma la relazione tecnica al decreto la esemplifica ricorrendo ai sistemi di smistamento di chiamate telefoniche, vale a dire il centralino del radiotaxi) risulta, di conseguenza, assai parziale e marginale e ciò in quanto limitata ai programmi e alle procedure informatiche di ogni impresa che, indipendentemente dal luogo di stabilimento, organizza (unicamente) le attività di consegna di beni, fissandone il prezzo e determinando le modalità di esecuzione della prestazione.
 
Ai riders, espressamente qualificati lavoratori non subordinati, ma implicitamente organizzati dal committente-piattaforma digitale (e non), si applicano, dunque, alcune tutele minime e, segnatamente: quella retributiva, quella dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali e quella in materia di sicurezza e salute del lavoro (sancendosi, par di capire, l’applicabilità nei loro confronti di tutti gli adempimenti di cui al D.Lgs. n. 81/2008 a cura e spese dell’impresa che si avvale della piattaforma anche digitale, la quale assume, quanto meno in chiave antinfortunistica, la posizione di garanzia del datore di lavoro).
 
Se poi i riders risulteranno iscritti alla gestione separata INPS (e non ad altre forme previdenziali obbligatorie) e rispetteranno i requisiti di cui all’art. 2-bis del D.Lgs. n. 81/2015, introdotto dal D.L. n. 101/2019, ad essi sarà riconosciuta: l’indennità giornaliera di malattia, l’indennità di degenza ospedaliera, il congedo di maternità e il congedo parentale.
Essendo stata al centro del dibattito politico e giuridico, la questione della determinazione della retribuzione dei riders merita un sintetico approfondimento, segnalando, fin da subito, che il tanto sbandierato divieto di cottimo a favore di una paga oraria (previsto ad esempio dalla legge della Regione Lazio n. 4 del 2019) è stato compromesso dalla fissazione di una specie di cottimo misto, ossia: una parte di corrispettivo è legato alla consegna, ma non deve essere prevalente, e un’altra parte è riconosciuta in base alle ore di lavoro, ma ciò a patto che il rider accetti almeno una chiamata per ciascuna ora di disponibilità al lavoro (previsione problematica nella misura in cui non risultasse concretamente possibile, per il gran numero di riders disponili, rispondere ad almeno una chiamata all’ora). Sulla base di questa regolazione rigida del corrispettivo, il Governo rinvia alla contrattazione collettiva (da intendersi tanto di primo come di secondo livello) che potrà definire schemi di retribuzione modulare e incentivante che tenga conto delle modalità di esecuzione e dei diversi modelli di organizzazione del servizio. Tale rinvio, di difficile attuazione, visto che non esiste una organizzazione sindacale datoriale delle imprese che si avvalgono di piattaforme e considerato che, anche a livello aziendale o territoriale, è improbabile la costituzione di rappresentanze sindacali dei lavoratori dotate di maggiore rappresentatività comparata sul piano nazionale (le quali, peraltro, hanno costruito, nel CCNL logistica e trasporto merci, la figura del rider sulla subordinazione intermittente e non sulla collaborazione autonoma), finirà per restare lettera morta a tutto vantaggio della regolazione datoriale di cui al contratto di individuale di lavoro.
 
Prescindendo dalla reale effettività delle tutele (a fronte di diffusi episodi di illegalità, alcuni dei quali decisamente gravi come il presunto “caporalato” sul quale indaga la Procura della Repubblica di Milano) anche in relazione all’incerta qualificazione giurisdizionale della prestazione di lavoro, dalla disciplina contenuta nel D.L. n. 101/2019 deriva, comunque, una singolare situazione: per quanto riguarda i riders e solo per loro, benché collaboratori organizzati dalla piattaforma, valgono i diritti riconosciuti dal nuovo Capo V-bis del D.Lgs. n. 81/2015, mentre per tutti gli altri platform workers, nel caso in cui il giudice li valuti come tali, si applicheranno, ex art. 2, comma 1, del medesimo decreto, le ben maggiori tutele, soprattutto retributive, previste per il lavoro subordinato, la qual cosa, a ben vedere, suona proprio come una beffa.
 
L’articolo disponibile anche qui.
 

Giulietta Bergamaschi tra le esperte di Women In Business Law 2019 selezionate da Expert Guides

E’ con grande piacere che annunciamo che la nostra Managing Partner Giulietta Beragamaschi è stata inserita nell’edizione 2019 di Women in Business Law, stilata da Expert Guides.
In dettaglio Giulietta Bergamaschi è stata inserita nell’elenco di esperte della categoria Labour & Employment per l’Italia.
Con l’occasione porgiamo i nostri complimenti a Marijke Granier Guillemarre Founding Partner di MGG Legal, nominata per la Francia, e a Sonia Cortés García, Partner di Abdón Pedrajas, per la Spagna, con cui condividiamo la membership in ELLINT Employment & Labour Lawyers International.
Expert Guides svolge analisi nel mercato legale mondiale da oltre 20 anni ed è diventata una delle risorse più affidabili per la ricerca internazionale di servizi legali.

GALLERY FOTOGRAFICA – Lexellent al Global Inclusion

Si è svolto a Bologna, lo scorso 11 settembre, l’evento Global Inclusion, iniziativa senza fini di lucro e senza fede politica costituita con l’intenzione di valorizzare il contributo delle politiche di inclusione all’interno delle aziende come leva competitiva per lo sviluppo delle organizzazioni e del Paese.
La nostra Managing Partner Giulietta Bergamaschi tra i relatori sul tema “L’educazione inclusiva nelle aziende” e il nostro Partner Marco Chiesara nel panel “Il mito della purezza: l’alleanza profit e non profit”
Pubblichiamo qui di seguito una serie di foto scattate durante l’evento.
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Occorre affiancare le aziende nell’adozione di nuove policy – Marco Chiesara di Lexellent interviene su Italia Oggi Sette

Pubblichiamo di seguito l’articolo in materia di smart working pubblicato da Italia Oggi, per la rubrica “Il parere degli studi legali”, con l’intervento di Marco Chiesara.

***

Gli aspetti giuridici dello smart working sono ben conosciuti dagli studi legali che affiancano le aziende.
[omissis]
Secondo Marco Chiesara, partner di Lexellent, “la maggior preoccupazione consiste nell’impatto che questo strumento ha sui risultati aziendali, sia sotto il profilo quantitativo sia sotto quello qualitativo. Per questa ragione alcune aziende hanno introdotto progetti sperimentali di smart working, riservati a un perimetro di attività e categorie di dipendenti ben definite, e contestualmente hanno attivato un sistema di monitoraggio per valutare l’impatto e le ulteriori modifiche organizzative necessarie alla miglior implementazione di questa modalità di lavoro. [omissis]
L’intero contributo è disponibile qui.

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Il burnout e la gestione (fallimentare) dello stress lavorativo

L’ultimo articolo del Prof. Francesco Bacchini sul tema del burnout lavorativo, per il numero di settembre di HR Online, periodico dedicato alle Risorse Umane di AIDP.

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L’OMS (Organizzazione mondiale della sanità), nell’11a revisione della classificazione internazionale delle malattie (ICD-11) datata 28 maggio 2019(che entrerà però in vigore nel gennaio del 2022), ha qualificato il burnout nei termini di “fenomeno professionale”.
Nello specifico, il burnout è inteso non quale malattia o condizione di salute, bensì nel capitolo: “Fattori che influenzano lo stato di salute o il contatto con i servizi sanitari”, all’interno del quale vengono incluse le cause per cui le persone si rivolgono al sistema sanitario.
L’OMS imputa il burnout alle inefficienze (con esiti irreversibili) della gestione dello stress lavorativo, in quanto “sindrome concettualizzata come conseguenza dello stress cronico sul posto di lavoro che non è stato gestito con successo”.
Sicché, alla luce delle recenti acquisizioni in argomento, il burnout integra un rischio psicosociale di portata generale, che può materializzarsi in qualsiasi organizzazione di lavoro, anche al di là dei contesti professionali “tipici” da cui, storicamente, trae origine.
Proprio alla luce di tali considerazioni non sembra dunque più possibile intendere il burnout (termine che rimanda, letteralmente, alla vicenda del “bruciarsi” o “consumarsi”) quale epilogo di un processo stressogeno cronico che si ambienta sullo sfondo delle sole c.d. “helping professions”; attività, cioè, che si traducono in mansioni di aiuto, ascolto e cura in favore di soggetti comunque in stato di precarietà emotiva, incapaci di provvedere alla cura di sé, e perciò necessitanti di costante supporto: è il caso, in particolare, di addetti a reparti di pronto soccorso o specializzati in patologie croniche e invalidanti (psichiatrici, oncologici o di terapia intensiva) ma anche di operatori dei servizi sociali e scolastici, nonché di psicologi, agenti delle forze dell’ordine e di polizia penitenziaria o addetti al volontariato socio-assistenziale.
Il burnout si pone, dunque, quale vera e propria “sintomatologia da stress” (che comprende: fenomeni di affaticamento, logoramento, esaurimento emotivo, depersonalizzazione, ridotta realizzazione personale e improduttività lavorativa, ma anche una costellazione di altri sintomi come somatizzazioni, apatia, eccessiva stanchezza, risentimento, infortuni), direttamente riconducibile all’obbligo di tutela della salute dei lavoratori e alla valutazione dei rischi lavorativi.
Leggendo, infatti, il profilo scientifico del burnout in funzione del T.U.S.L (d.lgs. n. 81/2008), non può non osservarsi come, ai sensi dell’art. 2, co 1, lett. o), esso rientri a pieno titolo in una definizione di “salute” (sul lavoro) di tenore talmente ampio da risultare onnicomprensiva, rilevando quale “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità”.
La stessa totalizzante vocazione sociale al benessere psico-fisico ispira anche l’art. 28 del medesimo decreto, a tenore del quale il datore di lavoro è obbligato a valutare, tra l’altro, i rischi connessi allo stress lavoro-correlato (definito dall’accordo europeo dell’8 ottobre 2004, integralmente recepito dall’accordo interconfederale 9 giugno 2008, come “una condizione, accompagnata da sofferenze o disfunzioni fisiche, psichiche, psicologiche o sociali, che scaturisce dalla sensazione individuale di non essere in grado di rispondere alle richieste o di non essere all’altezza delle aspettative […]).
La normativa richiamata si pone, quindi, quale espressione di quel percorso giuridico – sociale volto ad orientare le condizioni organizzativo-ambientali del lavoro alla prioritaria tutela della dignità del dipendente: processo, questo, tutt’altro che compiuto, nella misura in cui impone che la gestione aziendale dello stress correlato al lavorosi confronti con le più recenti acquisizioni di psicologia e psichiatria anche sociali.
In altri termini, l’emergere di inediti disagi individuali legati ai target economici, alla valutazione delle performance, ai conflitti interpersonali, all’intensità dei ritmi lavorativi, all’eccessivo affaticamento sul posto di lavoro determina, inevitabilmente, il dilatarsi del novero delle circostanze “stressogene”, in quanto tali lesive della salute del lavoratore.
E’, quindi, un campo d’indagine sempre in continuo divenire quello entro cui vanno condotte sia, in via preliminare, la valutazione del rischio stress, sia, successivamente, la classificazione degli interventi in termini di prevenzione primaria, secondaria e terziaria (da attuare in conseguenza, rispettivamente, dell’orientamento al contrasto delle fonti, della finalità di gestione e di impedimento delle situazioni, della focalizzazione sulla gestione negativa dello stress che si è già manifestato).
Rimane comunque fermo che, così come lo stress, anche il burnout rileva, ai fini lavoristici, soltanto qualora tragga origine da fattori propri del contesto occupazionale ed estranei a dinamiche della vita privata, soprattutto familiare; non è, quindi, infondato ritenere che la novità sia di maggior pregio (non già sul piano strettamente giuridico il quale, per ora, resta del tutto invariato, ma) perché, essenzialmente, recepisce ed estende il consolidato indirizzo scientifico in materia di processi stressogeni cronici lavorativi con esito patologico.
Ciò in disparte, nessun dubbio, dall’entrata in vigore della nuova classificazione, in merito all’obbligo di valutare e gestire le fonti e le situazioni potenzialmente sfocianti nella sindrome da burnout; il che, evidentemente, a tutela di dignità e produttività del lavoro, della salute del singolo, così come del benessere aziendale.
L’articolo disponibile anche qui.

Al via il bando #Conciliamo

Con comunicato dello scorso 26 agosto, la Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le politiche della famiglia ha pubblicato il bando #Conciliamo.
Si tratta di un’iniziativa rivolta ad imprese, società cooperative o soggetti collettivi con almeno 50 dipendenti a tempo indeterminato nel territorio nazionale, per finanziare l’avvio o la prosecuzione di progetti di welfare aziendale in tema di conciliazione dei tempi di vita e lavoro.
Le proposte potranno riguardare, in via esemplificativa, misure di flessibilità oraria e organizzativa (quali part – time, permessi o congedi), promozione e sostegno della natalità e della maternità, servizi di supporto alle famiglie (ad esempio, asili nido o scuole dell’infanzia aziendali), tutela della salute dei dipendenti (anche attraverso specifici programmi di prevenzione adottati dai datori di lavoro).
Le domande dovranno essere inoltrate, insieme alla documentazione prescritta dal bando stesso, entro il 15 ottobre 2019.
Per ulteriori informazioni clicca qui
Per leggere il bando completo clicca qui

Giovanni Battista Benvenuto nominato Presidente della Fondazione “I Pomeriggi Musicali”

Giovanni Battista Benvenuto è stato nominato Presidente, nonché membro del Consiglio di
Amministrazione della Fondazione “I pomeriggi musicali”, prestigioso incarico ricevuto dalla Regione Lombardia.

Lexellent nel Report pubblicato da Top Legal

Top Legal ha pubblicato il report annuale sui migliori professionisti e studi legali che si occupano di Diritto del Lavoro
Il report riporta come Lexellent sia “conosciuto sia per la sua esperienza in contenzioso, che per la consulenza straordinaria/M&A e in diritto sindacale e delle relazioni industriali. Il mercato ne stima il pragmatismo dei professionisti, capaci di rimanere vicini alle esigenze commerciali dei clienti”.
Menzione anche per Giulietta Bergamaschi a cui si riconosce “una conoscenza approfondita della realtà aziendale ed è in grado di ragionare sempre sulla soluzione più adatta”.

Giulietta Bergamaschi partecipa a Global Inclusion – Bologna 11 Settembre 2019

L’avvocato Giulietta Bergamaschi, nell’ambito di Global Inclusion, l’iniziativa senza fini di lucro e senza fede politica costituita con l’intenzione di valorizzare il contributo delle politiche di inclusione all’interno delle aziende come leva competitiva per lo sviluppo delle organizzazioni e del Paese, interverrà al panel dal titolo: “L’educazione inclusiva nelle aziende” che si terrà il giorno 11 settembre dalle ore 14:40 alle ore 15:40
Conduce: Alberto Fedel
Interverranno:
Claudia Tondelli – Senior Manager HR & Stewardship – Kohler
Igor Šuran – Direttore Esecutivo – Parks
Giovanna Zacchi – Referente attività di Responsabilità Sociale – Bper Banca
Vincenza Belfiore – Director – Azimut Wealth Management
Marco Bressan – Head of People & Culture Italia e Slovenia – Primark
Carla Maria Tiburtini – HR Business Partner for Commercial, Program & Project Management and Communications and Diversity Leader – Avio Aero a GE Aviation Business
Giulietta Bergamaschi – Managing Partner – Lexellent
Per iscrizioni e ulteriori informazioni: https://www.global-inclusion.org/focus-industry.php

Lexellent partecipa a Global Inclusion

SAVE THE DATE! Bologna, 11 settembre 2019 – Lexellent parteciperà a @Global Inclusion in qualità di sponsor.

L’evento, di cui Lexellent condivide principi e valori, è uno spazio di responsabilità sociale per imprese, associazioni non profit, istituzioni, scuole e università che scelgono la strada dell’inclusione.

A breve riceverete nuove informazioni! www.global-inclusion.org

 

Trasparenza e prevedibilità delle condizioni di lavoro dopo la Direttiva UE

Su Guida al Lavoro –  Il Sole24Ore, l’approfondimento normativo a firma della managing partner di Lexellent Giulietta Bergamaschi, sulla Direttiva UE 20 giugno 2019 n. 1152, in vigore dal prossimo 31 luglio 2019.

***

Il legislatore europeo ritorna sul tema della trasparenza delle condizioni di lavoro, in linea con i radicali mutamenti economici degli ultimi anni, che hanno ampliato le esigenze di stabilità nel mondo del lavoro; la direttiva, il cui recepimento segnerà l’abrogazione della n. 533/91, oltre a ridisegnare i confini dell’obbligo informativo gravante sulla parte datoriale, detta le nuove prescrizioni minime indispensabili a garantire la prevedibilità delle condizioni contrattuali da parte del lavoratore.
L’articolo completo è disponibile, per gli abbonati, sul portale di Guida al lavoro.

Lexellent con Saes Getters per il contratto di prossimità di Avezzano

Lexellent con la managing partner Giulietta Bergamaschi e la senior associate Hulla Bisonni, ha supportato Saes Getters SpA, società italiana leader nel campo dei prodotti e delle soluzioni richieste per una grande varietà di applicazioni tecnico/scientifiche ed industriali in cui sono necessarie condizioni di vuoto e gas ultra-puri, nelle fasi prodromiche alla sottoscrizione del contratto di prossimità per l’unità produttiva di Avezzano in accordo con la RSU e le OO.SS. provinciali FIM-CISL e UIM-UILM.
L’intesa, siglata in esecuzione delle deroghe conferite dal legislatore, è stata raggiunta dalle parti al fine di ottenere, attraverso una maggiore flessibilità organizzativa e produttiva, un incremento di competitività e di migliore occupazione dell’unità produttiva, indispensabile per far fronte alle richieste del mercato, con ciò derogando alla disciplina del Decreto Dignità e del CCNL Metalmeccanica Aziende Industriali in tema di contratto a tempo determinato.
Tale accordo riguarda i dipendenti assunti con contratto a tempo determinato e i lavoratori impiegati con contratto di somministrazione presso l’unità produttiva abruzzese, che nel complesso occupa più di 200 persone.
Il contratto, che è stato siglato dalle parti sociali lo scorso 18 luglio, ha durata triennale, dal 1° agosto 2019 al 31 luglio 2022.
La notizia è stata ripresa da:

Burnout lavorativo. Perché l’azienda deve combatterlo e prevenirlo

L’ultimo editoriale del Prof. Francesco Bacchini, per il Quotidiano di IPSOA, parla di burnout lavorativo. Cerchiamo di capire meglio di cosa si tratta.

Sentimenti di esaurimento o esaurimento energetico. Maggiore distanza mentale dal proprio lavoro, negativismo o cinismo. Ridotta efficacia professionale. Sono le tre dimensioni principali del burnout, incluso quale “fenomeno professionale” nell’undicesima revisione della classificazione internazionale delle malattie da parte dell’organizzazione mondiale della sanità, in vigore dal 2022. Il burnout si pone, in modo esplicito, quale effetto del fallimento e dell’insuccesso nella gestione dello stress lavorativo, che si è cronicizzato, diventando irreversibile. Rilevare le disfunzioni nell’organizzazione del lavoro e gestirle è solo un primo passo per l’azienda. Quali sono gli altri?

Secondo la letteratura scientifica propria del settore della psicologia e della psichiatria sociale, declinate in chiave lavoristica, il burnout è l’esito patologico di un processo stressogeno cronico che interessa, in varia misura, diverse tipologie di operatori e di professionisti quotidianamente e ripetutamente impegnati o, più esattamente, compromessi ed emotivamente coinvolti in attività lavorative che implicano relazioni interpersonali.
 
Nell’accezione di cui sopra, il termine burnout, letteralmente bruciato (o bruciarsi), consumato (o consumarsi), ricomprende manifestazioni psicologiche e comportamentali quali fenomeni di affaticamento, logoramento, esaurimento emotivo, depersonalizzazione, ridotta realizzazione personale e improduttività lavorativa, ma anche una costellazione di altri sintomi come somatizzazioni, apatia, eccessiva stanchezza, risentimento, infortuni, connessi, usualmente, allo svolgimento di attività professionali a carattere sociale, più precisamente all’esecuzione di tutte quelle occupazioni che si sostanziano in mansioni di aiuto, ascolto e cura (helping professions).
 
Gli studi e le ricerche più significativi in materia di burnout hanno, infatti, riguardato gli operatori (medici e infermieri) dei reparti psichiatrici, dei pronto soccorso, della terapia intensiva, dei reparti oncologici (o di quelli in cui si assistono i malati di Aids) o, comunque, dei reparti e degli ambulatori per patologie croniche e invalidanti, ma anche gli operatori dei servizi sociali, gli psicologi, i pedagogisti, i docenti degli istituti scolastici, gli educatorie in genere tutti coloro che operano a stretto contatto con soggetti disadattati in contesti sociali degradati, fino ad arrivare agli agenti delle forze dell’ordine, ai vigili del fuoco e agli operatori del volontariato e ciò in quanto il contatto con un’utenza bisognosa di protezione, sofferente, emarginata, comunque problematica, è maggiormente coinvolgente e carico di emotività psichicamente traumatica.
 
Al netto dei fattori soggettivi e delle assai mutevoli caratteristiche personali, al di là della capacità di resistenza alle frustrazioni e di adozione di più o meno efficaci strategie di copying (adattamento), il collasso fisico e mentale a cui, progressivamente, approda il burnout seguendo le quattro dimensioni dell’esaurimento emotivo, della spersonalizzazione, del sentimento di frustrazione e della perdita della capacità di controllo professionale, una volta spogliato del coinvolgimento emotivo tipico delle professioni d’aiuto e rivestito dei panni più larghi del deterioramento dell’impegno e delle emozioni associati generalmente al lavoro, nonché della capacità di adattamento professionale, profilando una sintomatologia da stress potenzialmente riscontrabile in qualsiasi organizzazione di lavoro, configura un rischio psicosociale di portata generale.
 
Si ritiene, infatti, che la sensazione di inaridimento emotivo, di esaurimento, di svuotamento e perdita delle proprie energie e risorse in relazione al proprio lavoro, la sensazione di “non riuscire più a farcela”, a cui segue, prima, un atteggiamento di distacco, cinismo, ostilità, aggressività e, poi, il crollo dell’autostima determinato dalla mancata realizzazione delle proprie aspettative e dalla sensazione di inadeguatezza nello svolgere il proprio ruolo, con apatia, perdita della capacità di controllo nei confronti della propria attività professionale e riduzione del senso critico che determina una errata attribuzione di significato alla sfera lavorativa, possa essere rilevabile in ogni ambito occupazionale.
 
Del resto, analizzando le cause più frequenti del disadattamento da burnout, a partire dal sovraccarico di lavoro (con richieste lavorative così elevate da esaurire le energie individuali e non rendere possibile il recupero), dal senso di impotenza, dalla mancanza di controllo (percezione di avere insufficiente potere o autorità sulle risorse necessarie per svolgere il proprio lavoro in modo efficace), dal riconoscimento inadeguato per il lavoro svolto, dalla mancanza di senso di comunità (quando viene meno il sostegno, la fiducia reciproca e il rispetto), per arrivare all’assenza di equità nell’ambiente di lavoro (in relazione all’assegnazione dei carichi di lavoro, della retribuzione, dei premi, delle promozioni e dell’avanzamento di carriera) e al conflitto di valori all’interno del contesto lavorativo circa le scelte operate a livello organizzativo, è semplice constatarne la trasversalità rispetto a ogni attività lavorativa e a ogni organizzazione aziendale.
 
Poiché nella condizione di burnout convivono svariati indizi: psicosomatici come l’insonnia, psicologici come la depressione, ma anche somatici, espressione del deterioramento del benessere fisico che determina l’insorgenza di patologie varie come: ulcera, cefalea, disturbi cardiovascolari, difficoltà sessuali, ecc., si è consolidato nella letteratura scientifica il suo inserimento fra le sindromi, ovvero la sua collocazione all’interno di quell’insieme di sintomi e segni clinici che costituiscono le manifestazioni di una o di diverse malattie, la cui eziologia distintiva è rappresentata dallo stress lavorativo.
 
Il disagio vissuto nella dimensione professionale dai soggetti affetti da burnout, si trasla poi facilmente anche sul piano della devianza personale, esponendoli a un rischio elevato per quanto riguarda l’abuso di alcol, di sostanze psicoattive e, finanche, per il compimento di atti autolesionistici che possono arrivare al suicidio.
 
Così, al cospetto e nel solco, vincolante, di una definizione talmente ampia e con una fortissima vocazione sociale da risultare onnicomprensiva, giacché, ex art. 2, co 1, lett. o), D.lgs. n. 81/2008, per salute (sul lavoro) deve intendersi uno “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità”, il fenomeno del burnout, determinando l’esposizione del prestatore a pericoli per la salute discendenti da situazioni di stress, evidentemente correlate al lavoro, deve essere adeguatamente e specificamente valutato dal datore di lavoro, “secondo i contenuti dell’accordo europeo dell’8 ottobre 2004” così come impone l’art. 28 del decreto sopra richiamato, “a far data dal 31 dicembre 2010”, utilizzando le indicazioni metodologiche contenute nella circolare del Ministero del lavoro del 18 novembre 2010 (e nel manuale Inail sulla valutazione e gestione del rischio stress lavoro-correlato del 2011 aggiornato nel 2017).
 
L
’inserimento dell’obbligo di valutazione del rischio da stress (con l’opinabile esclusione delle fattispecie di mobbing) collegato al lavoro, infatti, non è altro che l’inevitabile risultato di un percorso sociale volto a valorizzare sempre di più l’interazione tra le condizioni organizzativo-ambientali e con la salute e la dignità del lavoratore.
 
L’accordo europeo, integralmente recepito dall’accordo interconfederale 9 giugno 2008, definisce lo stress lavoro-correlato come “una condizione, accompagnata da sofferenze o disfunzioni fisiche, psichiche, psicologiche o sociali, che scaturisce dalla sensazione individuale di non essere in grado di rispondere alle richieste o di non essere all’altezza delle aspettative […]. Lo stress non è una malattia, ma una situazione prolungata di tensione che può ridurre l’efficienza sul lavoro e può determinare un cattivo stato di salute”: in tale definizione, rientra, ovviamente a pieno titolo, anche la fattispecie del burnout.
 
Pur non essendo una malattia, lo stress funge da “agente patogeno” in quanto espressione di “disfunzioni dell’organizzazione del lavoro (costrittività organizzative)” relativamente all’insorgenza di malattie professionali inserite nella lista II – “malattie la cui origine lavorativa è di limitata probabilità”, dell’elenco delle malattie professionali (tabellate) per le quali è obbligatoria la denuncia/segnalazione da parte dei medici, ai sensi dell’art. 139 del d.p.r. 1124/1965, all’Inail, all’ITL e all’ASL/ATS (l’ultimo aggiornamento dell’elenco di tali malattie è contenuto nel decreto del Ministero del lavoro del 10 giugno 2014).
 
Si tratta di due classificazioni di patologie psichiche e psicosomatiche: il disturbo dell’adattamento cronico (con ansia, depressione, reazione mista, alterazione della condotta e/o della emotività, disturbi somatoformi) e il disturbo post-traumatico cronico da stress.
 
La denuncia delle malattie di cui sopra quale esito patologico di un processo stressogeno cronico correlato al lavoro, già da tempo esplicitamente possibile, riceverà significativa accelerazione in conseguenza dell’inclusione del burnout nell’11a revisione della classificazione internazionale delle malattie (ICD-11) da parte dell’OMS (organizzazione mondiale della sanità), datata 28 maggio 2019 (che entrerà però in vigore nel gennaio del 2022), quale “fenomeno professionale” (per la verità il burnout era già stato incluso nella revisione precedente, ICD-10, all’interno della stessa categoria ma con una definizione meno dettagliata).
 
Pur non essendo classificato come malattia o condizione di salute (condizione medica), il burnout è descritto nel capitolo: “Fattori che influenzano lo stato di salute o il contatto con i servizi sanitari”, all’interno del quale vengono incluse le cause per cui le persone si rivolgono al sistema sanitario.
 
In linea con la proposta ricostruzione, l’OMS definisce il burnout “una sindrome concettualizzata come conseguenza dello stress cronico sul posto di lavoro che non è stato gestito con successo”.
 
Nella definizione offerta dall’OMS il burnout si pone, dunque, in modo esplicito, quale effetto del fallimento, dell’insuccesso nella gestione dello stress lavorativo, che, conseguentemente si è cronicizzato divenendo irreversibile.
 
Tale definizione, perfettamente in linea con la letteratura scientifica, ripropone la centralità del processo di gestione aziendale dello stress correlato al lavoro ossia, innanzitutto, la sua valutazione (preliminare e approfondita), poi la classificazione degli interventi di gestione del rischio stress in termini di prevenzione primaria, secondaria e terziaria, da attuare in conseguenza, rispettivamente, dell’orientamento al contrasto delle fonti, della finalità di gestione e di impedimento delle situazioni, della focalizzazione sulla gestione negativa dello stress che si è già manifestato.
 
Anche in relazione all’individuazione degli elementi descrittivi del burnout l’OMS, seppur in modo sintetico, conferma la caratterizzazione proposta dalle ricerche epidemiologiche, evidenziando tre dimensioni principali: sentimenti di esaurimento o esaurimento energetico; maggiore distanza mentale dal proprio lavoro, così come sentimenti di negativismo o cinismo relativi al proprio lavoro; ridotta efficacia professionale.
 
Ricordato che, così come lo stress, anche il burnout si riferisce specificamente ai fenomeni che si manifestano nel contesto occupazionale e non dovrebbe essere applicato per tracciare esperienze di inaridimento emotivo, di esaurimento, di svuotamento, insorgenti fuori dal rapporto di lavoro in altri ambiti della vita, soprattutto familiare, a dispetto della comunicazione mediatica evidentemente attratta dalla connessione indiretta, fra stress lavorativo e malattia psicosociale, la novità è più di forma che di sostanza, più di indirizzo scientifico che di diretta ricaduta sul piano strettamente giuridico il quale, per ora, resta del tutto invariato.
 
Comunque sia, le fonti e le situazioni che possono determinare la sindrome da burnout aspettano solo di essere valutate prima e gestite poi: dignità e produttività del lavoro se ne gioveranno largamente e con esse la salute del singolo così come il benessere aziendale.

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DL Crescita, si parte. Aziende, Pa e studi legali testano le novità – Italia Oggi-

Giulietta Bergamaschi, managing partner di Lexellent, è stata sentita da Antonio Ranalli relativamente alle novità introdotte dal Decreto Crescita in cui ha spiegato cos’è il contratto di espansione e quali sono le regole per le aziende per poter accedere a questo tipo di incentivo.

….

Sul fronte lavoro, il DL Crescita abroga i contratti di solidarietà, mentre, tra gli ammortizzatori sociali, introduce il contratto di espansione. «Il legislatore ha eliminato un ammortizzatore strutturale – i contratti di solidarietà espansiva – che era a disposizione di un ampia platea di datori di lavoro, per sostituirla con una misura in via sperimentale (anni 2019 e 2020), destinata a un più ristretto pubblico di imprese», spiega Giulietta Bergamaschi, managing partner di Lexellent. «Il contratto di espansione è destinato, infatti, a imprese con un organico superiore a 1.000 unità lavorative che vogliano intraprendere un processo finalizzato al progresso e allo sviluppo tecnologico e che per fare ciò abbiano necessità di razionalizzare le competenze professionali in organico, di assumere nuove professionalità e di fare a meno di altre. Le nuove assunzioni mirano al ricambio generazionale all’interno dell’organico aziendale, dando la possibilità di inserimento ai tanti giovani in cerca di lavoro. Visto il requisito in termini di organico aziendale, saranno però solo le grandi imprese, e non anche quelle medio-piccole che in Italia sono la maggior parte, a poter contare sugli incentivi messi a disposizione dal nuovo istituto per il caso in cui si affrontino percorsi di ristrutturazione e riorganizzazione aziendale. La misura prevede inoltre un piano di esodo per alcuni dipendenti che hanno maturato i requisiti richiesti (e cioè che si trovino a non più di 60 mesi dal conseguimento del diritto alla pensione). Per l’accesso a tali benefici sono previsti limiti complessivi di spesa per cui, esauriti i fondi a disposizione da qui al 2021, le domande non saranno più prese in considerazione dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali».
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Lexellent Summer Party

Ieri sera presso lo Studio Lexellent si è tenuto il nostro consueto Summer Party, aperto alla squadra, ai clienti, agli amici. Un momento di festa in un clima “easy”, come piace noi, ma sempre con uno sguardo a ciò che accade intorno.

Per questa occasione, abbiamo coinvolto l’associazione WeWorld Onlus, ospitato la magnifica mostra fotografica di Isabella Balena dal titolo “Effetti Collaterali – quando le donne non si danno per vinte”, e concluso con una raccolta benefica a sostegno dei progetti in difesa di donne e bambini, in Italia e nel Mondo.
 
Vogliamo ringraziare tutti per aver partecipato numerosi, per aver risposto calorosamente alla raccolta fondi a sostegno di una missione importante, ma sopratutto per aver condiviso con noi il momento di festa e aver contribuito a renderla speciale.
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Licenziamento illegittimo per cui spetta la sola tutela risarcitoria quando la condotta che ha determinato il licenziamento non coincide con nessuna fattispecie prevista nel CCNL – Diritto 24

Commento alla sent. Cass. civ., sez. lav., n. 13533/2019 (dep. il 20.5.19).
a cura dall’avvocato Giorgio Scherini, partner di Lexellent
“In presenza di licenziamento ritenuto illegittimo per difetto di proporzionalità della sanzione espulsiva (…) spetta la sola tutela risarcitoria ove la condotta in addebito non coincida con alcuna delle fattispecie per le quali i contratti collettivi ovvero i codici disciplinari applicabili prevedono una sanzione conservativa“.
Questo il principio di diritto recentemente ribadito con la pronuncia n. 13533/19, resa dalla Corte di Cassazione (e depositata lo scorso 20 maggio) ad esito dei fatti di causa così sintetizzati.
Un dipendente di un noto istituto di credito, nell’espletamento delle mansioni di cassiere allo sportello, si rendeva autore di due distinti episodi, a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro, consistiti nell’andare in escandescenze nei confronti della clientela.
A ciò faceva seguito l’instaurazione di un procedimento disciplinare conclusosi con la sanzione del licenziamento per giusta causa.
Rigettata l’impugnazione del licenziamento sia in fase sommaria del rito c.d. “Fornero” che nella successiva fase di opposizione, la Corte d’Appello di Brescia, ritenuta la sanzione espulsiva comminata dal datore di lavoro sproporzionata all’entità degli addebiti mossi al dipendente, dichiarava il rapporto lavorativo risolto a far data dal licenziamento, condannando la Società al pagamento dell’indennità risarcitoria di cui al vigente art. 18, comma 5, St. lav.
L’istituto di credito proponeva, quindi, ricorso per cassazione, lamentando che il Giudice di seconda istanza avesse escluso la giusta causa del provvedimento disciplinare, sminuendo, specie sotto il profilo soggettivo, la portata della vicenda in esame.
Tale doglianza, tuttavia, è stata ritenuta infondata dalla suprema Corte: ciò in quanto – rammenta la Cassazione -, perché in sede di legittimità possa censurarsi la violazione delle clausole generali di “giusta causa” del licenziamento e “proporzionalità” della sanzione, è necessario che il ricorrente individui gli standard comportamentali concretamente trascurati dal Giudice di merito nella valutazione circa la fondatezza e la congruità del provvedimento espulsivo.
Non sembra, tuttavia, ad avviso dei Giudici di ultima istanza, che la Corte d’appello abbia errato nel ponderare le irregolarità commesse dal lavoratore.
Piuttosto, il Giudice di seconde cure, ritenuti i fatti occorsi gravi fino a risultare incompatibili con le più elementari regole della buona educazione, ha però escluso la colpa grave del ricorrente, alla luce del più ampio contesto della problematicità dei rapporti con la datrice di lavoro, della particolare situazione di malessere nella quale versava il lavoratore e, soprattutto, dell’assenza di precedenti disciplinari nell’ambito di un rapporto di lavoro durato circa ventisei anni.
In estrema sintesi, il Giudice di merito, pur riconoscendo il fatto materiale oggetto dell’addebito, ha però escluso che il licenziamento fosse proporzionato e sorretto da giusta causa, così concludendo per l’applicazione della tutela indennitaria ex art. 18, comma 5, St. lav.
Proprio tale ultimo capo della decisione – la concessione del rimedio pecuniario in luogo della reintegrazione – è stato oggetto di controricorso da parte del lavoratore.
Quest’ultimo deduce a tal riguardo che, ai fini della tutela reale, non è necessario che la condotta oggetto dell’addebito dell’addebito sia specificamente e tassativamente sanzionata dal contratto collettivo con una misura conservativa, essendo consentito al giudice di valutare la sussumibilità della stessa anche in fattispecie generalmente formulate; in particolare, la difesa del lavoratore osserva che altra interpretazione del predetto art. 18 condurrebbe a possibili iniquità, poiché eventuali genericità dei contratti collettivi in tema di sanzioni disciplinari priverebbero il lavoratore della tutela di reintegrazione, così operando a suo detrimento.
Tale argomento, tuttavia, ad avviso del Collegio, non coglie nel segno: la valutazione circa i rischi di un’eventuale disparità di trattamento nei termini appena prospettati, infatti, non compete in alcun modo alle parti processuali, costituendo, invece, espressione di una libera scelta del Legislatore (del medesimo art. 18), fondata sulla valorizzazione e il rispetto dell’autonomia collettiva in materia.
Piuttosto, opina la Corte, la questione in oggetto va risolta in continuità all’orientamento giurisprudenziale al riguardo consolidato (v. Cass. n. 25534 del 12.10.2018, Cass. n. 26013 del 17.10.18, Cass. n. 18823 del 16.7.2018, Cass. n. 13178 del 25.5.2017, Cass. 23669 del 6.11.2014).
Segnatamente, alla luce di tale indirizzo ermeneutico, è da ritenersi che, a fronte di un licenziamento disciplinare sproporzionato rispetto all’infrazione commessa, qualora il contegno rimproverato al lavoratore non sia espressamente sanzionato con misura conservativa dal ccnl di categoria o dai regolamenti disciplinari debba escludersi la tutela reale ed applicarsi unicamente quella indennitaria c.d. “forte”, posto che il caso appena descritto rientrerebbe tra le “altre ipotesi” di cui all’art. 18, comma 5, St. lav.
Secondo questa linea interpretativa, in ultima analisi, perché l’accertamento giudiziale dell’illegittimità del licenziamento possa approdare ad un ordine di reintegra nei confronti del datore, è necessario che, ferma la sussistenza del fatto contestato nella sua dimensione storica, la contrattazione collettiva sanzioni espressamente il medesimo accadimento con una misura di carattere conservativo.
Con la sentenza in commento, i Giudici di legittimità rimettono, dunque, all’autonomia negoziale delle parti sociali il potere di delineare l’apparato sanzionatorio in sede disciplinare, nella misura in cui individuano il discrimen fra tutela reale o pecuniaria ex art. 18 St. lav. proprio nella circostanza che il fatto accaduto sia stato, o meno, tipizzato in seno ai contratti collettivi o ai codici disciplinari vigenti.
La pronuncia in esame, in linea con l’orientamento consolidato già descritto, mostra, infatti, di aderire ad un’accezione di “fatto contestato”, ai fini dell’art. 18 St. Lav., che non si esaurisce nel solo accadimento materiale, ma va ampliata fino a ricomprendere anche elementi di giuridicità, quali, innanzitutto, la connotazione illecita eventualmente attribuita dalle parti sociali allo stesso episodio.
Non irrilevanti sono le conseguenze scaturenti da siffatta impostazione, specie ipotizzandone le ripercussioni sulla disciplina dei licenziamenti dettata dal D. Lgs. 23/2015 con riferimento ai c.d. “contratti a tutele crescenti”.
A tale proposito, si osservi che la descritta interpretazione del “fatto contestato” di cui all’art. 18 St. Lav. è stata recentemente recepita dalla Corte di Cassazione anche in rapporto al sistema di tutele di cui allo stesso D. Lgs. n. 23: con la recente pronuncia n. 1217 dello scorso 8 maggio, infatti, i Giudici di legittimità hanno elaborato una nozione di “insussistenza del fatto contestato” che comprende “non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare”.
Ciò che ne deriva è, verosimilmente, il rischio di una possibile smentita della ratio legis sottesa al Jobs Act, consistente nell’intenzione di prevedere la reintegrazione nei casi di mancata prova in giudizio del solo fatto “materiale”: aggettivo, questo, espressamente inserito dal Legislatore dell’art. 3, comma 2, D. Lgs. 23/2015 proprio al fine di circoscrivere la portata della tutela reale.

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Giudizio medico alla mansione, limitazioni e prescrizioni, disabilità, accomodamenti ragionevoli e licenziamento discriminatorio

Pubblichiamo di seguito l’articolo del Prof. Francesco Bacchini su Diritto24. Il contributo torna sul tema del diritto al lavoro dei disabili focalizzando sulla nuova disciplina antidiscriminatoria europea.
Come si è già avuto modo di osservare in questa sede (cfr. “L’inserimento lavorativo delle persone con disabilità“, pubblicato il 14.5.19), il tema dell’inclusione lavorativa dei portatori di disabilità condiziona il rapporto di lavoro nella sua interezza, informando la disciplina di tutte le sue fasi: instaurazione (tramite le previsioni della L. n. 68/1999 in materia di collocamento obbligatorio); esecuzione (mediante le garanzie, di cui infra, dirette all’effettivo mantenimento del soggetto disabile – anche per patologie sopravvenute – in azienda); scioglimento (per le tutele avverso il licenziamento discriminatorio intimato in ragione della sola disabilità).
La necessità di assicurare il pieno inserimento del lavoratore disabile nella comunità aziendale sta, anzitutto, alla base del nuovo Diritto antidiscriminatorio europeo in materia di occupazione e condizioni di lavoro.
La Direttiva 2000/78 CE, infatti, ha imposto ai datori di lavoro l’obbligo di adottare soluzioni ragionevoli per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sempre che tali misure non implichino un onere finanziario sproporzionato.
Tale vincolo, dapprima ignorato dal legislatore italiano, è stato in seguito recepito (anche sulla scorta della condanna inflitta dalla Corte di giustizia nella C-312/11) tramite l’introduzione, nel corpo dell’art. 3 del D. Lgs. n. 216/2003, del c. 3-bis, che così recita: “al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori”.
Conseguentemente, alla luce della novella legislativa, il datore di lavoro è tenuto a fronteggiare la condizione di disabilità del dipendente adottando ogni accorgimento ragionevole di tipo organizzativo (ad es., la modificazione delle mansioni, la riduzione dell’orario o dei ritmi di lavoro, la trasformazione del contratto di lavoro da full-time in part-time) o di tipo tecnico (ad es., la dotazione di peculiari strumenti o attrezzature di lavoro, la sistemazione delle postazioni lavorative e l’abbattimento delle barriere architettoniche) che consentano, se non di superare, almeno di mitigare i limiti scaturenti dalla patologia inabilitante del lavoratore (si veda sull’argomento il punto 10 dell’Accordo Interconfederale Confindustria, CGIL, CISL, UIL del 12/12/2018 “Salute e sicurezza. Attuazione del patto per la fabbrica”).
Paradossalmente tale obbligo risulta maggiormente rilevante e impegnativo proprio a fronte della c.d. “disabilità sopravvenuta”, ossia nel caso in cui la “duratura” menomazione fisica, mentale, intellettuale o sensoriale del lavoratore sia intervenuta in costanza di rapporto ma non sia scaturita dall’inadempimento da parte del datore di lavoro degli obblighi posti a tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori (in questo caso, ex art. 1, c. 7, L. n. 98/1999, il datore è tenuto a garantire la conservazione del posto di lavoro a chi sia divenuto disabile in conseguenza di infortunio sul lavoro o malattia professionale).
La giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, infatti, in ossequio alla nozione europea di disabilità ricavabile dalla Direttiva 2000/78 CE e alla consolidata interpretazione della Corte di Giustizia Europea, ritiene che la malattia di lunga durata, non breve e transitoria (fra le tante, CGUE, 1 dicembre 2015, C-395/15) con attitudine ad incidere e ostacolare la vita professionale per un lungo periodo, integri, indipendentemente dal giudizio e dal grado di invalidità (per la computabilità nella quota di riserva ex l. n. 68/1999), la nozione di handicap ovvero di disabilità (Trib. Milano, sent. 11/02/2013 e Trib. Bologna ord. 18/06/2013) con ciò imponendo l’obbligo della previa verifica, a carico del datore di lavoro, circa la possibilità di adattamenti ragionevoli nei luoghi di lavoro ai fini della legittimità del rerecesso (Cass. Civ. Sez. Lav., 19/3/2018, n. 6798), conseguendone che laddove il datore di lavoro non provi di averli adottati (o non dimostri l’impossibilità di metterli in atto perché economicamente non proporzionati alle dimensione e alle caratteristiche dell’impresa o non rispettosi delle condizioni di lavoro dei colleghi dell’invalido, Cass. Civ. Sez. Lav., 26/10/2018, n. 27243), il licenziamento irrogato a un lavoratore disabile per sopravvenuta inidoneità psico-fisica allo svolgimento delle mansioni, deve ritenersi ingiustificato per violazione del principio di non discriminazione (Trib. Pisa, 16/04/2015).
La questione della sopravvenuta malattia di lunga durata che, compromettendo in modo persistente lo stato psico-fisico, integra la condizione di disabilità, necessariamente intercetta la disciplina dell’obbligo di sorveglianza sanitaria (ovvero, ex art. 2, lett. m), l’insieme degli atti medici finalizzati alla tutela dello stato di salute e sicurezza dei lavoratori, in relazione all’ambiente di lavoro, ai fattori di rischio professionali e alle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa), di cui al T.U.S.L. e, segnatamente, quella del giudizio medico relativo alla mansione specifica di lavoro.
Trattasi di questione assai rilevante se solo si riflette sui, preoccupanti, dati 2018 dell’Osservatorio nazionale sulla salute nelle regioni italiane secondo i quali circa il 40% della popolazione, ossia 24 milioni di italiani, sono affetti da malattie croniche o multi-croniche (poco più della metà); secondo stime di proiezione nel 2028 nella classe di età 45-74 anni, quelli affetti: da ipertensione saranno 7 milioni, da artrosi/artrite 6 milioni, da osteoporosi più di 2 milioni e mezzo, da diabete 2 milioni, da cardiopatie 1 milione abbondante. Secondo altri dati meno recenti (PH Work – Promoting health work for people whit chronic illness, 2011-2013) quasi il 25% della popolazione in età lavorativa è affetta da almeno una malattia cronica, con proiezioni in deciso aumento rispetto agli over 55, ossia la fascia di popolazione economicamente attiva maggiormente soggetta al rischio di idoneità solo parziale o discontinua al lavoro.
Al cospetto di tale situazione, pertanto, il giudizio di inidoneità o di idoneità parziale con limitazioni e/o prescrizioni, permanente (e non temporaneo) alla mansione lavorativa (ricorribile, sia dal lavoratore che dal datore, entro 30 giorni dalla comunicazione, nei confronti della commissione medica dell’ASL) espresso ex art. 41, c. 5, T.U.S.L., dal medico competente in relazione a patologie croniche durature, finisce fatalmente per sancire lo stato di disabilità del prestatore e con esso l’insorgenza da parte del datore di lavoro, vincolato ex art. 42 ad attuare le misure sanitarie, dell’obbligo di adottare gli accomodamenti ragionevoli di cui all’art. 3, c. 3-bis, del D. Lgs. n. 216/2003.
L’adempimento di tale obbligo condiziona, infatti, il potere di recesso del datore di lavoro, il quale potrà legittimamente licenziare il lavoratore (per giustificato motivo oggettivo) a fronte della sopravvenuta inidoneità alla mansione per motivi di salute, solo dopo aver adottato tutti gli accomodamenti ragionevoli, oppure dopo aver dimostrato l’inesistenza o l’irragionevolezza, se esistenti, dei possibili adattamenti per comprovata sproporzione degli oneri finanziari necessari per realizzarli: pena la reintegrazione (e il risarcimento del danno) del lavoratore per licenziamento discriminatorio.
Se il giudizio, permanente, di idoneità parziale alla mansione con limitazioni (misure di restrizione, come ad es. l’indicazione di un orario lavorativo ridotto o del divieto di spostare oggetti superiori ad un determinato peso o, ancora, di compiere determinati movimenti) e prescrizioni (terapie e profilassi come ad es. l’indicazione di determinati strumenti o attrezzature di ausilio e supporto o particolari modalità di comportamento lavorativo, tipo pause o interruzioni), frequentemente utilizzata dai medici competenti, finisce sostanzialmente per individuare i ragionevoli accorgimenti, organizzativi e/o tecnici, che permettono alla persona disabile di conservare il posto di lavoro e non essere discriminata, quello di inidoneità impone, invece, di adibire, ove possibile, il lavoratore a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori (disponendone, se necessario vista l’obbligatorietà della misura, il trasferimento da un’unità produttiva ad un’altra per evidenti ragioni organizzative), garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza.
Siffatta ultima previsione, contenuta all’art. 42 T.U.S.L., costituiva, come noto, una delle principali deroghe al divieto, imposto dall’art. 2103 c.c. nella sua previgente formulazione, di trasferimento del lavoratore a mansioni inferiori, senonché, la riscrittura del dato codicistico disposta dal c.d. “Jobs act” (D. Lgs. 81/2015) ha determinato il venir meno della preclusione in parola.
Il “nuovo” art. 2103 c.c., infatti, contempla oggi sia il trasferimento unilaterale a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore (purché rientranti nella stessa categoria legale), sia (al c. 6) il c.d. “patto di dequalificazione”: accordo, quest’ultimo, da raggiungersi “in sede protetta”, finalizzato a sancire il mutamento peggiorativo delle mansioni e/o della categoria di lavoro, nonché del relativo trattamento retributivo, “nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita”.
Alla luce di quanto sopra, occorre, quindi, delineare i rapporti intercorrenti tra la previsione di cui all’art. 42 T.U.S.L. e l’art. 2103 c.c., per comprendere quale norma, tra le due, sia destinata a prevalere qualora il caso concreto sia sussumibile in entrambe le fattispecie astratte.
In altri termini, occorre chiedersi se, una volta formulato il giudizio, permanente, di inidoneità o di idoneità parziale con accomodamenti “irragionevoli” alla specifica mansione da parte del medico competente, debba necessariamente applicarsi la disciplina dell’art. 42 (sicché al lavoratore spetterebbe il trattamento economico previsto per le mansioni di provenienza), ovvero possa procedersi ad un accordo di dequalificazione ex art. 2103, c. 6, c.c. (con conseguente riduzione della retribuzione).
Ebbene, ai fini della questione appena esposta, sembrerebbe invocabile il principio di specialità (per cui lex specialis derogat generali), quale criterio utile alla soluzione delle antinomie normative; principio che condurrebbe all’applicazione della norma speciale (in concreto, quella prevista dal T.U.S.L.) a scapito di quella generale (codicistica), anche se, in un ottica di rinunzia (con transazione) ex art. 2113 c.c., conciliata in sede protetta, pare, nel caso concreto, del tutto ammissibile anche il “patto di dequalificazione” ex art. 2103, c. 6, c.c.
L’articolo completo disponibile anche qui.

Consentire il pernottamento ad estranei nei locali aziendali è giusta causa di licenziamento

Pubblichiamo di seguito l’abstract dell’approfondimento di Valentina Messana per Il Quotidiano Giuridico di Wolters Kluwer, sul tema del licenziamento per aver consentito ad un estraneo il pernottamento nei locali aziendali.
L’articolo completo è disponibile per gli abbonati a questo link.
Il commento ha ad oggetto la Sentenza della Corte di Cassazione n. 13420 del 2019 che ha confermato la pronuncia n. 732/2017 della Corte d’ Appello di Palermo. I giudici siciliani, decidendo su rinvio da Cassazione n. 2821 del 217, avevano rigettato il ricorso di un lavoratore licenziato per aver consentito il pernottamento in locali aziendali, ormai in disuso, a persona estranea alla società. La Sentenza in commento, di carattere squisitamente processualistico, non conduce ad alcun ribaltamento del principio di diritto sostanziale affermato all’esito del giudizio di appello. L’intento umanitario e caritatevole non può costituire scriminante risultando la condotta del lavoratore particolarmente grave per il pregiudizio e le responsabilità cui la società è stata esposta.

Renato D’Andrea relatore al convegno “Creazioni d’arte e soluzione in arbitrato delle controversie”

28 Giugno 2019, Biennale di Venezia. L’avvocato Renato D’Andrea tra i relatori al convegno “Creazioni d’arte e soluzione in arbitrato delle controversie” sul tema “Il valore artistico dell’industrial design”.
Si tratterà di una giornata di tavole rotonde rivolte a tutti i protagonisti del mondo dell’arte e dello spettacolo, in cui si affronteranno i temi legati alla tutela delle opere d’arte, della fotografia, dell’industrial design e delle relative controversie, esaminandone i casi più comuni.
Sarà un momento di confronto sul tema dell’arbitrato come valido strumento per la risoluzione delle liti nonché dell’importanza dei soggetti coinvolti, arbitri e istituzioni arbitrali, che considerando l’alto livello tecnico del settore devono assicurare un altrettanto elevata specializzazione nella materia.
Gestisci tu come fare comunicazione.

E’ in corso la richiesta di crediti formativi all’Ordine degli Avvocati di Venezia.
Programma e locandina disponibili qui per il download.

Intelligenza artificiale: l’algoritmo può aiutare la parità in ufficio

Condividiamo di seguito l’intervista a Giulietta Bergamaschi, pubblicata su Economia – Corriere della Sera, in merito all’impatto della digitalizzazione e dell’intelligenza artificiale sul mondo del lavoro, una rivoluzione già in atto che solleva alcune questioni che sarà necessario prevedere e gestire.
La digitalizzazione e l’intelligenza artificiale non impattano solo sulle tecnologie, ma rivoluzionano anche il modo di lavorare, portando sulla scena inedite questioni di gestione del personale e di diritto del lavoro. Fra questi, quali sono i rischi di una maggiore interazione uomo / macchina? «La materia è complessa e bisogna ancora fare luce su tutte le diverse implicazioni – commenta l’avvocata Giulietta Bergamaschi, managing partner dello studio legale Lexellent, specializzato in diritto del lavoro -. Una delle questioni di affrontare, elementari ma con un impatto quotidiano sul lavoro, potrebbe riguardare la responsabilità delle azioni. Dato che i robot hanno una sfera di autonomia decisionale, quando entrano in relazione con i lavoratori assumento iniziative, chi è responsabile delle loro scelte? (…)».
Clicca qui per scaricare l’articolo in formato PDF

L’inserimento nel mondo del lavoro delle persone affette da disabilità – La L. 23 marzo 1999, N. 68 a 20 anni dalla sua emanazione

Pubblichiamo di seguito l’articolo a cura di Giulietta Bergamaschi e Alberto Buson su Diritto24. Il contributo analizza lo stato dell’arte a 20 anni dall’emanazione della Legge 23 marzo 1999 n. 68 “Norme per il diritto al lavoro dei disabili”.
Con la Legge 23 marzo 1999, n. 68 recante “Norme per il diritto al lavoro dei disabili“, si è cercato di superare un sistema normativo, fino a quel momento, a vocazione puramente assistenziale, ponendo le basi per la costruzione di un modello di piena (?) inclusione sociale.
Finalità della legge è, infatti, quella di promuovere l’inserimento e l’integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro, attraverso mirati servizi di sostegno e di collocamento (come, ad esempio, il c.d. “Collocamento mirato” di cui all’art. 2).
Lo scopo che si prefigge il legislatore è, dunque, quello di favorire, anche attraverso la previsione di assunzioni obbligatorie, l’inserimento all’interno delle aziende di persone con disabilità, le quali altrimenti rischierebbero di essere escluse dal mondo del lavoro e di rimanere emarginate dalla nostra stessa società.
Passando ad analizzare i contenuti della norma, si può osservare come all’art. 1, comma 1, vengono individuate le diverse categorie di soggetti interessati all’applicazione delle disposizioni normative in essa contenute.
Per tali persone, così come identificate dall’art. 1, il legislatore prevede, all’art. 2, il c.d. “Collocamento mirato”, intendendo per tale “quella serie di strumenti tecnici e di supporto che permettono di valutare adeguatamente le persone con disabilità nelle loro capacità lavorative e di inserirle nel posto adatto, attraverso analisi di posti di lavoro, forme di sostegno, azioni positive e soluzioni dei problemi connessi con gli ambienti, gli strumenti e le relazioni interpersonali sui luoghi quotidiani di lavoro e di relazione”.
Il Collocamento mirato si concretizza poi attraverso l’istituto delle assunzioni obbligatorie, di cui al successivo art. 3 della legge in esame.
Con tale disposizione normativa, la Legge 68/99 ha previsto per i datori di lavoro, sia privati che pubblici, l’obbligo di assumere i lavoratori appartenenti alle categorie di cui all’art. 1, nella misura che segue:
a) 7% dei lavoratori occupati, se la società occupa più di 50 dipendenti;
b) 2 lavoratori, se la società occupa da 36 a 50 dipendenti;
c) 1 lavoratore soltanto, se la società occupa da 15 a 35 dipendenti.
Al riguardo, si deve precisare che la determinazione del numero di persone affette da disabilità da assumere obbligatoriamente è dato dal computo, tra gli stessi dipendenti, di tutti i lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato (art. 4, L. 68/99). Tra l’altro dal 1° gennaio 2018 è scattato l’ulteriore obbligo per le imprese che occupano da 15 a 35 dipendenti di assumere un lavoratore disabile anche se non vi sono state nuove assunzioni.
Il legislatore, oltre ad istituire servizi mirati di collocamento (art. 6) e disciplinare le modalità delle assunzioni obbligatorie (art. 7), ha poi previsto, nel rispetto dell’art. 33 del Regolamento UE n. 651/2014 della Commissione del 17 giugno 2014, specifici incentivi a favore di quei datori di lavoro che assumono persone affette da disabilità con contratti a tempo indeterminato.
Allo scopo, dunque, di agevolare ulteriormente l’inserimento nel mondo del lavoro di tali persone, l’art. 13 ha concesso una serie di incentivi economici, da calcolarsi sulla retribuzione mensile lorda imponibile ai fini previdenziali, che variano in funzione del grado di riduzione della capacità lavorativa.
Dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 151/2015, gli incentivi di cui possono beneficiare i datori di lavoro che assumono lavoratori disabili sono i seguenti:
• Per l’assunzione a tempo indeterminato di lavoratori disabili con riduzione della capacità lavorativa superiore al 79% –› 70% della retribuzione mensile lorda imponibile ai fini previdenziali, con durata dell’incentivo pari a 36 mesi;
• Per l’assunzione a tempo indeterminato di lavoratori disabili con riduzione della capacità lavorativa tra il 67% e il 79% –› 35% della retribuzione mensile lorda imponibile ai fini previdenziali, con durata dell’incentivo pari a 36 mesi;
• Per l’assunzione a tempo indeterminato di lavoratori con disabilità psichica ed intellettiva con riduzione della capacità lavorativa superiore al 45% –› 70% della retribuzione mensile lorda imponibile ai fini previdenziali, con durata dell’incentivo pari a 60 mesi;
Viene, inoltre, riconosciuta un’agevolazione anche per le assunzioni a tempo determinato di durata non inferiore a 12 mesi di persone affette da disabilità psichica ed intellettiva con riduzione della capacità lavorativa superiore al 45%. In tal caso l’incentivo spetta per tutta la durata del contratto.
Con la Legge di Bilancio 2019, sono state inoltre previste nuove risorse finanziarie destinate a tali incentivi (la L. 30 dicembre 2018, n. 145 con l’art. 1, comma 520, ha disposto infatti che “La dotazione del Fondo per il diritto al lavoro dei disabili di cui all’art. 13, comma 4, della legge 12 marzo 1999, n. 68, è incrementata di 10 milioni di euro per l’anno 2019”).
Dopo una rapida panoramica degli istituti più importanti disciplinati dalla legge in commento, appare doveroso domandarsi se a distanza di 20 anni dalla sua entrata in vigore l’obiettivo di promuovere l’inserimento e l’integrazione lavorativa delle persone affette da disabilità nel mondo del lavoro sia stato effettivamente raggiunto dal legislatore italiano.
In tale quadro, occorre anche considerare che il D.Lgs. n. 151/2015 aveva previsto l’emanazione di uno o più decreti legislativi (da adottarsi entro 180 giorni) con i quali definire specifiche linee guida in materia di collocamento mirato delle persone con disabilità al fine di favorirne l’inserimento lavorativo sulla base di determinati principi quali: i) la promozione di una rete integrata con i servizi sociali, sanitari, educativi e formativi del territorio e con l’INAIL; ii) la promozione di accordi territoriali con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, le associazioni delle persone con disabilità e i loro familiari e con le altre organizzazioni del terzo settore; iii) l’individuazione di modalità di valutazione bio-psico-sociale della disabilità e la definizione dei criteri di predisposizione dei progetti di inserimento lavorativo che tengano conto delle barriere e dei facilitatori ambientali rilevati; iv) l’analisi delle caratteristiche dei posti di lavoro da assegnare, anche con riferimento agli accomodamenti ragionevoli che il datore di lavoro è tenuto ad adottare; v) la promozione dell’istituzione di un responsabile dell’inserimento lavorativo nei luoghi di lavoro, con compiti di predisposizione di progetti personalizzati e di risoluzione dei problemi legati alle condizioni di lavoro (c.d. figura del “Disability manager”); vi) l’individuazione di buone pratiche di inclusione lavorativa.
Ebbene, nonostante la volontà di procedere ad una riforma del collocamento mirato, ad oggi, non sono stati ancora emanati i decreti legislativi attuativi.
Sebbene dai dati dell’Ottava Relazione al Parlamento sul diritto al lavoro delle persone disabili relativa al biennio 2014-2015, presentata dal Ministro del Lavoro e delle politiche sociali il 28 febbraio 2018, emerga rispetto al passato un aumento del numero degli avviamenti effettivi al lavoro con una crescita,fra i contratti stipulati, della quota di quelli a tempo indeterminato, il tasso di occupazione delle persone affette da disabilità continua a rimanere di gran lunga inferiore rispetto a quello dei lavoratori senza disabilità.
Ad oggi, quindi, nonostante la legge preveda a favore delle imprese anche degli importanti incentivi per le assunzioni, la mancata attuazione della riforma del collocamento mirato fa pensare che l’obiettivo prefissato dalla Legge n. 68/99, a distanza di 20 anni, non sia stato affatto raggiunto.
La piena realizzazione degli scopi prefigurati dal legislatore del 1999, dunque, non potrà che passare da un sistema normativo efficacemente e concretamente volto a garantire un utile inserimento del disabile nell’organizzazione aziendale attraverso la scelta del posto di lavoro più adatto alle caratteristiche specifiche del soggetto protetto. Soltanto in tale modo si potrà neutralizzare il più possibile l’handicap e valorizzare completamente la professionalità di tali persone, al pari di ogni altro lavoratore presente in azienda.
L’articolo è disponibile anche qui.

Lavoratori digitali: personaggi in cerca d’autore…e di tutele

L’ultimo editoriale del Prof. Francesco Bacchini, per il Quotidiano di IPSOA, torna sul tema dei lavoratori digitali e in particolare di riders e fattorini telematici, la cui posizione è stata oggetto di una recente normativa regionale nel Lazio e di un accordo aziendale in Toscana.

Sempre sui riders (anche nella più ampia accezione di lavoratori “digitali”) per rilevare (ancora) che non ci siamo. A dimostrarlo due fatti recenti. L’entrata in vigore della legge della regione Lazio n. 4 del 2019 e la stipula di un accordo aziendale per disciplinare il rapporto di lavoro (subordinato) dei “fattorini telematici” in Toscana. La legge regionale, nel promuovere la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori digitali, evidenzia chiari profili di incostituzionalità. L’accordo, nato con l’intento di disciplinare la figura professionale del rider, sembra fallire nei suoi intenti. Diventa allora sempre più urgente un intervento sistematico del legislatore nazionale. In attesa, quale strada è possibile seguire?

La legge della regione Lazio n. 4, del 12 aprile 2019 (in vigore dal successivo 17), tenta di promuovere la tutela della salute e sicurezza dei prestatori nell’ambito del “lavoro digitale”; la contrattazione collettiva locale (provincia di Firenze) firma un accordo aziendale con una neonata impresa di food delivery per disciplinare il rapporto di lavoro (subordinato) dei riders (20 in tutto, per ora), nella speranza che altri imprenditori facciano altrettanto.
 
Insomma, sempre di lavoro “povero” si finisce per parlare di questi tempi: fattorini, autisti, promotori, venditori, comunque bassa manovalanza “digitale”, costantemente in bilico fra subordinazione e autonomia, fra essere o non essere degni di tutela.
Nulla di clamoroso, invero, ma ce n’è abbastanza per scriverne ancora.
Riguardo all’iniziativa legislativa laziale, essa trae origine dalla volontà (tutta politica) di introdurre, in mancanza di una specifica normativa di livello nazionale, alcuni strumenti volti a tutelare la dignità, la salute e la sicurezza dei lavoratori digitali.
Già a fronte di siffatta dichiarazione d’intenti, foriera di svariati problemi in ordine alla ripartizione della potestà legislativa Stato-Regioni, appare necessario soffermarsi, seppur brevemente sulla struttura del testo normativo.
 
Nello specifico, la legge (riecheggiando la “Carta dei diritti fondamentali del lavoro digitale nel contesto urbano della città metropolitana di Bologna) procede ad individuare i lavoratori digitali, quali destinatari delle tutele ivi previste definendoli (art. 2, c. 2), in modo volutamente assai astratto, come coloro che, “indipendentemente dalla tipologia e dalla durata del rapporto di lavoro, offrono la disponibilità della propria attività di servizio all’impresa, di seguito denominata piattaforma digitale, che organizza l’attività al fine di offrire un servizio a terzi mediante l’utilizzo di un’applicazione informatica, determinando le caratteristiche del servizio e fissandone il prezzo”. Il Capo II declina i fondamentali aspetti di tutela (anche) di tali lavoratori, ossia: salute e sicurezza (art. 3); assistenza e previdenza (art. 4); compenso e indennità speciali (art. 5); informativa preventiva in ordine a salute e sicurezza e modalità di esecuzione del rapporto (art. 6); parità di trattamento e non discriminazione nella determinazione del (proprio) rating reputazionale, ossia della customer satisfaction, vale a dire del giudizio valutativo del servizio da parte del cliente finale (art. 7). Chiude il Capo l’apparato sanzionatorio amministrativo pecuniario (da 500 a 2000 €) finalizzato alla repressione degli obblighi di cui sopra (art. 8).
 
Analizzando, più in particolare, i singoli articoli, si evidenzia come, ex art. 3, la Giunta, sentiti la Commissione consiliare competente e il Comitato regionale di coordinamento di cui all’art. 7 del d.lgs. n. 81/2008, individua, con propria deliberazione, le misure dirette a promuovere la tutela della salute e della sicurezza del lavoratore digitale, con il coinvolgimento delle piattaforme digitali, le quali, “nel rispetto della normativa vigente in materia e al fine di garantire al lavoratore digitale la tutela piena e integrale contro gli infortuni nell’attività di servizio”, devono adottare “interventi e misure per la formazione in materia di salute e di sicurezza sul lavoro del lavoratore digitale e, in particolare, sui rischi e danni derivanti dall’esercizio dell’attività di servizio e sulle procedure di prevenzione e di protezione”.
Le stesse piattaforme digitali, inoltre, con oneri a proprio carico, sono tenute a fornire al lavoratore digitale dispositivi di protezione (cd. “DPI”) conformi alla disciplina in materia di salute e di sicurezza sul lavoro, nonché a provvedere alle spese di manutenzione dei mezzi e degli strumenti (spesso, se non sempre, di proprietà dei lavoratori) utilizzati per l’attività di servizio.
 
Importanti (e confuse) sono altresì le prescrizioni contenute nel successivo art. 4, a tenore del quale grava sulle piattaforme digitali l’onere di stipulare un’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali in favore dei lavoratori digitali, per danni cagionati a terzi durante lo svolgimento dell’attività di servizio, nonché quella, non meglio identificata, “per la tutela della maternità e della paternità”, senza franchigia a carico del lavoratore, il quale ha, inoltre, diritto alla tutela previdenziale obbligatoria “secondo quanto disposto dalla normativa nazionale” (presumibilmente in relazione alla specifica e concreta tipologia di rapporto di lavoro stipulato).
 
Altro onere gravante sulle piattaforme digitali meritevole di un breve cenno, è quello relativo alla predisposizione di un’informativa preventiva che illustri al lavoratore digitale:
– i rischi generali ed i rischi specifici connessi alla particolare modalità di svolgimento del lavoro di servizio;
– il luogo in cui è svolta l’attività di servizio;
– l’oggetto dell’attività di servizio;
– il compenso (non inferiore alla misura oraria minima, con eventuali maggiorazioni per determinate situazioni, prevista dai CCL, con espressa esclusione del cottimo) e le indennità speciali (indennità di prenotazione)
– gli strumenti di protezione assegnati;
– le modalità con cui l’algoritmo determina l’incontro fra la domanda e l’offerta di servizio;
– la procedura di verifica imparziale del rating reputazionale del lavoratore.
 
Il Capo III individua invece “gli strumenti” amministrativi e operativi di cui la Regione si avvarrà per dialogare con tutti i soggetti, pubblici e privati, che operano nel settore, fornendo loro servizi di supporto attraverso la creazione di un “Portale del lavoro digitale”, composto dall’anagrafe regionale dei lavoratori digitali e dal registro regionale delle piattaforme digitali.
Le piattaforme (se in regola con le disposizioni contenute nella legge) e i lavoratori digitali potranno iscriversi gratuitamente accedendo al programma annuale degli interventi aventi ad oggetto:
– l’informazione sui diritti;
– la formazione in materia di salute e di sicurezza;
– le forme di tutela integrativa in materia di previdenza e di assistenza.
 
La Regione promuove, inoltre, la stipula di accordi con INPS, INAIL e compagnie di assicurazione finalizzate ad attuare la disciplina delle tutele previdenziali e assicurative, nonché con l’INL per il monitoraggio e il controllo del lavoro digitale.
Ricostruiti gli obiettivi e i principali contenuti della Legge in commento, occorre adesso coglierne i profili di criticità.
Le perplessità sollevate attengono, essenzialmente, alla sua compatibilità con il sistema di riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni di cui all’art. 117 Cost., come riformato dalla L. Cost. n. 3/2001.
 
La questione appena posta in luce, di soluzione tutt’altro che immediata, trae origine dalla discussa collocazione delle materie di interesse lavoristico nell’impianto ripartitorio scolpito nel citato art. 117 Cost.
Tale norma, al c. 2, rimette all’esclusiva competenza statale il potere di legiferare nei seguenti ambiti: “ordinamento civile e penale” (lett. L), “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (lett. M), “previdenza sociale” (lett. O), mentre, al c. 3, individua, devolvendole alla legislazione concorrente, talune materie che intercettano a vario titolo il diritto del lavoro, tra cui “tutela e sicurezza del lavoro”, “previdenza complementare e integrativa” e “tutela della salute”, stabilendo, poi, al c. 4, che le materie residuali (non attribuite alla potestà esclusiva dello Stato ovvero a quella concorrente Stato – Regioni) vanno rimesse, in via sussidiaria, alla competenza legislativa regionale.
 
Ciò posto, è agevole intuire come le incertezze sottese alla devoluzione del potere legislativo in materia di lavoro dipendano, in particolare, quanto meno da due fattori: da un lato, l’equivocità della formula “tutela e sicurezza del lavoro”; dall’altro, la difficoltà di far convivere, senza interferenze, l’intervento esclusivo dello Stato e quello concorrente Stato – Regioni in un panorama di materie spesso dotate di confini non definiti, variabili e, per giunta, destinati a intersecarsi.
 
Proprio tali due profili di criticità, per l’appunto, stanno alla base della dubbia legittimità costituzionale della legge in commento.
Vediamone le ragioni.
 
Il primo dato, di certo non destinato a passare inosservato, consiste nel rilievo per cui la disciplina regionale appena entrata in vigore intende innanzitutto promuovere la tutela della salute e la sicurezza del lavoro quali principi fondamentali per garantire alla persona un lavoro protetto e dignitoso, nel rispetto, tra gli altri, proprio dell’art. 117, c. 3, Cost.
Nonostante il legislatore regionale dichiari di agire nel rispetto dei limiti previsti dalla Costituzione in tema di competenza normativa concorrente, non appare che ciò sia, in realtà, avvenuto.
Infatti, posto che, come sopra richiamato, la Costituzione include la materia della “tutela e sicurezza del lavoro” tra quelle di legislazione concorrente, v’è da rilevare come la stessa giurisprudenza costituzionale sia in passato intervenuta a delimitare l’effettiva portata del potere legislativo regionale in tale settore.
 
A questo proposito, in particolare, il Giudice delle leggi ha chiarito che, in concreto, compete alle Regioni soltanto la disciplina dell’organizzazione del mercato del lavoro, nell’accezione del “collocamento” e delle “politiche attive del lavoro”, restando escluse da questo ambito, di esclusiva pertinenza del legislatore nazionale, tutte le norme che incidono sulle reciproche obbligazioni che sorgono tra le parti di un contratto di lavoro.
Si tratta di principi che, in realtà, non sembrano rispettati dalla legge della Regione Lazio: in particolare, è dall’analisi del Capo II (il Capo III, di tipo promozionale, pare, tutto sommato, compatibile) che si evince come il legislatore territoriale sia intervenuto su aspetti fondamentali del rapporto di lavoro, incorrendo così nell’abusodella propria potestà normativa per come intesa nell’interpretazione del giudice costituzionale.
Il rispetto soltanto formale del dato costituzionale si evince, nello specifico, dall’intenzione del Legislatore regionale di disciplinare istituti in realtà riconducibili alla potestà esclusiva dello Stato perché rientranti in materie di cui all’art. 117, c. 2, Cost., quali l’ordinamento civile, la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti sociali e la previdenza sociale.
 
Tra tali istituti rientrano, in particolare, il compenso spettante al lavoratore digitale ex art. 5, nonché le disposizioni relative alle tutele assistenziali e previdenziali a norma dell’art. 4, oltre che la previsione, di cui all’art. 8, in tema di sanzioni amministrative pecuniarie connesse alla violazione delle prescrizioni poste dagli artt. 3 -7 della stessa legge.
 
Gli aspetti per i quali è possibile ipotizzare l’incostituzionalità della legge acquistano ancora più consistenza ove si consideri la mancata denominazione (intenzionale) del rapporto di lavoro dei riders da parte del legislatore regionale.
Il fatto cioè che la Regione non inquadri i lavoratori digitali come autonomi o subordinati, al di là del vizio originario della legge per carenza di potere normativo “a monte”, espone al rischio di antinomie tra i contenuti delle tutele ivi previste e la fisionomia di taluni istituti già disciplinati dal legislatore nazionale.
 
È da rilevare, infatti, come il legislatore regionale, così facendo, estenda, seppur genericamente, tutele tipiche del lavoro subordinato (ad esempio, quelle previdenziali ed assistenziali) a lavoratori la cui qualificazione giuridica è, in realtà, ancora incerta e, comunque, rimessa alla giurisdizione del lavoro.
In ultima analisi, al di là dei profili di incostituzionalità sopra adombrati, la legge in commento si presenta, anche e soprattutto, di dubbia opportunità alla luce delle osservazioni in termini di politica del diritto: sembra, infatti, che la stessa ponga le basi affinché il lavoro digitale sia destinatario di una regolamentazione tutt’altro che omogenea nel contesto nazionale, esponendo al rischio che la disciplina in materia venga affidata esclusivamente all’arbitrio dei singoli legislatori regionali, ingenerando tutt’altro che improbabili rischi di “dumping sociale” ancorché in una prospettiva eminentemente “rimediale”.
 
Le riflessioni in merito a quali siano gli strumenti oggi utilizzabili al fine di disciplinare il lavoro digitale si rivelano, inoltre, ancor più attuali, arricchendosi negli ultimi giorni, di un nuovo ambito di contrattazione collettiva.
Risale, infatti, allo scorso 8 maggio la notizia riguardante un’azienda fiorentina attiva (solo da un paio di mesi) nel settore della consegna di cibo a domicilio, la quale ha siglato con i sindacati locali (provincia di Firenze) un accordo di secondo livello finalizzato all’assunzione di 20 riders a tempo indeterminato, nonché al riconoscimento dei diritti spettanti al lavoratore subordinato: ciò sul fronte sia della retribuzione mensile, sia del diritto alle ferie, ai permessi o alle assenze per malattia e infortunio (tutte prerogative ancora non conferite, come anticipato, da norme nazionali valide in senso generale ed astratto, nei confronti di tali tipologie di lavoratori).
A destare perplessità è, anzitutto, la qualificazione formale del contratto in esame, intitolato, testualmente, “Verbale di accordo quadro – riders Toscana”.  Scarsamente comprensibili sono le ragioni di tale dicitura.
 
L’incipit del testo in esame, infatti, enuncia la volontà delle parti di stabilire un accordo quadro sperimentale per la Provincia di Firenze e successivamente anche per la Regione Toscana. Ciò dichiarato sul piano delle aspettative di diffusione dell’iniziativa in oggetto, rimane comunque fermo cha a sottoscrivere l’accordo è stata unicamente la società datrice e non, invece, il complesso delle organizzazioni esponenziali di categoria: conseguentemente, nessun dubbio pare possa nutrirsi rispetto alla validità di tale atto nell’ambito, per ora, della sola azienda firmataria e non a livello regionale.
 
Ciò posto, l’accordo in oggetto, con il dichiarato intento di disciplinare la figura professionale del “rider” anche in relazione a nuovi modelli produttivi ed organizzativi introdotti dalla GIG economy, richiama il CCNL nazionale Merci, logistica e spedizioni (per come modificato dall’ipotesi di rinnovo risalente al dicembre 2017 che ha, tra l’altro, abolito il divieto di utilizzo del lavoro a chiamata) e, spiegano gli stessi sindacati, dovrebbe comportare, in favore dei neoriders fiorentini, il pagamento delle ore effettivamente lavorate e non in base alle consegne, utilizzando la cornice tipologica del personale viaggiante impiegato in mansioni discontinue (una sorta di variazione sul tema del lavoro intermittente) di cui ai Regi Decreti n. 692 e 2657 del 1923 (sia consentito sottolineare il paradosso che per regolare il lavoro dei “fattorini telematici” della GIG economy digitale, si debba fare riferimento e utilizzare norme pensate nel lontanissimo e “arcaico” 1923).
Questa affermazione, da un’analisi del medesimo accordo, si rileva, comunque, infondata.
 
Le previsioni negoziali, infatti, definiscono l’orario di lavoro del rider come il tempo dedicato a tutte le operazioni di trasporto del prodotto (ritiro, tragitto e consegna; v. Punto D, 1), aggiungendo poi che esulano dall’orario effettivo di lavoro tutti i tempi non ricompresi nel precedente punto 1 e che per i tempi di disponibilità è dovuto unicamente il trattamento di indennità oraria pari a 0,60 euro lordi (Punto D, 2).
Di conseguenza, in virtù delle previsioni richiamate, il rider avrà diritto alla retribuzione oraria prevista dal CCNL di categoria soltanto ove riceva ordini di consegna; per converso, qualora nessun utente del portale chieda di fruire del servizio a domicilio, al lavoratore sarà riservato il trattamento economico orario pari a 0,60 euro lordi.
 
Siffatta disciplina, in concreto, smentisce, quindi, le premesse annunciate in merito alla stima del compenso sulla base delle ore di lavoro e non, invece, in base a ciascuna consegna portata a compimento.
In attesa, dunque, di un intervento sistematico del legislatore nazionale inteso a tutelare il lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni”, e visti i richiamati profili di possibile e probabile incostituzionalità delle iniziative normative regionali, appare ragionevole ritenere che lo strumento più idoneo a disciplinare la materia in esame continui ad essere quello della contrattazione collettiva, anche di secondo livello; in tale caso, tuttavia, non sembra che l’accordo in commento abbia colto nel segno.
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Gallery fotografica – L’inclusione dei lavoratori e delle lavoratrici LGBT in Italia, Francia e Germania

Si è svolto a Milano presso il Palazzo delle Stelline, l’evento organizzato da Lexellent in collaborazione con Parks – Liberi e Uguali, dal titolo “L’inclusione dei lavoratori e delle lavoratrici LGBT in Italia, Francia e Germania”
Pubblichiamo qui di seguito una serie di foto scattate durante il convegno e che vedono coinvolti i protagonisti della giornata
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La laurea in legge è utile? Ecco quando funziona

Luisa Adani, per il Corriere della Sera Lavoro, ha svolto un’indagine sui possibili sbocchi professionali che un giovane laureato in giurisprudenza può trovare oggi in Italia.
Per farlo ha intervistato anche Giulietta Bergamaschi, Managing Partner dello Studio, che ha raccontato quali caratteristiche un giovane deve assolutamente avere per avvicinarsi alla libera professione.
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Francesco Bacchini docente al seminario “Sicurezza nei trasporti e in itinere”

Francesco Bacchini, parteciperà oggi, 21 maggio al seminario “SICUREZZA NEI TRASPORTI E IN ITINERE“, organizzato all’interno del Forum Sicurezza di Torino presso la Sala Stella.
Quando l’ambiente di lavoro è “la strada”, ci sono numerosi utenti e interferenze che vanno considerati. Nella consulenza in tema di sicurezza per attività che effettuano trasporti (logistica, produzione e consegna di prodotti) con mezzi tradizionali o smart, occorre soffermarsi anche sulle fasi preparatorie al trasporto oltre che sulle competenze degli operatori che vanno oltre quelle già delineate dalla normativa di settore.
Un focus si concentrerà  sulla relazione tra e-commerce e consegne a domicilio, sui nuovi rischi legati alla sharing economy e ai tempi di consegna serrati che si riversano a cascata sulla’ indotto, senza trascurare le attività  di autotrasporto pesante e la necessità  di monitorare e rendere consapevoli gli addetti sui rischi specifici del settore.

INTERVENGONO:
Francesco Bacchini, professore di Diritto del Lavoro, Università degli Studi di Milano Bicocca
Stefano Farina, geometra RSPP e CSE
Marcello Favalli, CEO SiWeGO srl
MODERA:
Lara Calanni Pileri, architetto
Sono previsti crediti formativi:

  • 2 CFP (architetti, ingegneri)
  • 1 CFP (geometri)
  • 2 RSPP/ASPP

Francesco Bacchini docente al corso di ECM organizzato da OMCEO Milano

Il Prof. Francesco Bacchini ha tenuto sabato 18 maggio a Milano, presso il CDI – Centro Diagnostico Italiano di Via Saint Bon, una lezione in materia di “Giudizio di idoneità alla mansione, limitazioni e prescrizioni, disabilità, accomodamenti ragionevoli e licenziamento discriminatorio”, nell’ambito del corso di fomazione continua per i medici dal titolo “Limitazioni: è sempre “colpa” del Medico Competente?” .
Scarica qui la locandina del corso

Tre anni di legge Cirinnà ma l’omogenitorialità è ferma. E (alcune) aziende si organizzano

17 maggio 2019 – giornata internazionale contro l’omofobia. Pubblichiamo di seguito un articolo pubblicato da Open sul tema della omogenitorialità e in particolare sullo stato dell’arte delle famiglie arcobaleno a tre anni dall’entrata in vigore della Legge Cirinnà. Come si sono organizzate e/o si stanno organizzando le aziende per tutelare i propri dipendenti in fatto di omogenitorialità alla luce del vuoto normativo?
Tra le varie voci, anche un commento della Managing Partner Giulietta Bergamaschi, in qualità di membro dell’associazione Parks – Liberi e Uguali.
Il 17 maggio è la giornata internazionale contro l’omofobia. Nonostante i passi avanti sulle unioni civili, in Italia non esiste una legislazione che tuteli il genitore sociale, e la decisione sul riconoscimento o meno del figlio spetta unicamente alla giurisprudenza. Alla luce del vuoto normativo, le aziende si stanno organizzando autonomamente per fornire i necessari benefit alle famiglie arcobaleno.
Dall’approvazione della Legge Cirinnà in Italia sono state celebrate più di 7mila unioni civili tra persone delle stesso sesso. A oggi però, la genitorialità di entrambi i partner è raramente riconosciuta, nel caso in cui la coppia abbia un figlio. Per le coppie omosessuali unite civilmente, il riconoscimento della genitorialità del secondo partner rimane insabbiata in un vuoto normativo.
Questo vuoto è in parte colmato dalla giurisprudenza: le «stepchild adoption», le adozioni del figlio del partner, sono infatti gestite caso per caso dai tribunali. La decisione è rimessa all’arbitrarietà del magistrato e le coppie devono avere la fortuna di trovarsi di fronte ai giudici giusti.
Cosa dice la legge Cirinnà
Era il  20 maggio 2016 quando, dopo vari compromessi tra le parti, l’iter parlamentare della legge Cirinnà si è concluso. Con l’entrata in vigore della 76/2016, le unioni civili hanno fatto ufficialmente il loro ingresso nel diritto di famiglia. Nonostante la conquista, il matrimonio rimane un’istituzione ben distinta dalle unioni civili: a differenza di altri paesi dell’Europa occidentale, in Italia la differenza tra le due permane sia a livello costituzionale (si fondano su articoli diversi della Costituzione) sia di legge ordinaria.
Per non contravvenire al terzo articolo della Costituzione («tutti i cittadini hanno pari dignità sociale»), la legge ha permesso il riconoscimento dei congedi matrimoniali, dei permessi mensili previsti dalla ex 104, dei congedi straordinari per assistere partner e familiari in difficoltà etc. Tutto, ma non i congedi parentali.
«Resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti», si legge al comma 20 dell’articolo 1. La questione dell’adozione per le coppie omogenitoriali era, e resta, un tabù parlamentare. E il genitore sociale (cioè il partner che non contribuisce biologicamente alla gravidanza) viene tagliato fuori da qualsiasi riflessione sulla genitorialità.
Se Maometto non va alla montagna.. quando le aziende superano le mancanze dello Stato
«Un genitore sociale che non è riconosciuto non può prendersi i permessi per malattia dei figli», ha spiegato a Open l’avvocatessa Giulietta Bergamaschi, membro di Parks, associazione che si occupa di diversità in ambito aziendale. «Nessun permesso previsto dalla 104, nessuno sgravio fiscale, nessun congedo».
Ma la distanza tra i tabù del Parlamento e la realtà dei fatti – nonché le esigenze dei lavoratori e delle lavoratrici – ha creato un bug su cui alcune aziende hanno scelto di intervenire in maniera autonoma.
«Dopo l’approvazione della versione finale della legge Cirinnà abbiamo capito che la questione della genitorialità era ancora tutt’altro che risolta», ha spiegato a Open Sarah Bonte, CSR Manager presso CNPVita, «Abbiamo capito che per tenere fede ai valori dell’azienda, avremmo dovuto farci carico di provvedimenti non previsti dallo Stato».
In altre parole, CNPVita – come tante altre aziende italiane – equipara a proprie spese le tutele e i benefit dei genitori sociali a quelle dei genitori biologici, a patto che questi siano uniti civilmente. Questo prevede permessi particolari per eventuali malattie dei figli, assistenza sanitaria per gli stessi, contributi per l’iscrizione al nido e possibilità di telelavoro se il bambino ha meno di 10 anni. Il genitore non biologico, sia nelle coppie gay sia in quelle lesbiche, fa riferimento ai congedi previsti tradizionalmente per il padre. Può usufruire, cioè, di massimo 5 giorni di permesso obbligatorio.
«Nonostante la legge Cirinnà abbia colmato una lacuna importante in merito ai rapporti omosessuali, siamo tutti consapevoli che ancora manca un pezzo molto importante. Non possiamo fare finta che non esistano certe situazioni: ormai i tempi ci impongono di intervenire», conclude Bonte.
Quando l’azienda è pronta ma la burocrazia no
La questione, comunque, presenta difficoltà su più livelli. Perché anche quando il genitore sociale viene riconosciuto dal Tribunale, non è detto che l’esercizio del diritto sia immediatamente garantito. Come fa notare Ferdinando Poscio, avvocato di Famiglie Arcobaleno, uno dei problemi principali è costituito dalla burocrazia.
È il caso del portale online dell’Inps, al quale bisogna necessariamente far riferimento per scaricare i moduli per riconoscimento, deleghe o congedi: anche nel caso in cui entrambi i partner siano legalmente riconosciuti come genitori, le procedure sono bloccate se i genitori vengono riconosciuti dello stesso sesso.
«L’Inps ha un sistema informatico che nel momento in cui si inserisce il codice fiscale di due genitori dello stesso sesso blocca qualsiasi operazione» riferisce Poscio. L’assenza di una legge che riconosca automaticamente il figlio di una coppia concepito, per esempio, tramite fecondazione assistita, fa si che per i primi mesi se non anni della vita del bambino, uno dei due genitori possa non venire riconosciuto come tale. E proprio «nei primi mesi di vita del bambino, quelli in cui ce ne sarebbe più bisogno», aggiunge Poscio.
Tra l’altro, la step-child adoption, almeno per come è stata riconosciuta finora, non equivale a un’adozione «piena». Anche se viene stabilito un legame di filiazione, il figlio non ha nessun legame giuridico con i membri della famiglia del genitore adottivo. Un bambino adottato tramite step-child adoption non è per esempio nipote dei fratelli o dei genitori della madre o del padre adottivo. Ancora più paradossalmente, se i due partner adottano reciprocamente il figlio biologico dell’altro, i bambini diventano figli di entrambi, ma non fratelli tra loro.
Lo stato delle cose, visto da chi ha scritto la legge 
Dove stiamo andando? «Con questo governo non andremo mai e poi mai avanti sull’omogenitorialità» è il commento di Monica Cirinnà, intervistata da Open, «Un governo fatto da un partito che ha tradito i bambini arcobaleno rifiutandosi di approvare il primo emendamento il 16 febbraio».
La parlamentare si riferisce a quello che è stato ribattezzato il #dietrofront5stelle, episodio in cui il M5S, bocciando un aspetto procedurale del dibattito in Senato, ha finito per compromettere la diretta approvazione della legge 76, sacrificando di fatto l’emendamento sulla Step Child Adoption. «Non li vedo ai pride, non li vedo a fianco dei ragazzini gay bullizzati. Non li trovo mai da nessuna parte. O danno un segno o sono esattamente come la Lega, finora non ho visto nemmeno una proposta sui diritti da parte di questo governo», conclude Cirrinà.

Condotte extralavorative e lesione del rapporto fiduciario con il datore di lavoro – Diritto 24

Pubblichiamo di seguito l’articolo a firma dell’avv. Chiara D’Angelo per Diritto24, sul tema delle condotte extralavorative che possono causare il venir meno, da parte del datore di lavoro, della fiducia nel dipendente e la conseguente interruzione del rapporto di collaborazione
Con due recenti decisioni (ordinanza n. 4804/2019, pubblicata il 19 febbraio e sentenza n. 8027/2019, pubblicata il 21 marzo) la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi (favorevolmente) sulla legittimità del licenziamento intimato a fronte di condotte assunte dal dipendente in sede extralavorativa.
Il tema in oggetto, piuttosto ricorrente e diversamente risolto nella casistica giurisprudenziale, può essere analizzato muovendo da alcune brevi osservazioni in ordine alla natura del rapporto di lavoro.
Secondo un’opinione generalmente condivisa, quest’ultimo trae origine dall’ intuitus personae, inteso come il complesso delle qualità personali ravvisate in capo ad entrambe le parti contraenti.
Tale circostanza, letta insieme al generale obbligo di buona fede imposto dall’art. 1375 c.c., evidenzia la necessità di delimitare l’esatto oggetto della prestazione lavorativa, nonché, conseguentemente, i precisi limiti entro cui l’imprenditore può riporre legittimo affidamento circa l’operato della controparte; interrogativi, questi, da riferirsi all’intero corso dell’esecuzione contrattuale, posto che il rapporto di lavoro, trovando fonte in un contratto c.d. “di durata”, si dipana lungo un consistente lasso temporale, non esaurendosi in un solo atto.
In altri termini, occorre comprendere non soltanto “cosa”, ma anche “fin quando” l’imprenditore possa pretendere dal proprio dipendente, soprattutto nell’eventuale ottica di recesso dal rapporto lavorativo.
Le questioni appena sollevate trovano possibile riscontro in una pronuncia dei Giudici di legittimità, con cui è stato affermato che poiché il rapporto di lavoro, per l’oggetto della prestazione (attività di collaborazione) e per la sua protrazione nel tempo, è fondato sulla fiducia, questa essendo fattore che nella protrazione deve pur tacitamente permanere, come condiziona, con la propria esistenza, l’affermazione del rapporto, in egual modo ne condiziona, con la propria cessazione, la negazione (Cass., sez. lav., 21 novembre 2000, n. 15004).
Dal principio così espresso si desume che, ai fini del mantenimento del rapporto, il prestatore è tenuto, durante l’intera esecuzione del contratto, a fornire costante “conferma” della fiducia in lui riposta all’atto della contrazione del vincolo; con l’inevitabile conseguenza che lo svanire dell’intuitus personae può determinare, nei casi di estrema gravità, il legittimo licenziamento da parte del datore.
In tale prospettiva, diventa quindi necessario individuare quei comportamenti che possono comportare la cessazione del rapporto per lesione dell’affidamento datoriale.
Ebbene, ai fini appena esposti, nessun dubbio pare possa avanzarsi rispetto al fatto integrante, in senso tecnico, inadempimento imputabile al lavoratore; con ogni certezza, infatti, la violazione degli obblighi contrattuali nell’espletamento della mansione può legittimamente sollecitare il potere sanzionatorio del datore di lavoro.
Perplessità si pongono, invece, in ordine alla rilevanza delle condotte extralavorative ai fini disciplinari; questione risolta positivamente nelle due decisioni qui segnalate.
La prima di queste (ordinanza n. 4804/2019), trae origine dal licenziamento intimato dalla società ad un dipendente sottoposto a procedimento penale per acquisto ed illecita detenzione di un’ingente quantità di stupefacenti; condotta sussumibile nella nozione di “giusta causa” perché, oltre ad avere rilievo penale, è contraria alle norme dell’etica e del vivere civile comuni e, dunque, ha un riflesso, anche solo potenziale ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto di lavoro (cfr. pag. 3).
A conclusioni analoghe perviene la seconda pronuncia (sentenza n. 8027/2019), vertente sul caso di un lavoratore licenziato perché autore di una condotta (apertura delle bombole del gas nella sua abitazione, chiamata delle forze dell’ordine, minaccia di far esplodere la palazzina, aggressione degli agenti di polizia intervenuti) che il giudice d’appello ha reputato, anche in rapporto alle mansioni del dipendente (addetto alla sicurezza delle infrastrutture), talmente grave da implicare una giusta causa del licenziamento per aver definitivamente incrinato il vincolo fiduciario (cfr. pag. 1).
Nello specifico, si ritiene che le condotte accertate (denotando scarsa inclinazione all’attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza) giustifichino il licenziamento perché sintomatiche dell’inattitudine del lavoratore ad eseguire responsabilmente le mansioni assegnategli, con conseguenti rischi per l’intero gruppo di lavoro (in ipotesi, costretto a gestire le probabili instabilità future del collega) e, più in generale, per l’efficienza complessiva dell’azienda.
Le due statuizioni segnalate, in ultima analisi, si pongono in linea con quel filon giurisprudenziale (v. per tutte sent. Cass. n. 24023/2016) secondo cui il lavoratore è tenuto non soltanto, in via principale, ad eseguire la prestazione dedotta in contratto, ma anche all’obbligo secondario di tenere, al di là del luogo e dell’orario di lavoro, comportamenti non lesivi della fiducia del datore o delle potenzialità produttive dell’impresa.
Conseguentemente, alla stregua dell’orientamento richiamato, è ben possibile che l’imprenditore licenzi un dipendente in ragione del contegno moralmente riprovevole da questi assunto nella propria sfera privata.
Ciò posto in via teorica, è tuttavia necessario, ai fini della legittimità della massima sanzione disciplinare per giusta causa, che il provvedimento sia concretamente proporzionale all’entità dei fatti accertati, alla luce sia della loro gravità oggettiva (desumibile anche da eventuali elementi circostanziali, ma non scaturente in via automatica dalla rilevanza penale della condotta), sia dell’intensità del coefficiente volitivo in capo al soggetto agente.

L’inserimento lavorativo delle persone con disabilità – Diritto 24

Pubblichiamo di seguito il contributo a firma della Managing Partner Giulietta Bergamaschi e dell’avvocato Chiara D’Angelo per Diritto24, sul tema dell’occupazione dei soggetti disabili e del loro inserimento nella compagine aziendale in senso ampio: ovvero dalla fase di assunzione a quella di esecuzione delle mansioni.
L’inserimento lavorativo delle persone con disabilità rappresenta senz’altro uno dei principali temi su cui intervengono le attuali politiche occupazionali, sia normative che imprenditoriali.
 Al fine di tracciare i confini del tema in esame, sembra opportuno intendere il termine “inserimento” in senso ampio: riferendolo, cioè, non soltanto all’ingresso del soggetto debole nella realtà produttiva, ma anche al suo effettivo mantenimento alle mansioni durante l’esecuzione del rapporto di lavoro.
La locuzione impiegata, quindi, può abbracciare sia il momento dell’assunzione del lavoratore disabile, sia il percorso successivamente svolto ai fini della piena ed effettiva integrazione della persona nella realtà aziendale.
Quest’ultimo obiettivo, seppur concretamente perseguibile con diverse modalità (tra cui, come si dirà in seguito, la contrattazione integrativa di secondo livello, le policy aziendali e le buone prassi), è unanimemente condiviso dalle fonti sovranazionali vigenti in materia.
In tale ottica, infatti, vanno intese le disposizioni contenute nella Carta di Nizza, nella Direttiva UE 2000/78 e nella Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle Persone con Disabilità, tutte concordi nell’intendere il tema dell’inclusione dei disabili sotto la lente della tutela dei diritti umani.
In particolare, la considerazione dei soggetti svantaggiati quali titolari di interessi meritevoli di tutela ordinamentale comporta, anzitutto, la necessità di quei comportamenti diretti, se non proprio a rimuovere, quanto meno a contenere gli effetti che conseguono allo stato di disabilità, sia in un’ottica di non discriminazione, sia nei termini di vera e propria inclusione.
Tali ultime istanze trovano riscontro, sul piano del diritto interno, sia nella Carta Costituzionale (v. artt. 1, 3, 4, 32, 38), sia in numerose leggi ordinarie, tra cui, in primo luogo, lo Statuto dei Lavoratori (v. art. 15) e l’intera Legge 68/99.
Da ultimo, inoltre, con il D.P.R. del 12 ottobre 2017 è stato adottato il secondo programma di azione biennale per la promozione dei diritti e l’integrazione delle persone con disabilità, ai sensi della legge 18/2009 di ratifica della Convenzione ONU precedentemente citata.
Ciò posto, sembra inoltre pertinente intendere l’inserimento lavorativo dei soggetti disabili alla luce della responsabilità sociale di impresa, tema che costituisce uno dei pilastri della Strategia 2020 elaborata dall’Unione Europea in materia di occupazione, innovazione, istruzione, integrazione sociale e clima/energia.
Secondo la definizione generalmente accolta, infatti, un’impresa è socialmente responsabile in quanto “sostenibile” in ottica sia ambientale che sociale: ne deriva che il rispetto della persona (oltre che del territorio) diventa, pertanto, principale indice dell’attuazione dei princìpi di “etica produttiva”.
Nella stessa direzione, inoltre, va anche letta la L. 208/2015 (v. art. 1, commi 376 -384) sulle c.d. “società benefit”, la cui attività coincide, per espressa previsione normativa, con il conseguimento di un beneficio comune, consistente nel perseguimento di effetti positivi (ovvero di riduzione di effetti negativi) nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali, enti e associazioni.
Come anticipato, le aziende possono raggiungere gli obiettivi della effettiva inclusione lavorativa e del mantenimento al lavoro delle persone con disabilità attraverso percorsi differenti.
In tale prospettiva non può prescindersi dai contratti collettivi nazionali di lavoro applicati da un’azienda al proprio personale dipendente: accordi, questi ultimi, dai contenuti senz’altro variegati, poiché alcuni disciplinano il tema in esame in modo organico, mentre altri, invece, si limitano a trattarlo dedicandovi singole disposizioni.
Muovendo dai contratti collettivi nazionali, le singole imprese disciplinano la materia dell’inclusione dei lavoratori disabili attraverso una delle seguenti modalità: ricorrendo alla contrattazione integrativa di secondo livello, scrivendo policy unilaterali poi divulgate ai lavoratori, ovvero adottando buone prassi senza tuttavia recepirle in un documento scritto.
La prima tecnica, propria delle aziende più grandi e con consolidate relazioni industriali pregresse, si traduce in un approccio mirato ad una disciplina organica di valenza generale, non finalizzata a fronteggiare esigenze “puntuali” emerse in via d’emergenza.
Tale tendenza regolativa consente di adottare un approccio più condiviso al tema, con contestuale creazione, durante la fase di negoziazione, di una cultura aziendale più inclusiva ed incline ad attuare le misure contrattuali.
La policy, invece, viene generalmente adottata all’interno di aziende di medie dimensioni, prive di una solida tradizione di relazioni sindacali, che preferiscono risolvere “in proprio” questioni per cui non vige l’obbligo di contrattare con le altre parti sociali. Muovendo da quest’ultima strategia, poi, l’azienda tende a sensibilizzare il personale alla nuova cultura aziendale attraversattraverso specifici corsi di formazione.
In ultimo luogo, nelle aziende più piccole o dotate di una struttura organizzativa meno articolata, dove l’approccio è fortemente orientato all’ascolto dei bisogni del personale, la difficoltà sta nell’intercettare tali istanze prima che i dipendenti le manifestino.
In tale evenienza, idea ricorrente è quella di predisporre, volta per volta, buone prassi dirette a risolvere una difficoltà singola, e dunque non recepite in un documento scritto.
La disciplina attraverso best practices, se per un verso permette di affrontare i temi trattati con strategie più efficaci perché formulate ad hoc, sotto altro profilo non consente di attuare un’azione regolatrice uniforme ed omogenea, così esponendo l’impresa al rischio di promuovere misure difficilmente riconducibili a logiche equitative.

Lexellent partecipa alla settimana del Lavoro Agile – Milano, 20/24 maggio 2019

Lexellent, partecipa alla settimana del Lavoro Agile, evento organizzato dal Comune di Milano dal 20 al 24 maggio 2019 e giunto alla sua terza edizione.

Lo Studio mette a disposizione la sua esperienza in ambito di smart working adottando per una settimana un’azienda interessata ad avviare o a conoscere il lavoro agile che consente, a chi lo utilizza, di equilibrare i tempi di vita e di lavoro, migliorando la qualità della vita, incrementando la competitività aziendale e salvaguardando l’ambiente.

Per ogni informazione, visitate il sito del Comune di Milano

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Marco Giangrande docente al Corso di Sociologia dei processi organizzativi e culturali

L’avvocato Marco Giangrande, terrà giovedì 16 maggio dalle ore 15:30 alle ore 17:00 presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, una lezione sul diritto sindacale nell’ambito del corso di Sociologia dei processi organizzativi e culturali presso la facoltà di “Psicologia per le organizzazioni: risorse umane, marketing e comunicazione”.

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Sicurezza sul lavoro: nuove regole per i dispositivi di protezione individuale

Pubblichiamo di seguito l’ultimo approfondimento a firma del Prof. Francesco Bacchini relativo all’entrata in vigore delle nuove prescrizioni in materia di DPI, pubblicato da Diritto & Pratica del Lavoro, n° 17/2019.

Con il D.Lgs. n. 17 del 19 febbraio 2019 (G.U. n. 59 dell’11 marzo 2019), entrano pienamente in vigore le nuove prescrizioni di armonizzazione del diritto nazionale riguardanti i requisiti essenziali di sicurezza per la progettazione, la fabbricazione e la messa a disposizione sul mercato dei dispositivi di protezione individuale (DPI) diretti a tutelare la salute dei lavoratori.
La disciplina appena adottata, nell’attuare il Regolamento Ue 2016/425 (pienamente in vigore dal 21 aprile 2018 ma con qualche eccezione) (1) che ha abrogato la Direttiva 89/686/Cee, da un lato modifica interamente il testo del D.Lgs. n. 475/1992 (che la citata direttiva aveva recepito), riscrivendone e, in gran parte, abrogandone tutto il precedente articolato, e, dall’altro lato, novellando l’art. 76, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008, relativo ai requisiti dei DPI, ne elimina il pregresso richiamo sostituendolo direttamente con quello del Regolamento europeo, visto che la normativa interna disciplina ormai soltanto gli aspetti autorizzativi e di controllo del mercato dei DPI, nonché le sanzioni e le disposizioni penali.

 Per scaricare l’articolo completo cliccare qui.

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Ama chi vuoi, i diritti sul lavoro – La 27esima Ora

Pubblichiamo di seguito l’intervista alla Managing Partner Giulietta Bergamaschi sull’impatto della Legge Cirinnà nel mondo HR  per La Ventisettesima Ora – Corriere della Sera, a firma di Luisa Adani.

Gay e lesbiche vanno a lavorare ogni giorno ma le aziende sembrano farci poca attenzione e solo in casi isolati l’orientamento sessuale e l’identità di genere sono considerati da chi sviluppa le politiche di gestione del personale. Diritti e benefici vengono così amputati. La rivoluzione nella tutela di gay e lesbiche anche nel mondo del lavoro si fonda sulla Legge 76/2016 che ha introdotto nel nostro ordinamento l’istituto dell’unione civile tra persone dello stesso sesso e disciplina le convivenze di fatto di persone dello stesso sesso o di sesso diverso. Sono infatti numerose sono le disposizioni di legge e di contratto collettivo che riconoscono diritti e tutele ai lavoratori in relazione al loro stato civile o a certe esigenze connesse alla situazione familiare.

«Il diritto del lavoro e il diritto di famiglia sono vicini e contigui -commenta l’avvocata Giulietta Bergamaschi, managing partner dello studio legale Lexellent- Quando si parla di famiglia non si può fare a meno di tenere in debito conto le istanze che derivano dai mutamenti del tessuto sociale e che portano con sé nuovi modelli di famiglia accanto a quello definito “tradizionale”. Di queste istanze provenienti dalla società si è fatta carico nel 2016 la cosidetta Legge Cirinnà
In tale contesto è stata introdotta nell’ordinamento una generale estensione alle parti dell’unione civile delle disposizioni che si riferiscono al matrimonio e al coniuge/coniugi.

Dal fatto di contrarre un’unione civile deriva l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale, il che ha importanti implicazioni e ricadute nel campo del diritto del lavoro»

Le parti di un’unione civile -precisa Bergamaschi- possono ad esempio beneficiare di un congedo equiparabile a quello concesso in occasione del matrimonio, dei permessi mensili per l’assistenza del partner con handicap in condizione di gravità, di congedi straordinari per assistere familiari in situazioni di accertata gravità, delle tutele previste dai contratti collettivi in caso di trasferimento di un lavoratore coniugato o con familiari a carico, delle prestazioni assistenziali sanitarie previste, delle detrazioni fiscali per familiari a carico, delle indennità in caso di decesso del prestatore di lavoro unito civilmente, delle provvidenze in materia previdenziale erogate dall’INPS e dalla previdenza complementare introdotta dalla contrattazione collettiva».

Una guida all’impatto della Legge 76/2016 nel mondo del lavoro, per le aziende e per le persone. Per conoscere i diversi aspetti di questa rivoluzione nella gestione del personale si può scaricare liberamenteLa legge Cirinnà e i datori di lavoro. Guida all’utilizzo della Legge 76/2016. Un testo promosso da Parks – Liberi e Uguali (l’associazione senza scopo di lucro di datori di lavoro per aiutare le aziende a realizzare pratiche rispettose della diversità) e scritto oltre che da Giulietta Bergamaschi anche da Francesca Lauro e Renato Scorcelli e i colleghi di Studio.

Fra i temi affrontati: l’estensione del welfare aziendale generalmente riservata fino ora ai coniugi; i congedi e permessi da garantire anche al lavoratore unito civilmente; il congedo equiparabile a quello previsto per il classico matrimonio; il permesso mensile retribuito per assistere il partner dell’unione civile con handicap in situazione di gravità accertata; il permesso retribuito in caso di morte o grave infermità del partner dell’unione civile; le tutele in caso di rapporto di lavoro part-time; le detrazioni fiscali per familiari a carico; gli effetti in materia previdenziale; i diritti della parte dell’unione civile sul trattamento di fine rapporto in caso di scioglimento dell’unione.

Qui il link all’articolo.

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Marco Chiesara docente al corso “Management scolastico e direzione delle scuole paritarie”

Venerdì 10 e sabato 11 maggio dalle ore 10:00 alle ore 17:00 presso la Sede dell’Università Cattolica di Milano, l’avvocato Marco Chiesara interverrà come docente di diritto del lavoro nell’ambito del corso Management scolastico e direzione delle scuole paritarie, organizzato da ALTIS – Alta Scuola Impresa e Società, ­dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
L’avvocato Chiesarà terrà una lezione in cui parlerà di Diritto del lavoro: contratti AGIDAE  – FISM,  normativa ed esempi di contratti.
Per ulteriori informazioni:https://altis.unicatt.it/altis-corsi-di-alta-formazione-direzione-e-gestione-delle-scuole-paritarie-degli-istituti-religiosi

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Introduzione di Giulietta Bergamaschi al convegno: L’inclusione dei lavoratori e delle lavoratrici LGBT in Italia, Francia e Germania

È doveroso chiedersi se sia sempre necessario e attuale parlare di pari opportunità in Italia.
Così come dobbiamo domandarci se il discorso vada impostato solo in termini etici o se sia meglio affrontarlo in chiave economica.
Partiamo da un dato certo, il tema della pari opportunità è al centro del dibattito nell’ambito della comunità internazionale e dell’Unione Europea.
La parità è infatti uno degli obiettivi che i paesi firmatari dell’Agenda per lo sviluppo sostenibile devono realizzare entro il 2030.
In tale contesto si discute anche di lavoro, di capitale umano e diseguaglianze.
Questo obiettivo si accompagna con quello della buona occupazione e della crescita economica, che deve essere duratura, inclusiva e sostenibile.
Tra gli obiettivi nazionali strategici che il nostro Paese si è dato per raggiungere quelli dell’Agenda 2030 vi sono:

  • la promozione di una società inclusiva;
  • l’eliminazione di ogni forma di discriminazione, che si declina nel contrasto alla discriminazione di genere e di ogni altra forma di discriminazione basata su età, etnia, orientamento sessuale, confessione religiosa;
  • la promozione del rispetto delle diversità.

Quindi la risposta alla domanda iniziale è certamente sì, il tema delle pari opportunità è di estrema attualità ed è cruciale per lo sviluppo del nostro paese.
In tale contesto, è doveroso continuare a tenere alta l’attenzione sul tema dell’inclusione LGBT: parafrasando un detto manzoniano, facciamo in modo che il buon senso emerga e non se ne stia nascosto per paura del senso comune.
Che cosa è stato fatto, in pratica, in Italia negli ultimi anni per realizzare l’obiettivo dell’inclusione LGBT?
L’espressione orientamento sessuale fa la sua prima comparsa nell’ordinamento giuridico italiano a livello di legislazione ordinaria, con l’entrata in vigore del D. lgs. n. 216 del 2003 attuativo della Direttiva 2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. Tale direttiva, appartenente alla cosiddetta seconda generazione del diritto antidiscriminatorio, è definita anche quadro perché estende il contrasto alle discriminazioni basate su caratteristiche personali (cd. “fattori” di rischio) diversi dal genere che, invece, ha permeato il diritto antidiscriminatorio di prima generazione.
Pertanto, con riferimento al settore lavorativo e dal 2003, l’ampia protezione dell’individuo dalle discriminazioni legate all’orientamento sessuale offerta dalla normativa europea è stata garantita sul piano normativo anche nel nostro paese.
È mancata invece per lungo tempo la protezione nell’ambito dei rapporti familiari.
Quando si parla di persone non si può fare a meno di tenere in debito conto le istanze che derivano dai mutamenti del tessuto sociale e che portano con sé nuovi modelli di famiglia accanto a quello definito “tradizionale”.
Tre anni fa la L. 20 maggio 2016 n. 76 cd. Legge Cirinnà si è fatta carico delle istanze provenienti dalla realtà sociale: ha introdotto nell’ambito del diritto di famiglia le unioni civili tra persone dello stesso sesso e attribuito rilevanza giuridica alle convivenze, sia tra persone di sesso diverso sia tra persone dello stesso sesso.
Il nostro ordinamento, nel solco tracciato dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, dalla Corte Costituzionale e dalla Corte di Cassazione, ha affiancato le unioni civili al matrimonio, ma mentre il riconoscimento della rilevanza giuridica delle prime si fonda sugli artt. 2 e 3 Cost., in quanto “specifica formazione sociale”, il secondo trova, invece, il suo fondamento costituzionale nell’art. 29 Cost.: se da un lato il legislatore ha attribuito alle unioni fra persone dello stesso sesso dignità giuridica e rilevanza costituzionale pari a quelle del matrimonio, dall’altro ha rimarcato che si tratta di due istituti civilistici tra loro diversi.
Se da un lato l’espresso richiamo all’art. 3 Cost. è tale da indurre a ritenere salvo il principio di non discriminazione fra le persone in ragione dell’orientamento sessuale, dall’altro la mancata introduzione nell’ordinamento giuridico italiano del matrimonio egualitario ha avuto ed ha ricadute applicative importanti nell’ambito del diritto del lavoro.
Tuttavia, da giurista, non posso fare a meno di sottolineare che il matrimonio è un istituto riservato alle coppie eterosessuali, mentre le coppie omosessuali possono dare luogo a un vincolo familiare giuridicamente rilevante solo attraverso l’istituto dell’unione civile.
Per capire la portata della norma e le risultanze applicative che la stessa ha avuto e può avere nella realtà sociale, possiamo fare riferimento ai dati di rilevazione ISTAT del gennaio 2018 che attestano che le unioni civili costituite in Italia e le trascrizioni di unioni costituite all’estero fra persone residenti sono circa 13,3 mila (pari al 0,02% della popolazione), di sesso maschile nel 68,3% dei casi.
Gli uniti civilmente hanno un’età media di 49,5 anni se maschi e di 45,9 anni se femmine e risiedono prevalentemente nel Nord (56,8%) e al Centro (31,5%).
In Italia, a partire da luglio 2016 e fino al 31 dicembre 2017, sono state costituite nel complesso 6.712 unioni civili (2.336 nel 2° semestre 2016 e 4.376 nel corso del 2017) che hanno riguardato prevalentemente coppie di uomini (4.682 unioni, il 69,8% del totale).
Le unioni civili sono più frequenti nelle grandi città: il 35,4% è stato costituito nelle 14 città metropolitane, e quasi una su quattro a Milano, Roma o Torino.
I dati potrebbero portare a pensare che il trend di costituzione delle unioni civili sia in aumento ma al momento non sono disponibili dati per il 2018.
I dati di cui sopra, che descrivono una realtà familiare, hanno di fatto delle ricadute dirette nell’ambito delle relazioni fra impresa e lavoratore.
Esistono vicinanza e contiguità fra il diritto del lavoro ed il diritto di famiglia in ragione del fatto che i lavoratori sono prima di tutto persone e in questo senso è corretto affermare che molteplici diritti, nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato e nell’ambito previdenziale, sono costruiti sul presupposto di un legame di tipo familiare che il lavoratore ha con partner e figli.
Dal fatto di contrarre un’unione civile deriva l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale, il che ha importanti implicazioni e ricadute nel campo del diritto del lavoro.
La l. n. 76 del 2016, al co. 20, ha introdotto una clausola c.d. “di salvaguardia” prevedendo una generale equivalenza tra matrimonio e unione civile, nel rispetto dell’art. 3 Cost., con evidente funzione antidiscriminatoria. La norma dispone, in particolare, che al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti, ovunque ricorrano nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applichino anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso.
Grazie alla l. n. 76 del 2016, le parti di un’unione civile possono quindi beneficiare di un congedo equiparabile a quello concesso in occasione del matrimonio, dei permessi mensili ex L. 104/1992 per l’assistenza del partner con handicap in condizione di gravità, di congedi straordinari per assistere familiari in situazioni di accertata gravità, delle tutele previste dai CCNL in caso di trasferimento di un lavoratore coniugato o con familiari a carico, delle prestazioni assistenziali sanitarie previste dai CCNL, di tutte le tutele previste dai CCNL in presenza di un coniuge, delle detrazioni fiscali per familiari a carico, delle indennità in caso di decesso del prestatore di lavoro unito civilmente, delle provvidenze in materia previdenziale erogate dall’INPS e dalla previdenza complementare introdotta dalla contrattazione collettiva.
Ed ancora, la presunzione di nullità del licenziamento intimato in concomitanza con il matrimonio si estende anche al licenziamento intimato in concomitanza di un’unione civile ovvero dal giorno in cui le parti avanzano all’ufficiale di stato civile la richiesta di costituire un’unione civile e sino ad un anno dopo la costituzione dell’unione civile stessa. Nei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo il datore di lavoro che non voglia incorrere in un licenziamento discriminatorio dovrà tenere conto, nell’ambito dei carichi di famiglia, dell’eventuale unione civile del lavoratore.
La clausola non si applica alle norme del codice civile non espressamente richiamate nella legge e alle disposizioni in materia di adozione.
Lo stesso co. 20 recita “resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti”; in questo senso il legislatore non è intervento con una regolamentazione delle adozioni omo parentali e ha delegato la questione alle decisioni dei giudici, abdicando in parte alla sua funzione.
Sappiamo che questo “compromesso” si è reso necessario per portare a termine l’iter parlamentare della legge, ma questo risultato ha lasciato sul campo numerose questioni di estrema rilevanza giuridica che non hanno trovato soluzione univoca e che hanno ricadute nell’ambito giuslavoristico, soprattutto in materia di congedi parentali.
Se da un lato non vi è dubbio che il lavoratore genitore biologico di un minore nell’ambito di un’unione civile possa godere di permessi e congedi, quali diritti ha il genitore sociale?
Da un punto di vista puramente giuridico, il legame è rilevante solo a seguito del riconoscimento, in via giudiziaria o amministrativa, del rapporto di filiazione fra il genitore sociale e il figlio biologico del suo partner nell’ambito di un’unione civile.
La fotografia ad oggi è quindi quella di un contesto in cui gli uniti civilmente godono di diritti reciproci ma sono limitati nel godimento dei diritti rispetto ai figli non biologici in assenza del riconoscimento del rapporto di filiazione.
Detto ciò, tenuto fermo quanto riconosciuto, il punto cruciale è capire come ci si possa muovere nell’ambito del vuoto normativo che richiede sin d’ora tutela a fronte del fatto che la realtà è più avanti di quella descritta dal legislatore.
Una soluzione importante ai temi prima evidenziati è rappresentata dagli interventi che, nel contesto della contrattazione collettiva, sono stati proposti per definire criteri di accesso che non si fermano al puro dato normativo e consentono di raggiungere livelli di protezione più equi, al di là dell’equiparazione frutto della norma di legge.
Quando si menziona la contrattazione collettiva, si intendono i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria, ciò ai sensi dell’art. 51 del D. Lgs. 81/2015.
Vero è che la contrattazione collettiva nazionale ha recepito la nuova legge dando esplicitamente atto dell’intervenuta equiparazione dei diritti degli uniti civilmente a quelli propri dei coniugi, in alcuni casi in maniera espressa per i singoli istituti (CCNL Energia e Petrolio; CCNL Commercio Terziario Distribuzione e Servizi PMI) in altri casi con una clausola di carattere generale che consentisse l’equiparazione in tutte le parti del contratto (CCNL Federculture).
Mentre rimane ancora appannaggio delle singole imprese giocare d’anticipo rispetto all’ordinamento giuridico vigente e proporre soluzioni innovative ai propri dipendenti o predisponendo policy di elargizioni unilaterali oppure definendo con le rappresentanze sindacali “diritti sociali contrattati”.
Nel corso della prima parte del convegno analizzeremo gli effetti, diretti e indiretti, espliciti e impliciti, di queste politiche aziendali attraverso gli esempi pratici illustrati da chi, sul tema, ha deciso di tracciare un solco importante.
Vi ringrazio per l’attenzione e lascio la parola a Igor Suran, direttore esecutivo di Parks, che ha accettato con entusiasmo di collaborare alla realizzazione di questo convegno e senza l’aiuto del quale oggi non saremmo qui.
A Igor spetta il compito di coordinare la tavola rotonda.
Sarà molto interessante condividere le esperienze di queste aziende che sono un punto di riferimento per i datori di lavoro che stanno intraprendendo un percorso di inclusione globale.
Sono certa che riusciremo a trasmettere il messaggio positivo nel quale crediamo e cioè che l’inclusione fa bene alle persone, ma fa molto bene anche alle aziende che la mettono in pratica.

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Marco Chiesara docente al Master per dirigenti del Terzo Settore

L’avvocato Marco Chiesara, terrà oggi, giovedì 9 maggio dalle ore 17:30 alle ore 20:30, una lezione nell’ambito del “Master per Dirigenti del Terzo Settore” dal titolo: “Le responsabilità nella gestione del personale retribuito e volontario” in cui parlerà del rapporto di lavoro subordinato e di lavoro autonomo e del loro corretto inquadramento.
La lezione si svolgerà presso la sede di Ciessevi – Piazza Castello, 3 – Milano.
In allegato il PDF con il programma completo del master

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Gig economy: l’Europa disattende l’esigenza di tutele minime per tutti i lavoratori

L’ultimo editoriale del Prof. Francesco Bacchini, per il Quotidiano di IPSOA, affronta il tema delle tutele per i lavoratori della Gig economy alla luce della Direttiva UE sulle condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili.
Allo scopo di garantire più tutele per tutti i lavoratori, è stata approvata la delibera del Parlamento europeo del 16 aprile 2019 in vista dell’adozione della direttiva relativa alle condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione europea. Ma garantire le tutele per tutti i lavoratori è un’affermazione, purtroppo, vera solo in minima parte. Infatti, alla luce delle considerazioni preliminari, risulta chiaro che la direttiva, pur richiamando la Carta dei diritti fondamentali (che sancisce che ogni lavoratore ha diritto a condizioni di lavoro che ne rispettino la salute, la sicurezza e la dignità, a una limitazione della durata massima del lavoro, a periodi di riposo giornalieri e settimanali e a un congedo retribuito), si occuperà solo dei lavoratori subordinati e non si applicherà ai lavoratori autonomi della gig economy, organizzati o meno dal committente.

ll lavoro sta cambiando; il modo di domandarlo e quello di prestarlo, stanno cambiando, anzi sono già cambiati e non da oggi; il fatto è che, forse, non ce ne siamo davvero accorti o, più probabilmente, abbiamo preferito non farlo.
 
Destrutturandosi e flessibilizzandosi, nel tentativo, spesso vano, di adattarsi affannosamente alle frequenti variazioni, esogene ed endogene, del mercato, il lavoro si è fatto sempre meno stabile e più discontinuo, temporaneo piuttosto che permanente, troppo spesso povero.

Il lavoro che cambia

La quarta rivoluzione industriale, quella delle macchine intelligenti digitalmente connesse, modificando profondamente il sistema economico-produttivo sotto la spinta tecnologica dell’automazione, della remotizzazione dei processi, della connettività temporale della prestazione e dell’interazione costante e bilaterale tra produttori (sia lavoratori che imprese) e consumatori, figlia di nuovi strumenti di comunicazione e di personalizzazione dei prodotti e dei servizi, intacca addirittura l’archetipo lavoristico della subordinazione proponendo un menù “à la carte” di figure professionali globalizzate apparentemente nuove e nuovissime: informal workers, platforms workers, digital workers, on demand workers, smart workers; tutte di incerta natura giuridica e altrettanto incerta tutela lavoristica.
 
Per scaricare il pdf dell’intero articolo cliccare qui
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Lexellent cresce con l’ingresso del nuovo Equity Marco Chiesara

Milano, 6 maggio 2019 – Lexellent è lieta di ufficializzare l’ingresso di Marco Chiesara, che entra in qualità di nuovo Equity Partner dello Studio.
Giuslavorista di fama, proveniente da Crea Avvocati Associati che ha contribuito a fondare e nell’ambito del quale è stato responsabile del dipartimento di diritto del lavoro, Chiesara entra in Lexellent insieme all’avvocato Valentina Messana.
Con l’ingresso di Chiesara e Messana, Lexellent amplia i propri servizi dando vita a un dipartimento dedicato al Terzo Settore, ambito nel quale i due professionisti operano al fianco di numerose organizzazioni.
Chiesara infatti, ha sviluppato anche una solida competenza gestionale nell’ambito del Terzo Settore, essendo dal 2007 Presidente di WeWorld Onlus, un’organizzazione non governativa attiva, tra l’altro, nel contrasto alla violenza di genere e nella promozione della parità di genere.
Lexellent guarda al futuro in ottica di sviluppo e l’ingresso dell’avvocato Chiesara è indicativo della direzione intrapresa dallo Studio” – ha commentato la Managing partner Giulietta Bergamaschi – “La nomina di Marco Chiesara rappresenta un ulteriore rafforzamento della compagine di Studio e introduce all’interno dei nostri servizi una nuova e specifica competenza in ambito giuslavoristico per il Terzo Settore”.
La notizia è disponibile anche su:
Diritto 24
Legalcommunity
Top Legal 
Il Sole 24 Ore
MAG by Legalcommunity

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La moda e la sua tutela legale – 3 maggio 2019, Napoli

L’avvocato Renato D’Andrea parteciperà in qualità di relatore alla tavola rotonda dal titolo: “La moda e la sua tutela legale. Tutela preventiva, valorizzazione e internazionalizzazione del brand” che si terrà venerdì 3 maggio dalle 11:00 alle 15:00 presso il Palazzo dei Congressi Federico II, via Partenope 36 a Napoli.
La tavola rotonda si svolge durante NapoliModaDesign, la rassegna giunta alla sua quarta edizione, diretta dall’architetto Maurizio Martiniello che da sempre si prefigge come obiettivo l’integrazione fra le diverse realtà locali e nazionali nei settori di Moda e Design.
Programma completo della Tavola Rotonda:
Introduzione e Presentazione

Arch. Maurizio Martiniello – Art Director Napoli Moda Design
Avv. Annarita Borelli – Fashion Lawyer
Modera 
Avv. Linda Maisto – Consigliere Ordine Avvocati Napoli Nord
Saluti
Avv. Gianfranco Mallardo -Presidente Ordine Avvocati Napoli Nord
Dott. Antonio Tuccillo – Presidente Ordine Commercialisti Napoli Nord
Avv. Mike Lubrano -Presidente AIGA Napoli Nord
Dott. Tommaso Casillo – Vice Presidente Regione Campania
Interventi
Dott. Domenica Airoma – Procuratore della Repubblica
Dott. Francesco Corbello – Dubai Investment Development Agency
L’internazionalizzazione del marchio ed il made in Italy
Avv. Nicola Barbatelli – Foro di Napoli Nord
La negoziazione e gli accordi specifici di settore
Avv. Leone Massa – Camera Civile S. Maria Capua Vetere
La tutela del brand e dei segni distintivi anche atipici nel web (tutela del nome e dominio)
Avv. Elena Olivetti – Foro di Milano – Arbitrando
Arbitrato e clausola arbitrale nei contratti della filiera produttiva della moda
Avv. Renato D’Andrea – Foro di Milano – Arbitrando
Unregistered fashion design e tutela in arbitrato
 
Clicca qui per scaricare la locandina in formato PDF

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L’inclusione dei lavoratori e delle lavoratrici LGBT in Italia, Francia e Germania – Programma

Lexellent, in collaborazione con Parks e il patrocinio del Comune di Milano, ha organizzato per il 7 maggio 2019 un incontro dedicato al tema dei lavoratori LGBT presso la Fondazione Stelline a Milano.
Pubblichiamo il programma completo dell’evento:
9:00 – Registrazione
9:30 – Introduzione ai lavori del convegno | a cura di Lexellent
9:45 – Tavola rotonda: CCNL, contratti integrativi aziendali e policy: l’inclusione dei lavoratori e delle lavoratrici LGBT a tre anni dall’entrata in vigore della Legge Cirinnà | Coordina Igor Suran Direttore esecutivo Parks
Interverranno:

  • Andreina Grisolia Country HR Business Partner, Diversity&Inclusion Leader Sanofi Italia
  • Manfredi Rimbotti Responsabile Relazioni Sindacali Direzione HR Findomestic Banca S.p.A.
  • Sarah Bonte Responsabile Corporate Social Responsibility Risorse Umane & Sostenibilità, CNP Vita S.p.A.
  • Riccardo Lamanna Country Head e Managing Director State Street Bank Italia

11:15 – Coffee Break
11:45 – Francia e Germania a confronto sul tema dell’inclusione
Interverranno:

  • Jens Magers Rechtsanwalt e Avvocato Stabilito, RITTERSHAUS (Monaco)
  • Matteo M Winkler Assistant Professor, HEC (Parigi)

12:20 – Conclusioni | a cura di Lexellent
Alleghiamo la locandina in formato PDF
Per iscriversi:
Eventbrite
Oppure scrivere a: lexellent@lexellent.it

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Lavoro, dl dignità e decretone riaccendono il contenzioso – Italia Oggi 7

Con l’approvazione in terza lettura, al Senato, in via definitiva, del cosiddetto decretone (decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4) che introduce il reddito di cittadinanza e i pensionamenti anticipati a Quota 100, prende forma il pacchetto welfare e lavoro del governo Conte. Che aveva iniziato a delinearsi con il varo del cosiddetto decreto dignità (decreto legge n. 87/2018 convertito, con modifiche, nella legge n. 96 del 9 agosto 2018), la scorsa estate, i cui effetti di una crescente litigiosità, e di freno nelle politiche di assunzione da parte delle imprese, si stanno registrando da qualche mese.
A rilevarlo è un osservatorio privilegiato, cioè quello degli studi legali che si occupano di diritto del lavoro, che Affari Legali ha voluto sentire per fare un punto sull’impatto delle misure introdotte. È il decreto dignità il provvedimento che suscita maggiori preoccupazioni tra i giuslavoristi. L’attenzione delle imprese è rivolta principalmente alla norma che ha ridotto (da 36 a 24 mesi) la durata massima dei contratti a termine e di somministrazione di lavoro; ha previsto l’obbligo di indicare specifiche causali per i contratti di durata superiore ai 12 mesi o in caso di rinnovo o proroga di contratti di durata inferiore. Poi ha inasprito le sanzioni per il licenziamento illegittimo dei lavoratori assunti con contratto a tutele crescenti, portando i limiti minimi e massimo dell’indennizzo, rispettivamente, a 6 e 36 mensilità (rispetto ai 4 e 24 mesi previsti dal Jobs Act).

Secondo Giulietta Bergamaschi, managing partner di Lexellent, «per il Rdc la difficoltà sta nel capire quanti saranno gli imprenditori disposti ad accettare la sfida di assumere a tempo indeterminato il primo soggetto e soprattutto quanti saranno davvero in grado di includerli nel modo del lavoro di modo che questi lavoratori sviluppino le competenze necessarie a rimanere nel mondo produttivo e a reimpiegarsi autonomamente senza dover continuamente ricorrere a strumenti pubblici di inclusione sociale. Le imprese sono molto critiche nei confronti del Rdc e non pare che l’incentivo all’assunzione e all’auto-imprenditorialità al momento siano in grado di modificare questa iniziale posizione. C’è il potenziale rischio per Anpal legato all’ingaggio dei navigator ai quali sarà conferito un incarico di collaborazione, ovvero con un rapporto di natura autonoma, anche se la questione sotto il profilo giuridico è molto complessa. Non escludo poi che la riforma ponga anche questioni di legittimità costituzionale soprattutto con riferimento ai criteri per Quota 100, anche all’esito dell’esame parlamentare».
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Flat tax: un “incomprensibile” privilegio (solo per lavoratori autonomi)

L’ultimo editoriale del Prof.Francesco Bacchini, per il Quotidiano di IPSOA, parla di Flat tax e delle differenze tra lavoratori autonomi e lavoratori dipendenti.

Un’altra deroga alla progressività delle imposte dirette. L’introduzione della flat tax, o tassa piatta, ad opera della legge di Bilancio 2019, va ad esclusivo vantaggio del lavoro autonomo-indipendente. Un vero e proprio favor fiscale riservato agli autonomi (che fuoriescono dal regime IRPEF) a scapito del lavoro subordinato-dipendente (che, invece, ci resta dentro in pieno). E i numeri parlano chiaro. A parità di reddito intorno ai 64.000 euro, un lavoratore subordinato anche con due figli a carico sborsa circa 10.000 euro in più di imposte rispetto al professionista indipendente con partita IVA in regime forfettario. Perché avvantaggiare fiscalmente il lavoro autonomo e l’impresa individuale a danno del lavoro dipendente?

Alla dicotomia lavoro autonomo/contratto d’opera e lavoro subordinato, alla contrapposizione lavoro indipendente e dipendente, da sempre al centro del dualismo ontologico del diritto del lavoro, non sfugge, ovviamente, nemmeno la disciplina giuridico-tributaria.
Infatti, la modalità di determinazione del reddito delle persone fisiche da lavoro autonomo (artt. 53-54 TUIR), ossia del reddito prodotto da chi esercita abitualmente arti o professioni in quanto titolare di partita IVA, è diversa rispetto a quella di chi esercita la propria attività lavorativa alle dipendenze e sotto la direzione di un datore di lavoro (artt. 49-52 TUIR).
Appurata questa differenza strutturale, comune ad entrambi i redditi soggetti a imposta è (ma, forse, sarebbe più corretto dire era) l’applicazione del principio di progressività (e non di proporzionalità) del sistema tributario così come sancito dall’art. 53 Cost., il quale comporta che ciascuno sia chiamato a concorrere alla spesa pubblica in base alle proprie risorse cioè alla propria capacità contributiva, di modo che, con funzione qualificatrice della stessa e in applicazione del principio di uguaglianza sostanziale, al raggiungimento di determinate soglie di reddito, chi ha meno proventi versi meno e chi ne ha di maggiori versi di più, dovendo gli introiti che lo Stato ricava dal gettito fiscale, rispondere, comunque, a criteri di giustizia distributiva ed eguaglianza del carico tributario.
A ben vedere, però, l’applicazione unitaria del principio di progressività del sistema tributario, il quale, non a caso, trova piena attuazione solo in relazione alle imposte c.d. dirette, ossia quelle che, come l’IRPEF, colpiscono le forme immediate di produzione del reddito, ha subito, in relazione ai compensi imponibili riguardanti il lavoro, autonomo o subordinato, una ormai risalente scissione a tutto vantaggio del primo nei confronti del secondo.
Infatti, prima il regime fiscale dei minimi (introdotto dalla legge n. 244/2007 e in vigore dal gennaio 2008 al 31 dicembre 2015), poi il regime fiscale forfettario (introdotto dalla legge di Stabilità 2015 per poi essere riformato completamente l’anno successivo con la legge di Stabilità 2016, con tassazione determinata, entro soglie prefissate, da un coefficiente di redditività a seconda del tipo di attività svolta dal contribuente), già avevano derogato, seppure entro limiti reddituali contenuti (30mila euro il primo, da 25mila a 20mila euro il secondo), al principio costituzionale della progressività tributaria applicato ai redditi da lavoro autonomo.
Ben più rilevante, siccome potenzialmente in grado di alterare irrimediabilmente il sistema tributario progressivo e con esso l’applicazione concreta del principio di uguaglianza sostanziale discendente da quello della capacità contributiva, è, però, a causa del cospicuo innalzamento del limite reddituale (più del doppio rispetto a quello precedente), la deroga alla progressività delle imposte dirette conseguente alla modifica introdotta dalla legge di Bilancio 2019 alla previgente disciplina del regime fiscale forfettario, alla quale si aggiunge, ma a partire dal 2020, l’introduzione della flat tax, o tassa piatta, vera e propria.
Si tratta, con tutta evidenza, di una alterazione a esclusivo vantaggio del lavoro autonomo-indipendente nei confronti di quello subordinato-dipendente, di un vero e proprio favorfiscale, costituzionalmente ingiustificato, riservato al primo (che fuoriesce dal regime IRPEF) in spregio del secondo (che invece ci resta dentro in pieno).
Basta confrontare gli scaglioni IRPEF 2019 e le aliquote attualmente in vigore che si applicano, indistintamente, al reddito dei lavoratori subordinati (e dei pensionati), che vanno dal 23% per lo scaglione di reddito fino a 15.000 euro al 43% per lo scaglione di reddito oltre i 75.000 euro, con l’unica aliquota del 15% (o quella ancor più bassa del 5% nel caso di nuove iniziative produttive) prevista per i lavoratori autonomi (e gli imprenditori individuali) per un reddito fino a 65.000 euro; aliquota che, con l’avvio della flat tax nel 2020, arriverà al 20% per i redditi da 65.000 fino a 100.000 euro.
La disparità di imposizione è solare, inoppugnabile e a ben poco serve per riequilibrare la situazione il (complesso) sistema di deduzioni e detrazioni le quali continueranno ad applicarsi al reddito dei primi e non a quello dei secondi, il quale è presunto forfettariamente partendo dal fatturato (non così per i contribuenti ai quali si applicherà la flat tax, il cui reddito imponibile sarà calcolato sulla base della loro contabilità). Ma c’è di più: per lavoratori autonomi e imprenditori individuali, al vantaggio dell’unica aliquota al 15% si aggiunge la riduzione del 35% della contribuzione previdenziale e l’esclusione dal campo di applicazione dell’IVA che non dovrà più essere versata.
L’Ufficio Parlamentare del Bilancio (UPB) stima che entro il 2020 l’80% dei lavoratori autonomi e degli imprenditori individuali usufruirà dell’aliquota unica al 15 o al 20% con una perdita di gettito complessiva a partire dal 2021 di circa 2,5 miliardi di euro. Il beneficio fiscale medio calcolato dall’UPB per lavoratori autonomi e imprenditori individuali con reddito fino a 65.000 euro si aggira fra i 5.600 euro per i primi e 4.500 euro per i secondi. Ben più ampio, invece, è il risparmio fiscale medio, dal 2020, per i lavoratori autonomi con redditi da 65.000 a 100.000 euro, che l’UPB valuta oltre 7.200 euro, mentre decisamente inferiore nella medesima fascia di reddito è il risparmio per gli imprenditori individuali che dovrebbe mediamente raggiungere i 3.700 euro.
Ricordato che, per lavoratori autonomi e imprese individuali optare per il regime forfettario e dal 2020 per la flat tax potrebbe non essere sempre conveniente e ciò in particolare per i redditi bassi e alti costi sostenuti (superiori al 22% riconosciuto dal forfait) non potendo compensarli con l’IVA pagata; ricordato inoltre che, all’opposto, tale regime risulta decisamente vantaggioso per i redditi alti prossimi ai 65.000 euro con bassi costi di esercizio (quantificabili nel 5-10% del reddito); e sottolineato che oggi possono aderire, diversamente dal passato, al regime forfettario e alla flat tax anche i lavoratori dipendenti(e i pensionati) per la parte di reddito da lavoro autonomo con partita IVA, con un risparmio fiscale davvero considerevole, il confronto con l’IRPEF dei lavoratori dipendenti (ma anche dei lavoratori autonomi con redditi al di sopra della soglia del regime forfettario e della flat tax) è impietoso.
Infatti, ad esempio, a parità di reddito intorno ai 64.000 euro, un lavoratore subordinato anche con due figli a carico sborserà circa 10.000 euro in più di imposte rispetto al professionista indipendente con partita IVA in regime forfettario o flat tax e, pur considerando deduzioni e detrazioni, escludendo casi limite, è inverosimile, anche per i redditi più bassi da lavoro dipendente, sui quali l’incidenza di tali istituti è maggiormente rilevante, che le imposte sul reddito di questi ultimi possano pareggiare quelle forfettarie dei lavoratori autonomi. E ciò anche in presenza di una consistente elargizione datoriale dei flexible benefit del welfare aziendale (beni e servizi di utilità sociale tax free) e dei premi di risultato (massimo 3.000€ per redditi fino a 80.000 euro) per i quali è prevista la tassazione piatta al 10%.
Si tratta, in ogni modo, di differenze ragguardevoli e difficili da giustificare anche volendo argomentare che la disparità di trattamento fiscale discenda dal fatto che i lavoratori autonomi e gli imprenditori individuali sopportano un rischio economico al quale i lavoratori dipendenti (almeno sulla carta) non soggiacciono.
Perché, dunque, avvantaggiare fiscalmente il lavoro autonomo e l’impresa individuale a scapito del lavoro dipendente?
E’ probabile, prescindendo da mere strategie di politica elettorale, che, da una parte, si sia voluto evitare di disperdere il beneficio contributivo concentrando la riduzione del carico fiscale solo su una categoria di soggetti e nella scelta di tale categoria potrebbe aver giocato un qualche ruolo la convinzione, del tutto indimostrata, che lavoratori autonomi e imprenditori individuali esprimano una maggiore attitudine al consumo rispetto ai lavoratori dipendenti e ai pensionati e quindi potenzialmente in grado di generare un maggiore effetto espansivo sulla domanda interna di beni e servizi, ma che, soprattutto, dall’altra parte, abbia pesato la circostanza che il gettito IRPEF derivando per l’80% proprio dalle imposte di dipendenti e pensionati non poteva essere oggetto di un altrettanto consistente taglio fiscale.
Del resto, proprio in questi giorni, esponenti di governo hanno lanciato l’idea di una flat tax anche per i lavoratori dipendenti o, meglio, per il reddito familiare, a due aliquote del 15 % per redditi fino a 80.000 euro e del 20% per redditi eccedenti tale limite, con deduzioni progressive per ogni componente a seconda della soglia di reddito annuale; idea che, secondo gli esperti del Ministero dell’Economia e delle Finanze, determinerebbe quasi 60 miliardi di euro di mancate entrate, risultando di fatto irrealizzabile.
Rebus sic stantibus, si potrebbe azzardare l’affermazione che il regime fiscale forfettario e la flat tax per lavoratori autonomi e imprenditori individuali possa rappresentare un ulteriore step di progressiva appetibilità del lavoro indipendente, nell’ormai secolare competizione, giocata fra tutele e benefici ad assetto variabile, con il lavoro subordinato.
Il profilo di vantaggio fiscale si aggiungerebbe, infatti, al profilo propriamente lavoristico delle tutele riconosciute al lavoro autonomo dal Capo I della l. n. 81/2017 e in particolare quelle relative alla indennità di maternità, alla tutela della gravidanza, della malattia e dell’infortunio, alla DIS-COLL, ma anche quelle riguardanti le clausole e le condotte abusive, la deducibilità delle spese di formazione e accesso alla formazione permanente, gli apporti originali e le invenzioni, l’accesso alle informazioni sul mercato e servizi personalizzati di orientamento, riqualificazione e ricollocazione.
Certamente, oggi il lavoro autonomo può essere, rispetto al recente passato, un’opzione più competitiva e seducente del lavoro subordinato, soprattutto sotto la spinta della rivoluzione digitale e delle offerte free lance della platform economy e del crowdsourcing, ma non può essere una scelta, libera o imposta, indotta dalla mera convenienza economica complessiva insita nel vantaggio fiscale.
Ecco dunque che, in quest’ottica, la legge di Bilancio 2019 prevede, fra gli altri divieti di accesso al regime forfettario/flat tax, quello per i lavoratori autonomi che, nei due anni precedenti al periodo d’imposta considerato, risultavano dipendenti dall’attuale committente prevalente, ossia quello che determina più della metà del fatturato del lavoratore autonomo (con esclusione, prevista dal decreto semplificazioni, per chi esercita un’attività di nuova iscrizione ad un ordine o ad un collegio professionale, ovvero i c.d. ex praticanti).
Il divieto di svolgimento dell’attività prevalentemente resa nei confronti del proprio ex datore di lavoro, in altre parole di chi lo è stato nei due anni precedenti o, comunque, di un soggetto ad esso riconducibile, manifesta l’evidente volontà di evitare quello che potremo chiamare il dumping fiscale del lavoro autonomo nei confronti del lavoro dipendente, scongiurando fittizi recessi dal contratto di lavoro subordinato per approdare al vantaggioso regime forfettario o alla flat tax, magari con aliquota al 5% come start up.
Almeno di questo al legislatore va dato atto.
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Donne in ascesa negli organi societari delle società quotate in mercati regolamentati. Tutti i partiti politici convergono per la proroga della legge “Golfo Mosca”

Di seguito l’ultimo articolo a firma dell’avvocato Marina Rugolo per Diritto24, sul tema della parità di genere nelle aziende quotate in borsa. L’Italia è ancora indietro nei ranking internazionali che monitorano  il divario nei diversi paesi, ma gli effetti positivi della presenza femminile nei CdA delle aziende sono noti e i partiti convergono sull’idea di prorogare la Legge n. 120 del 12 luglio 2011 “Golfo Mosca”, primo intervento normativo volto a diminuire questo divario.
Parecchi studi internazionali, tra cui il Global Gender Gap Report, dimostrano che l’uguaglianza tra uomo e donna nel campo sociale, economico e culturale è ancora lontana.
I primi progressi – secondo l’ultima edizione del rapporto (2018) – si sono registrati ma sono ancora piuttosto timidi e l’Italia occupa l’82esimo posto della classifica rispetto alle altre 144 nazioni mappate, perdendo ben 32 posizioni rispetto al solo anno precedente.
Peraltro, il dato maggiormente negativo riguarda proprio l’aspetto economico – centodiciottesima posizione – soprattutto per la discrepanza relativa allo stipendio percepito dalla donna rispetto all’uomo per lo svolgimento delle medesime mansioni (fattore rispetto al quale il nostro Paese scende nella classifica alla 120esima posizione).
La legge n. 120 del 12 luglio 2011 (la cosiddetta legge “Golfo Mosca”)

Nel nostro Paese, con particolare riferimento al ramo societario – uno dei settori in cui il divario tra i due sessi è stato da sempre più difficile da scardinare – le prime modifiche agli artt. 147-ter e 148 del D.lgs. n. 58/1998 sono state introdotte dalla legge n. 120 del 12 luglio 2011, detta “Golfo Mosca”.
Tale intervento legislativo aveva il precipuo scopo di ridurre il notevole squilibrio tra i due sessi registrato nei consigli di amministrazione delle società quotate nei mercati regolamentati.
Difatti, sino al 2010 la presenza femminile nei consigli di amministrazione di tali società quotate era pari al 6% mentre oggi – con l’adozione della legge Golfo Mosca – detta percentuale è aumentata sino al 33,5% con punte periodiche del 37%.
La suddetta legge ha per la prima volta previsto un importante cambiamento nel diritto societario italiano ovvero: la previsione per gli organi sociali delle società quotate, la cui scadenza era prevista a far data dal 12 agosto 2012, di essere rinnovati preservando una quota pari ad almeno 1/5 dei propri componenti alle donne.
L’obiettivo era, infatti, quello di prevedere un aumento della componente femminile a partire già dal secondo e terzo rinnovo degli organi societari.

L’arco temporale prefissato e cioè tre mandati consecutivi – sulla scia di una previsione ottimista – avrebbe permesso alle donne di acquisire un ruolo nei consigli di amministrazione, di dimostrare le proprie competenze così da superare il “gender gap“.
Gli effetti di tale novità nel panorama legislativo sono stati indubbiamente positivi, anche al di là dell’obiettivo prioritario della parità di genere.
Difatti, oltre alla riduzione degli squilibri di genere, la maggiore presenza femminile nella composizione dei CdA ha anche determinato ulteriori cambiamenti migliorativi in termini di abbassamento dell’età media, di innalzamento del livello di istruzione e di maggiore diversificazione per quanto attiene l’esperienza professionale.
I risultati dimostrano, però, che il processo per superare il “gender gap”, per far sì che il genere femminile possa ricoprire parimenti agli uomini posizioni strategiche e di comando è più lungo dei pronostici iniziali.

Cosa prevede la proposta di legge n. 1481 al riguardo?

La proposta di legge n. 1481 presentata il 29 dicembre 2018 finalizzata a riproporre le modifiche agli artt. 147-ter e 148 del Testo Unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al D.lgs. n. 58 del 24 febbraio 1998, in materia di equilibrio tra i sessi negli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate in mercati regolamentati è stato depositata in Senato in data 22 febbraio 2019 ed assegnata alla VI Commissione Finanze in sede Referente il 7 marzo 2019.
In particolare, visti i risultati ottenuti con l’applicazione della legge Golfo Mosca e, tenuto anche conto che il nostro Paese è comunque ben lontano dal raggiungimento dell’obiettivo dell’equilibrio tra i sessi, su iniziativa di più deputati è stata presentata la succitata proposta di legge così da prorogare per altri tre mandati l’applicazione delle previsioni introdotte con la legge n. 120/2011, per non vanificare quanto sin qui effettuato.
Infatti, se da un lato è necessaria la temporaneità delle “azioni positive”, dall’altro lato il legislatore ha il compito di valutare se l’arl’arco temporale prefissato sia “proporzionale e congruo allo scopo perseguito e in rapporto al contesto sociale, politico e culturale di partenza“.
La proroga richiesta è in armonia con le previsioni europee in tema di comunicazione di informazioni da parte di alcune imprese e di alcuni gruppi industriali, recepite nel nostro ordinamento dal D.lgs. 30 dicembre 2016 n. 254, secondo cui la diversità di competenze e punti di vista dei componenti degli organi societari favorisce una maggiore dialettica e conseguentemente un migliore svolgimento delle attività poste in essere dalle società.
Tra l’altro la cessazione di efficacia delle disposizioni di cui alla legge n. 120/2011, creerebbe delle disparità ingiustificate tra società quotate e società a partecipazione pubblica. E ciò in quanto queste ultime avrebbero comunque l’obbligo di attenersi al principio della parità di genere, almeno nella misura di un terzo, nel rispetto di quanto previsto dall’art. 11, comma 4, del testo unico sulle società a partecipazione pubblica, di cui al D.lgs. 19 agosto 2016, n. 175.
Tale iniziativa parlamentare dimostra, pertanto, che il percorso intrapreso con la legge “Golfo-Mosca” va nella giusta direzione, ma occorre una maggiore consapevolezza da parte dell’odierna società del “ruolo” acquisito nel tempo da parte della donna.
Pertanto, la sfida più ambiziosa di tale intervento è quella di far sì che in ambito lavorativo e per tutti i ruoli, le donne possano avere le stesse opportunità degli uomini non solo perché ciò risponde al principio di uguaglianza ma anche perché vari studi dimostrano che il raggiungimento della parità tra i sessi è uno dei fattori di crescita economica del Paese.
È auspicabile, quindi, che tale progetto di legge segua un iter parlamentare veloce, sul quale sono invitate a convergere con determinazione tutte le forze politiche per evitare di vanificare tutti gli sforzi sino a qui compiuti insieme sia dalle donne sia dagli uomini.

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Marco Giangrande nuovo partner dello Studio

Milano, 11 marzo 2019 – È stata ufficializzata la nomina a Partner del Senior Associate Marco Giangrande, dal 2004 con il team di professionisti che hanno fondato Lexellent.
L’avvocato Giangrande segue società italiane e straniere in materia giuslavoristica e previdenziale ed ha una consolidata esperienza nell’ambito ambito delle relazioni industriali, gestione degli esuberi, riorganizzazione della forza lavoro, trasferimenti di azienda e relativo contenzioso.
“Con questa nuova nomina vogliamo premiare non solo le competenze tecniche ma anche la capacità di fare gioco di squadra che è parte del modo di essere avvocato di Marco. Un professionista che è cresciuto nello Studio e insieme allo Studio. Questo dimostra come il nostro modello di crescita sia realmente premiante per i giovani che vogliano affermarsi in questo settore”- ha commentato la Managing partner Giulietta Bergamaschi – “Capace e attento alle esigenze dei clienti, anche talvolta inespresse, Marco Giangrande apporta sempre un apprezzabile valore aggiunto al lavoro del nostro team”.

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Lexellent nel ranking di Chambers&Partners 2019

Chambers & Partners è una delle guide più apprezzate al mondo per chi opera nel settore legale. Nella sua classifica dei più importanti studi, non manca Lexellent, a cui viene ribadita una posizione di riguardo nell’ambito del Diritto del Lavoro in Italia.
Testualmente:
Per cosa è riconosciuta la squadra
Una boutique giuslavorista che affianca i clienti su una vasta gamma di aspetti come salute e sicurezza, trattative sindacali nonché licenziamenti collettivi e individuali. Fornisce inoltre consulenza in materia di contenzioso. Rappresenta clienti nazionali e multinazionali appartenenti a diversi settori industriali tra cui quello farmaceutico.
Punti di forza
Gli intervistati sottolineano “l’eccellente preparazione, la flessibilità e la capacità di comprendere le reali esigenze del cliente“.
Inoltre apprezzano “l’efficacia della consulenza“.
Da evidenziare
Lo Studio ha assistito Vivisol nella revisione dei contratti di lavoro per medici e infermieri.
Legali degni di nota
Giulietta Bergamaschi è riconosciuta per le sue “eccellenti competenze tecniche“.
Fornisce consulenza nella stesura di piani retributivi e nelle trattative con le organizzazioni sindacali.

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Reddito di cittadinanza: cosa potrà fare il navigator freelance

L’ultimo editoriale del Prof.Francesco Bacchini, per il Quotidiano di IPSOA, approfondisce la figura del “navigator”, controversa figura nata in seno alla normativa sul reddito di cittadinanza.
Nella complessa alchimia applicativa della normativa sul reddito di cittadinanza, un ruolo importante, addirittura decisivo, è assegnato al navigator. Una sorta di ufficiale di rotta capace di guidare il disoccupato alla ricerca di un’occupazione sicura, ma anche un po’ guardiano con il compito di verificare la scrupolosa osservanza delle “regole d’ingaggio” da parte di chi beneficia del reddito di cittadinanza. Dall’analisi testuale delle norme sembrano emergere però poche certezze. Tra queste, decisamente due: la natura autonoma (e precaria) del rapporto di lavoro dei navigator e la consistenza (esigua?) dei fondi stanziati per ANPAL Servizi S.p.A. Un salto nel buio?
La comunicazione politica ha fornito ai media un termine inusuale e fantasioso sul quale costruire una delle più improbabili e controverse narrazioni del reddito di cittadinanza: il navigator!
Traducibile in navigatore (ma, più sobriamente, è forse auspicabile “virare” sul termine “tutor”), tale soggetto dovrebbe recitare un ruolo importante, addirittura decisivo, nella complessa alchimia applicativa della normativa sul reddito di cittadinanza: una sorta di ufficiale di rotta o di collegamento (rectius di “collocamento”) capace di guidare i beneficiari fra i marosi del mercato del lavoro e farli approdare ad una occupazione sicura; ma anche un po’ guardiano, o controllore visto che il Ministro Di Maio ha spiegato, bontà sua, che il compito del navigator sarà pure quello di “bussare alla porta” dei fruitori del sussidio e verificarne la laboriosità e la scrupolosa osservanza delle regole d’ingaggio, sicché se il beneficiato “non sta facendo il suo dovere”, vale a dire non si reca al Centro per l’impiego o non assicura le otto ore settimanali di lavori utili (alla collettività), lo zelante “duca” segnalerà le “anomalie nella gestione del processo” delle quali, però, altri verificheranno la rilevanza e la gravità e, previo riscontro, si faranno ufficialmente carico di contestarle.
Tralasciando le dicerie mediatiche sui navigator, con la loro ridda di notizie più o meno verosimili: numero di candidati (potenzialmente 50/60 mila), tipologia di selezione (scartato il concorso pubblico, la valutazione avverrà, previo bando, per titoli, ma quali, e colloqui, forse titoli e test o, addirittura, solo test), durata del rapporto (2 anni rinnovabili o stabilizzabili di cui i primi 6/8 mesi di formazione), ammontare del corrispettivo (oscillante intorno ai 30mila euro lordi annui, che si traducono in circa 1.700/1.800 euro netti al mese, contribuzione esclusa che, si ricorda, però, è a carico del committente per una quota pari a due terzi mentre per il rimanente terzo è a carico del collaboratore, ma l’obbligo del versamento è in capo al primo anche per quanto riguarda la quota del secondo che sarà trattenuta al momento della corresponsione del suo compenso), l’unica certezza in materia è rappresentata, per ora, dal comma 3 dell’art. 12 del D.L. 28 gennaio 2019 n. 4, intitolato “Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni”.
La norma, invero piuttosto generica e lessicalmente opinabile, si limita ad affermare che: “per consentire la stipulazione, previa procedura selettiva pubblica, di contratti con le professionalità necessarie ad organizzare l’avvio del Rdc, nelle forme del conferimento di incarichi di collaborazione, nonché per la selezione, la formazione e l’equipaggiamento, anche con il compito di seguire personalmente il beneficiario nella ricerca di lavoro, nella formazione e nel reinserimento professionale, è autorizzata la spesa nel limite di 200 milioni di euro per l’anno 2019, 250 milioni di euro per l’anno 2020 e di 50 milioni di euro per l’anno 2021 a favore di ANPAL servizi S.p.A. che adegua i propri regolamenti a quanto disposto dal presente comma”.
Dall’analisi testuale del precetto, sembra emerge, dunque, quanto segue:
– le professionalità necessarie ad organizzare l’avvio del Rdc, dovrebbero essere, ragionevolmente, i navigator;
– tali soggetti, che saranno scelti in base ad una procedura selettiva pubblica (vale a dire in base ad una procedura avente ad oggetto la valutazione dei vari profili professionali al fine di selezionare le figure che meglio si adattano all’incarico da conferire e non in base ad un concorso pubblico, ossia ad una procedura in forza della quale vengono selezionati candidati sulla base di titoli posseduti e prove uniformate che ne indaghino preparazione e capacità), dovranno essere adeguatamente formati ed equipaggiati;
– la tipologia contrattuale individuata per la stipulazione del loro rapporto di lavoro è quella dell’incarico di collaborazione e la controparte è ANPAL servizi S.p.A.;
– l’attività oggetto di detto incarico è quella di seguire personalmente il beneficiario nella ricerca di lavoro, nella formazione e nel reinserimento professionale;
– le coperture economiche autorizzate previste per la selezione, la formazione, l’equipaggiamento e la remunerazione dei navigator sono (soltanto) 200 milioni di euro per l’anno 2019, 250 milioni di euro per l’anno 2020 e 50 milioni di euro per l’anno 2021;
– ANPAL servizi S.p.A. deve (innanzitutto) adeguare i propri regolamenti in modo tale da poter gestire e attuale quanto affidatogli dal decreto legge.
Tra le poche certezze appena schematizzate ne emergono, per importanza, decisamente due: la natura autonoma del rapporto di lavoro dei navigator e la copertura economica triennale garantita ad ANPAL Servizi S.p.A.
In relazione al primo aspetto sarebbe sin troppo facile sottolineare come il Governo che ha fatto della “dignità” del lavoro stabile una delle sue bandiere, abbia scelto, quando è sostanzialmente la controparte contrattuale, la via flessibile (e precaria) dell’incarico di collaborazione (coordinata e continuativa). Collaborazione la quale, a ben vedere, tenuto conto che la prestazione di lavoro dei navigator è esclusivamente personale, continuativa, con strumenti di lavoro e modalità di esecuzione predisposte dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro, si configura come organizzata dal committente ex art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 81/2015 ed alla quale si dovrebbe precettivamente applicare “la disciplina del rapporto di lavoro subordinato”.
Tuttavia, e ciò merita di essere messo in evidenza, la scelta strategica del Governo potrebbe risultare pienamente legittima, giacché la disciplina precettiva della collaborazione organizzata dal committente, in forza del comma 4 del citato art. 2 del d.lgs. n. 81/2015, “non trova applicazione nei confronti delle pubbliche amministrazioni”.
Infatti, ritenendo ANPAL Servizi (erede di Italia Lavoro S.p.A.), nonostante la natura societaria, una struttura “in house” strumentale e direttamente sottoposta, tramite ANPAL, al controllo del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali (di concerto con il Ministero dell’Economia e delle finanze), ad essa si estenderebbe lo status di pubblica amministrazione e, quindi, come tale, sarebbe esclusa dall’applicazione della disciplina delle collaborazioni organizzate dal committente.
La natura di pubblica amministrazione di ANPAL Servizi S.p.A., è inequivocabilmente confermata dalla ricognizione delle amministrazioni pubbliche, affidata all’ISTAT dall’art. 1, comma 3, della legge n. 196/2009, ossia della legge di contabilità e finanza pubblica (si veda in questo senso l’ultimo elenco delle Amministrazioni pubbliche, divulgato nell’ottobre scorso, che colloca ANPAL Servizi S.p.A. negli “Enti produttori di servizi economici”).
Il riconoscimento della natura di pubblica amministrazione di ANPAL Servizi S.p.A., però, non risolve del tutto il problema vista la proibizione prevista dall’art. 7, comma 5-bis, del d.lgs. n. 165/2001 in base alla quale è fatto divieto alle amministrazioni pubbliche di stipulare contratti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro (si ricorda che i contratti posti in essere in violazione del suddetto divieto sono nulli e determinano responsabilità erariale). Poiché tale divieto è stato opportunamente differito, da ultimo con il comma 1131, lettera f) dell’art. 1 della L. 145/2018 (legge di bilancio 2019), al 1° luglio 2019, ben si comprende la premura del Governo nel completare rapidamente la contrattualizzazione dei navigator, giacché, per risultare legittimi, tutti gli incarichi di collaborazione con la pubblica amministrazione devono necessariamente essere stipulati entro tale data.
Fuor di metafora, è chiaro che il Governo, in materia di precarietà del lavoro, ha operato, riguardo ai navigator, una scelta in evidente controtendenza con quanto promesso, facendo, per così dire, di necessità virtù, sia in relazione alla tipologia contrattuale stipulabile, la collaborazione, per tacer d’altro, flessibile, cedevole e ambigua, sia, soprattutto, in relazione alla durata della stessa: infatti, stante la copertura economica assegnata è facile preconizzare che l’arco temporale di impiego, a meno di improbabili (vista la difficoltà di reperire nuove risorse) stabilizzazioni e altrettanto improbabili rinnovi (visto il divieto del ricorso alle collaborazioni nelle pubbliche amministrazioni a partire dal 1 luglio 2019), non supererà i due o, al massimo, i tre anni, all’interno dei quali, giova ricordarlo, non meno di 6/8 mesi saranno esclusivamente dedicati alla formazione (sempre che si trovino i formatori disponibili).
Non resta, allora, che attendere l’adeguamento dei regolamenti ANPAL Servizi, il bando per l’espletamento della procedura selettiva pubblica, il testo della regolamentazione contrattuale della collaborazione, la definizione esaustiva dell’attività professionale (un vero e proprio incarico, complicatissimo, di pubblico servizio), in particolare quella di controllo, a valle della verifica del possesso dei requisiti da parte dell’INPS per la concessione del reddito di cittadinanza, avente ad oggetto il riscontro delle reticenze e delle irregolarità da parte del beneficiario che potrebbero far scattare la decadenza o la revoca del sussidio oltreché l’applicazione delle sanzioni anche penali.
Iniziamo bene!
Qui il link per scaricare l’articolo di Francesco Bacchini in versione pdf.

Ferie non godute da parte del Dirigente. Attenzione, si possono perdere

Il nuovo articolo firmato dall’avv. Alberto Buson di Lexellent per la rubrica “Storie Legali” su Affaritaliani tratta la questione delle ferie non godute da parte del Dirigente e dell’impossibilità, in caso di risoluzione del rapporto di lavoro, di ottenere l’indennità sostitutiva con l’effetto di monetizzare il tempo previsto per il recupero delle forze fisiche e intellettive.

Utilizzo permessi 104: occhio, Sherlock Holmes potrebbe “osservarvi”!

Il nuovo articolo firmato dall’avv. Marina Rugolo di Lexellent per la rubrica “Storie Legali” su Affaritaliani, tratta dell’utilizzo illegittimo dei permessi 104 e della possibilità, per il datore di lavoro, di usufruire dello strumento investigativo per appurare le condotte illecite dei dipendenti.

Menù al ristorante, diritto di esclusiva sulle ricette sì o no?

Il nuovo articolo firmato dall’avv. D’Andrea di Lexellent per la rubrica “Storie Legali” su Affaritaliani tratta del diritto di esclusiva sulle ricette dei ristoranti.

Aumento delle sanzioni in materia di lavoro, salute e sicurezza: i chiarimenti dell’Inl

Dall’Ispettorato nazionale del lavoro le prime istruzioni sull’aumento delle sanzioni in materia di lavoro e legislazione sociale, introdotto dalla Legge di Bilancio n. 145/2018.
Nell’ambito di un significativo inasprimento delle sanzioni in materia di lavoro e legislazione sociale, espressione di un “recondito” sfavore nei confronti del  mondo imprenditoriale, l’art. 1, com 445, lett. d), della L. n. 145/2018 (Legge di Bilancio 2019), ha previsto la maggiorazione degli importi sanzionatori di quelle violazioni che, evidentemente più di altre, incidono sulla tutela degli interessi, della dignità e dell’integrità dei lavoratori, su tutte quelle in materia di “lavoro nero”, di somministrazione irregolare di lavoro e appalti non genuini, di inosservanza dei precetti sull’orario di lavoro, sulle ferie annuali e sul riposo giornaliero e, in particolare, di violazione delle disposizione di salute e sicurezza del lavoro.
L’articolo completo di Francesco Bacchini è disponibile su Guida al Lavoro (n. 4 / 25 gennaio 2019) – Il Sole 24 Ore previa registrazione.
 

Accordo Quadro in materia di Molestie e Violenza nei luoghi di lavoro per il Settore delle Telecomunicazioni

16 gennaio 2019: nel settore delle Telecomunicazioni viene firmata l’intesa tra le sigle sindacali Asstel, Slc-Cgil, Fistel-Cisl, Uilcom-Uil in materia di molestie e violenza nei luoghi di lavoro. Un importante traguardo che richiama tutti gli operatori di TLC alla collaborazione per la tutela della dignità e sicurezza della persona
In data 16 gennaio 2019, è stato sottoscritto un Accordo Quadro sulle molestie e la violenza nei luoghi di lavoro tra Assotelecomunicazioni – Asstel e le Organizzazioni Sindacali, Slc-Cgil, Fistel-Cisl, Uilcom-Uil, inteso ad applicare, per il settore delle Telecomunicazioni, l’Accordo Interconfederale Confindustria, Cgil, Cisl, Uil del 25 gennaio 2016.
Le Parti firmatarie di tale accordo, si legge nelle premesse, “si riconoscono e richiamano integralmente i contenuti dell’Accordo Interconfederale del 25 gennaio 2016″, il quale a sua volta recepisce l'”Accordo quadro sulle molestie e la violenza nei luoghi di lavoro”, siglato dalle parti sociali in ambito europeo in data 26 aprile 2007.
L’Accordo, adottato in un’ottica di tutela e valorizzazione dell’individuo, concorre a costruire le condizioni per lo sviluppo sia della persona sia dell’impresa.
L’articolo completo di Alberto Buson su Diritto24 è disponibile per la lettura integrale al seguente link.
 

Sicurezza e trasporti: la responsabilità ricade sull’ultimo anello di una catena

L’avv. Giorgio Scherini, partner di Lexellent, ha collaborato con Logisticamente.it all’approfondimento in materia di sicurezza logistica e normativa UE recepita nel 2018.
L’articolo completo è disponibile al seguente link.

Obblighi contributivi Enasarco, quando “il vestito non fa il monaco”

Il nuovo articolo firmato dall’avv. Gagliano di Lexellent per la rubrica “Storie Legali” su Affaritaliani tratta degli obblighi contributivi Enasarco per le aziende che si avvalgono di agenti e rappresentanti di commercio.

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Spettacolo e manifestazioni pubbliche tra safety e security

I fatti di Torino, (3 giugno 2017, Piazza San Carlo, in occasione della finale di Champions League: 1 morto e piùdi 1.500 feriti) e la recente tragedia di Corinaldo (AN) (6 morti e centinaia di feriti) confermano la necessità di un approccio corretto e pianificato (recepito anche a livello normativo) che occorre tenere nell’organizzare un evento pubblico (che comporti comunque un assembramento di una motitudine di partecipanti): è imprescindibile disciplinare e gestire non solo la safety (intesa come sicurezza sul lavoro drante le fasi di montaggio e smontaggio delle strutture e degli imianti) ma anche la security (intesa come sicurezza e gestione del pubblico).
La gestione della safety
Sul primo aspetto, nell’alvero del D. Lgs. n. 81/2008 (meglio noto come “Testo Unico Sicurezza del Lavoro”) è stato adottato il Decreto Interministeriale 22/07/2014, c.d. “Decreto Palchi”, con cui il legislatore ha disciplinato espressamente la sicurezza nei luoghi di lavoro nell’ambito di spettacoli musicale, cinematografici, teatrali e di intrattenimento, in cui le lavorazioni svolte, pur non rientrando nella difinizione giuridica di “cantiere edile” propriamente inteso (ove statisticamente sono maggiori gli infortuni), presentano comunuqe numerosi rischi da interferenze lavorative.
L’articolo completo di Francesco Bacchini è disponibile su Guida al Lavoro – Il Sole 24 Ore previa registrazione.
 

“Lavoro è cambiamento e innovazione”, il 24 gennaio da Lexellent

Lexellent è lieta di invitarvi al prossimo evento dal titolo “Lavoro è cambiamento e innovazione”. Continue reading ““Lavoro è cambiamento e innovazione”, il 24 gennaio da Lexellent”

NUOVO RICONOSCIMENTO PER GIULIETTA BERGAMASCHI


Lawyer Monthly ha assegnato a Giulietta Bergamaschi, co-founding partner di Lexellent, il premio come Lawyer of the Year Employment & Labour of Italy.
È un riconoscimento molto importante a livello internazionale che non può far altro che rendere orgoglioso tutto lo Studio.
Giulietta si afferma  come una delle maggiori esperte in tema di diversity e di inclusione sul posto di lavoro e si apprezzano di lei anche le sue doti nelle negoziazioni sindacali e nella predisposizione di strategie di business.
Leggi l’articolo su Lawyer Monthly

Lavoro, permessi anche per i papà se la mamma non è dipendente

Genitori lavoratori: come possono essere gestiti i permessi se la mamma non è dipendente? Se la madre è una lavoratrice autonoma e fruisce già dell’istituto dell’indennità di maternità, può ugualmente il padre lavoratore dipendente usufruire di tali periodi di riposo durante il primo anno di vita del bambino? Questi due istituti possono essere cumulabili tra loro o devono invece essere considerati alternativi?
Il nuovo articolo a cura di Lexellent per la rubrica “Storie Legali” su Affaritaliani spiega bene tutti gli aspetti previsti dalla legge.

Agente in esclusiva, monomandatario, regime ordinario: di che cosa parliamo?

L’avvocato Alessia Gagliano ha scritto per la rubrica “Storie legali” un articolo in cui spiega quali sono i limiti e le modalità di svolgimento dell’attività di agente di commercio
Clicca qui per leggere l’articolo

L’incolumità degli spettatori negli eventi e spettacoli pubblici: tra safety e security

Francesco Bacchini ha pubblicato su Diritto24 – Il Sole 24 Ore un commento in merito all’incolumità degli spettatori negli eventi e spettacoli pubblici.
I fatti di Torino (3 giugno 2017, Piazza San Carlo, in occasione della finale di Champions League: 1 morto e più di 1.500 feriti) e l’odierna tragedia di Corinaldo (AN) (6 morti e centinaia di feriti) confermano la necessità di un approccio corretto e pianificato (recepito anche a livello normativo) che occorre tenere nell’organizzare un evento pubblico (che comporti comunque un assembramento di centinaia di partecipanti): è imprescindibile disciplinare e gestire non solo la safety (intesa come sicurezza sul lavoro durante le fasi di montaggio e smontaggio) ma anche la security (intesa come sicurezza e gestione del pubblico).
Sul primo aspetto è stato adottato il Decreto Interministeriale 22/07/2014, c.d. “Decreto Palchi”, con cui il legislatore ha disciplinato espressamente la sicurezza nei luoghi di lavoro nell’ambito degli spettacoli musicali, cinematografici, teatrali e di intrattenimento, in cui le lavorazioni svolte, pur non rientrando nella definizione giuridica di “cantiere edile” propriamente inteso (ove statisticamente sono maggiori gli infortuni), presentano comunque numerosi rischi da interferenze lavorative.
La Circolare del Ministero del Lavoro n. 35 del 24/12/2014 individua, poi, adeguati criteri tecnico-interpretativi del medesimo decreto per orientarne correttamente l’applicazione.
Fra i precetti più significativi si ricorda l’art. 1, nel quale vengono indicate le attività oggetto della specifica disciplina: montaggio e smontaggio delle opere temporanee, compreso l’allestimento e disallestimento di impianti luce, audio e video quindi tutte le lavorazioni accessorie quali carico, scarico e movimentazione delle attrezzature, restando pertanto escluse le attività che si svolgono al di fuori delle fasi di smontaggio e smontaggio delle opere temporanee (o.t.)
L’articolo 2, elenca, inoltre, le particolari esigenze che caratterizzano le attività di montaggio e smontaggio sicuro delle o.t. che hanno determinato l’emanazione dello stesso decreto: a) compresenza di più imprese esecutrici nelle aree di lavoro, con permanenza di durata variabile; b) compresenza di un elevato numero di lavoratori, autonomi o dipendenti, nelle aree di lavoro, con permanenza di durata variabile e con svolgimento di mansioni diverse tra loro; c) frequente presenza di imprese e lavoratori di diversa nazionalità nelle aree di lavoro; d) necessità di completamento dei lavori in tempi brevi, compatibili con lo svolgimento programmato degli spettacoli; e) necessità di realizzazione dei lavori in spazi stretti; f) possibilità di operare in contesti caratterizzati da vincoli architettonici o ambientali; g) rischi derivanti dalle condizioni metereologiche e ambientali in relazione alle attività da svolgersi in luoghi aperti.
Si pensi, a es., all’allestimento di un grande concerto di un cantante, con palco, scenografia, impianti audio, luce e video, eventuali tribune, servizi vari: anche se la data-evento risulta programmata già da tempo, tuttavia, per pochi giorni e all’interno di strutture comunque circoscritte (arene – palasport – stadi) possono venire a concentrarsi anche più di 20 imprese, più di 100 lavoratori, con l’esigenza di montare strutture complesse, e poi smontarle a fine spettacolo, in pochi giorni antecedenti la data, se non lo stesso giorno (c.d. “back to back”: date consecutive in luoghi diversi).
In tali casi risulta chiaro come sia altamente probabile il verificarsi di interferenze lavorative tra tutti i soggetti coinvolti e, conseguentemente, come sia necessario pianificare e gestire dettagliatamente la realizzazione di ogni opera e servizio.
Volgendo le spalle al palco e ponendo l’attenzione alla platea, agli spalti, al pubblico, entriamo nel campo della security.
Basta solo analizzare le copiose sequenze video delle tragedie, purtroppo sempre più frequenti, per riscontrare gli studi tecnici dello specifico settore: quando si diffonde il panico, la platea, ossia il pubblico, gli spettatori, si comporta come un fluido, che scorre e spinge, a seconda delle forze interne, travolgendo e schiacciando chi si trova nel posto sbagliato al momento sbagliato.
E’ per tali motivi che l’organizzatore, d’intesa con le forze dell’ordine e gli organi tecnici preposti al controllo pubblico, deve rispettare le prescrizioni delle Commissioni di Vigilanza (organo adibito al rilascio della cd. “agibilità dei luoghi” per lo svolgimento dell’evento), deve, fra l’altro, tener conto e garantire le vie di fuga, deve assicurare spazi (magari da dividere in settori) e strutture adeguati rispetto al numero degli spettatori, deve assicurare la presenza del personale di “security” (steward) necessario per gestire i controlli e le emergenze.
In tal senso depongono le diverse Circolari, come la cd. “Circolare Gabrielli” (“Pubbliche manifestazioni. Misure a salvaguardia dell’incolumità e della sicurezza delle persone”) adottata nel giugno del 2017 dal Capo della Polizia, Prefetto Franco Gabrielli, e “novellata”, poi, dalla recente direttiva del Capo di Gabinetto del Ministero dell’Interno, il 18 luglio 2018.
Quest’ultima, nell’introdurre le misure di mitigazione del rischio da attuarsi nelle manifestazioni, prende come riferimento il D.M. 19 agosto 1996, relativo alle tecniche di prevenzione incendi per la progettazione, costruzione ed esercizio dei locali di intrattenimento e di pubblico spettacolo, ed il D.M. 18 marzo 1996, relativo alle norme di sicurezza per la costruzione e l’esercizio degli impianti sportivi.
Nel solco della specifica “progettazione dell’evento” si pone anche la recente Norma UNI EN 13200-8:2017, relativa alla “gestione della sicurezza nelle installazioni per spettatori”.
Pubblicata in lingua italiana il 6 febbraio 2018, è stata elaborata allo scopo di identificare i criteri generali per la gestione della sicurezza negli eventi, indipendentemente dalla dimensione, dall’attività o dal profilo del pubblico.
Tra i tanti aspetti trattati, la UNI EN 13200-8:2017 definisce le caratteristiche generali di gestione della sicurezza nelle installazioni per spettatori, delineando le politiche e le procedure di precauzione e protezione.
Viene, fra l’altro, esplicitata la definizione di barriera, da intendersi come qualsiasi elemento di un’installazione per spettatori, permanente o temporaneo, destinato a impedire alle persone di cadere nonché di trattenerle, fermarle o guidarle, così come la definizione di capacità, da intendersi quale numero totale di spettatori in relazione al quale viene progettata l’installazione o alcune divisioni della stessa (blocco o settore).
Degna di menzione è anche la definizione di piano di emergenza, vale a dire del documento redatto per gestire un incidente nelle installazioni per spettatori o nelle vicinanze, laddove si precisa che esso è di proprietà dei servizi di emergenza e/o dell’autorità locale, così come quella di piano di evacuazione, ovvero del documento finalizzato ad assicurare che le installazioni per spettatori possano essere efficacemente evacuate in caso di pericolo secondo quanto previsto dal piano di emergenza.
I piani, però, non finiscono qui, giacché si disciplina anche: il piano di gestione ossia il documento con cui mantenere, prima, durante e dopo l’evento, lo stato ottimale dell’installazione per spettatori conformemente al certificato o alla licenza di protezione e sicurezza, nonché il piano di contingenza vale a dire il documento organizzativo che precisa quali azioni intraprendere per reagire ad incidenti che si verificano sul luogo dello spettacolo e che potrebbero pregiudicare la sicurezza del pubblico o interrompere le normali operazioni legate all’evento.
Ma non basta: la norma UNI prevede altresì la redazione di una pianta delle installazioni per spettatori, definita sulla base delle caratteristiche di progettazione delle installazioni per spettatori e dell’ambiente circostante, in aggiunta alla strategia di sicurezza e protezione durante gli eventi e pure un documento, chiamato politica di sicurezza, realizzato, rivisto e monitorato dall’organizzatore dell’evento, così come l’elaborazione di specifiche procedure di sicurezza che raccolgano il piano operativo e di emergenza, contenente ruoli e responsabilità, livelli di personale (su tutti steward, responsabile steward e gestore delle installazioni), valutazioni del rischio, disposizioni mediche e contingenze varie.
Qualcuno, purtroppo, nell’ampia articolazione dei soggetti obbligati a vario titolo agli adempimenti di safety e security, certamente l’organizzatore dell’evento, ossia la persona (o la struttura) responsabile della produzione dell’evento (a partire dalla progettazione e fino al suo completamento) e il responsabile della sicurezza, ovvero la persona che supervisiona la gestione delle operazioni per la sicurezza del giorno dell’evento, incluse la pianificazione pre-evento e la valutazione post-evento, ma non solo (vedasi Commissione di Vigilanza), a Corinaldo, deve aver omesso o trascurato molto, forse tutto, di quanto abbiamo appena sinteticamente richiamato.

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The Jobs Act after the recent Constitutional Court decision

The rigid and uniform criterion used to determine the compensatory indemnity due to an employee dismissed without just cause or justified reason, established by Legislative Decree no. 23/2015 concerning the employment contract known as “increasing protection contract” which consists of the payment by the employer of an indemnity of 2 months’ salary per year of employment (minimum 6 – maximum 36 months’ salary) is unconstitutional. The discretionary assessment of the court therefore raises once again the issues of the uncertainty of the cost of the dismissal and the discretionary evaluation of the courts which had been considered overcome.

Giulietta Bergamaschi, Employment Law Specialist, Managing Partner of Lexellent
Compensatory damages for unlawful or unfair dismissal, regulated by Section 3, sub-section 1, of Legislative Decree no. 23/2015, not modifiable by the judge, takes on, according to the Constitutional Court, the characteristics of a “fixed and standardised payment”.
Hence the contrast between the criterion of determination of the indemnity and the principles of equality and reasonableness established by section 3 of the Italian Constitution, and the protection established by sections 4 and 35 of the Italian Constitution, and in relation to section 24 of the European Social Charter, and sections 117, sub-section 1, 76 of the Italian Constitution.
With reference to the principle of equality, the Constitutional Court finds an unjustified “identical protection” in the fixed mechanism for determining the indemnity with respect to “substantially highly dissimilar situations”.
According to the Constitutional Court it is “common knowledge, amply proven by case law, that the prejudice created in the various cases by unfair or unlawful dismissal stems from a plurality of factors” and not only from length of service.
Factors which must be taken into consideration by the court when determining the indemnity in order to respond “to the need to personalise the harm suffered by the worker” imposed by the principle of equality to avoid undue homogenisation of situations which in actual experience may be quite different one from the other.
With reference instead to the principle of reasonableness, the Constitutional Court considers that the indemnity established by section 3, sub-section 1, of Legislative Decree 23/2015 does not “constitute an adequate remedy for the actual prejudice suffered by the worker due to unfair or unlawful dismissal, and neither is it adequate to dissuade the employer from unfairly or unlawfully dismissing a worker”.
In particular, what is inadequate in this sense is not, according to the Constitutional Court, the upper limit of 24 months’ salary (now 36 months’ salary as a result of the amendments introduced by Law Decree no. 87/2018, converted into Law no. 96/2018), but the rigid criterion used to determine the indemnity, which is deemed inopportune, particularly when the length of service is quite short.
This indemnity does not compensate for the prejudice suffered by the worker and does not constitute an adequate dissuasion for the employer to unfairly or unlawfully dismiss a worker, therefore “does not create a balance of the interests at stake: the company’s freedom to organise on one hand and the protection of the unjustly dismissed worker on the other”.
Hence the contrast with sections 4 and 35 of the Italian Constitution, as the worker’s interest in having a stable job is not well enough protected by a provision such as the one at hand, which is not able to dissuade the employer from dismissing an employee unfairly.
According to the Constitutional Court, section 3 sub-section 1 of legislative decree no. 23/2015 is, furthermore, in contrast with section 117 of the Italian Constitution in relation to art. 24 of the European Social Charter: the reference, in particular, is to a principle expressed by the European Social Rights Committee. The Court, in fact, recognized the authority of the decisions taken by the Committee, which, in relation to the determination of the indemnity due for arbitrary dismissal affirmed its adequacy “if it is such as to ensure adequate reparation for the real prejudice suffered by the worker dismissed without good reason, and to dissuade the employer from dismissing employees unjustly”.
With this decision by the Constitutional Court, the certainty of the monetary indemnity, increasing but not modifiable, is definitively overridden.
Discretionary assessment by the court raises again the issue of quantifying it for those who work in the sector – judges, lawyers, finance people, etc. One thing is certain, however: what we are dealing with is a compensatory indemnity for unfair dismissal which is once again uncertain, variable, and differs dramatically from one tribunal to another, while remaining within the pre-established minimums and maximums.
 

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Al via la rubrica “Storie legali”

Lexellent a partire da oggi si occuperà della redazione della rubrica “Storie legali” presente sul quotidiano online Affaritaliani.it.
Ecco il primo articolo in tema di molestie sul luogo di lavoro

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Sicurezza è organizzazione

Nelle società di capitali e nelle organizzazioni complesse è molto difficile individuare le persone fisiche responsabili di un infortunio sul lavoro (così come di una malattia professionale).
Francesco Bacchini fa chiarezza in questo articolo scritto per Diritto24

Sicurezza del lavoro è organizzazione aziendale

Il 28 novembre dalle 9 alle 13 Lexellent organizza un incontro dal titolo: “Sicurezza del lavoro è organizzazione aziendale” in cui nel dettaglio si parlerà di:
– Introduzione: La sicurezza del lavoro tra i nuovi business del settore (Avv. Giulietta Bergamaschi, Managing Partner Lexellent)
– Breve inquadramento: La struttura organizzativa aziendale della sicurezza (Avv. Hulla Bisonni, Associate Lexellent)
– Conversazione tra penalisti: Casi di cronaca di infortuni sul lavoro sotto la lente dei giudici (Prof. Paolo Aldrovandi, Università Milano-Bicocca, Of Counsel Lexellent e Prof. Luigi Cornacchia, Università del Salento)
– Focus tecnico-organizzativo: Novità e prospettive dei Modelli di Organizzazione e Gestione della sicurezza (Dott. Dario Carrettoni, Presidente Synergia)
– Testimonianza aziendale: L’organizzazione della sicurezza in Aeroporti di Roma (Ing. Canio Pietragallo, Responsabile Salute e Sicurezza – Direzione Generale, Aeroporti di Roma)
– Conclusioni: Sicurezza e Management (Prof. Francesco Bacchini, Università Milano-Bicocca, Partner Lexellent)

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Lexellent è main sponsor di “Save the Brand”

Il 27 novembre 2018 Lexellent parteciperà in qualità di main sponsor alla V edizione di “Save the Brand”, evento organizzato da LC Publishing Group in collaborazione con ICM Advisors.
“Il nostro Studio”, ci spiega Giulietta Bergamaschi, “ha aderito con entusiasmo all’iniziativa in cui si celebra il meglio del Made in Italy poiché riteniamo doveroso sostenere l’imprenditoria nei tre settori, Food Fashion Furniture, che si sono dimostrati all’avanguardia e traino dell’economia del nostro paese”.

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Giulietta Bergamaschi partecipa a WeWorld Festival

L’avvocato Giulietta Bergamaschi parteciperà alla nona edizione del WeWorld Festival, il prossimo 23 novembre presso il Pavilion Unicredit a Milano.
All’interno del workshop “Violenza stereotipi e altre questioni di genere. Responsabilità personali, collettive e legali”, l’avvocato Bergamaschi affronterà l’argomento con un intervento dal titolo: “La questione legale: norme e giurisprudenza”.
Tutto il Festival ruoterà attorno a tematiche quali l’empowerment, la difesa delle donne, i diritti e gli stereotipi al femminile.

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L’avv. Renato d’Andrea il 10 novembre a Venezia all’evento organizzato da Arbitrando

Il nostro of Counsel Renato d’Andrea, responsabile del dipartimento di Intellectual Property di Lexellent interverrà domani a Venezia alla tavola rotonda in occasione della due giorni organizzata da Arbitrando dal titolo L’ARBITRATO NELLE CONTROVERSIE SUL DIRITTO D’AUTORE, NEL MONDO DELLO SPETTACOLO E DELL’ARTE.
L’avv. D’Andrea focalizzare il suo contributo in tema di valore artistico dell’industrial design.
Scarica qui la locandina con il programma completo.

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Coinvolgimento Paritetico dei lavoratori e decontribuzione del premio di risultato.

Il Prof. Francesco Bacchini, partner di Lexellent ha scritto un articolo per Il Sole 24 Ore in materia di decontribuzione dei premi di risultato sulla base del coinvolgimento paritetico dei lavoratori attraverso gli strumenti digitali.
LEGGI L’ARTICOLO COMPLETO!

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LEGAL COMMUNITY LABOUR AWARDS 2018: LEXELLENT VINCE IL PREMIO BEST PRACTICE “SICUREZZA DEL LAVORO”

Durante l’annuale appuntamento organizzato da Legal Community, che incorona i migliori studi legali italiani nell’ambito del Diritto del Lavoro, Lexellent ha ricevuto un riconoscimento importante per il nuovo dipartimento di “Sicurezza del Lavoro”, guidato dal Prof. Francesco Bacchini.
Questa la motivazione della giuria nell’assegnazione del premio allo Studio:
Il tema della sicurezza sul lavoro è uno dei nuovi “business” del settore del diritto del lavoro. Aconferma della crescita esponenziale e della centralità di questo tema per le aziende, Lexellent ha recentemente creato un apposito dipartimento sicurezza del lavoro, diretto dal Prof. Francesco Bacchini, uno dei massimi esperti italiani del settore, affiancato dal penalista Paolo Aldrovrandi
Migliore studio legale per la sicurezza del lavoro
 

La sicurezza del lavoro tra i nuovi business del settore

Giulietta Bergamaschi, managing partner di Lexellent, intervistata da Luigi Dell’Olio per Legal circa le nuove frontiere della consulenza legale e i nuovi “business” del settore, sottolinea la centralità del tema sicurezza del lavoro, a cui lo Studio ha appena dedicato un apposito dipartimento.
«Parliamo di un tema cruciale per le aziende, che in una società sempre più rischiosa, si trovano ad agire sulla base di regole spesso dettate da un principio di prevenzione non sempre facile da interpretare», è la sua analisi. Accompagnata dalla considerazione che spesso questo ambito è considerato una questione puramente formale, affidata ai dirigenti d’azienda, a volte in un’ottica di mero contenimento dei costi. «Noi invece conosciamo l’ottica aziendale del valore sostanziale e centrale della sicurezza sul posto di lavoro, una materia che a ben guardare ha oggi anche un valore strategico per il business», rivendica. Non è una questione riservata a poche aziende virtuose, né tanto meno una questione di puri obblighi di legge. «Il tema sicurezza del lavoro riteniamo va affrontato ad ampio spettro da tutte le imprese che vogliano costruire basi solide e noi abbiamo gli strumenti per consentire loro di farlo».
Leggi il testo integrale dell’articolo: Legal.

Ciao Sergio

Con grande dolore partecipiamo all’improvvisa scomparsa del nostro collega e amico Sergio Barozzi, co-fondatore nel 2011 di Lexellent. Con lui abbiamo condiviso 40 anni di vita professionale e personale.
Il nostro pensiero e cordoglio va alla sua famiglia, alla moglie e ai suoi due figli.
Ciao Sergio.
 

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L’Avv. Hulla Bisonni relatrice al Convegno “Nuove tecnologie, nuovi lavori, nuove modalità di controllo”, organizzato da ASLA

Il 18 luglio 2018, ore 14:30, nel corso del convegno dal titolo “Nuove tecnologie, nuovi lavori, nuove modalità di controllo”, organizzato da ASLA, l’Avv. Hulla Bisonni interverrà in tema di lavoro agile, ad un anno dall’entrata in vigore della Legge n. 81/2017.
Leggi il programma dell’evento in formato PDF
Per maggiori informazioni: asla
 

Sai quali sono le nuove sfide del Diritto del Lavoro?

E’ online il nuovo video istituzionale di Lexellent “Quali sono le nuove sfide del Diritto del Lavoro?”.
I professionisti di Lexellent seguono da sempre i cambiamenti  del diritto del lavoro  in tutte le sue declinazioni:
Il mondo del lavoro si evolve ad altissima velocità e impone a noi giuslavoristi di adeguarci, trovando risposte e soluzioni nuove sempre sul filo dell’urgenza. Oggi più che mai non si può parlare di questioni ordinarie, perché siamo chiamati a gestire situazioni sempre complesse, che coinvolgono decisioni organizzative e strategiche per le imprese. I professionisti di Lexellent hanno quindi deciso di raccogliere anche la sfida dell’innovazione, puntando su temi come sicurezza del lavoro, smart working, gig economy e pari opportunità” commenta Giulietta Bergamaschi, Managing Partner dello Studio.
L’innovazione sarà quindi la linea guida della gestione Bergamaschi, che segna anche il passaggio generazionale dello studio fondato nel 2011.
https://vimeo.com/279050882

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“Priorità alla sicurezza sul lavoro”: il Prof. Francesco Bacchini su Review – Monitor Immobiliare

“Le normative e le sanzioni poste in tema di sicurezza del lavoro e la loro attuazioni nei rapporti con la Pubblica Amministrazione. Del tema abbiamo parlato con Francesco Bacchini, professore della Bicocca e responsabile del Dipartimento di Sicurezza del Lavoro di Lexellent.”
Guarda il video dell’intervista o leggi l’articolo in formato PDF su Review -Monitor Immobiliare

“Decreto Dignità? Chi ci rimette è la nostra credibilità”: l’intervista di Giulietta Bergamaschi su Economy Mag

Alla luce del Decreto Dignità appena varato, le scelte del nuovo Governo in tema di lavoro sembrano rendere più incerte le regole in cui operano le imprese italiane.
Giulietta Bergamaschi, Managing Partner di Lexellent, boccia senza mezze misure il primo provvedimento del governo.
Leggi l’articolo pubblicato su Economy Mag, disponibile anche in formato PDF: Economy Mag.

La sicurezza ai tempi del mobile business: immagine del lavoratore sotto osservazione

“Renato D’Andrea, avvocato dello Studio Legale Lexellent, individua un altro tema rilevante alla luce del nuovo regolamento europeo, relativo al trattamento in ambito lavorativo dell’immagine o “identità fisica”, per usare l’espressione del legislatore comunitario”.
Leggi il testo integrale dell’articolo, pubblicato su “L’Impresa” di giugno: L’Impresa.

Lo speciale di Top Legal sul fatturato del comparto legale: Lexellent tra i primi in Italia

Nel report annuale di Top Legal, Lexellent si conferma tra i primi studi italiani.
Leggi lo speciale: Fatturati-TopLegal

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Giulietta Bergamaschi è la nuova Managing Partner di Lexellent

Milano, 27 giugno 2018Nota per il suo impegno a favore delle pari opportunità nelle organizzazioni e per aver sempre rivolto il suo interesse alle tematiche d’avanguardia nel diritto del lavoro, Giulietta Bergamaschi rappresenta un vero e proprio passaggio generazionale alla guida dello Studio nato nel 2011.
Una leadership che secondo i soci fondatori risponde in maniera ancora più efficace alle evoluzioni del mercato e della professione nell’ambito del giuslavoro:
Le organizzazioni stanno affrontando cambiamenti importanti: il mondo del lavoro continua ad evolversi ad altissima velocità e richiede ai giuslavoristi di trovare risposte e soluzioni nuove. Noi di Lexellent abbiamo oggi scelto di essere anche presenti sui temi di innovazione: sicurezza del lavoro, lavoro agile, diversity, gig economy e privacy” ha dichiarato l’avv. Bergamaschi.
Innovazione e pari opportunità sono le linee guida della gestione Bergamaschi per l’organizzazione interna dello Studio che mira ad integrare nuove figure al suo interno nei prossimi mesi in funzione del potenziamento dei singoli dipartimenti.
Leggi la rassegna stampa: Le Fonti LegalIl Sole 24 oreDiritto 24 ,Legal.

Jobs act, giuslavoristi in allarme per la riforma annunciata

“Il nuovo governo nasce con una importante novità: un superministero lavoro-sviluppo a guida Luigi Di Maio, che non lascia indifferenti i giuslavoristi italiani. Anzi li divide, tra chi ritiene positivo poter contare su un interlocutore unico per la gestione dei tavoli di crisi aziendale. E chi, al contrario, teme un sovraccarico di competenze, con il rischio che si trascurino tematiche di primaria importanza nel campo del lavoro, a partire da quello che non va del jobs act, al contrasto al precariato e alla revisione della disciplina sui contratti a termine acausali”.
In questo quadro, si colloca la scelta di Lexellent di istituire al proprio interno un dipartimento di sicurezza del lavoro guidato dal Prof. Francesco Bacchini che sul punto è stato intervistato da Italia Oggi.
Leggi l’articolo in formato PDF

Chi tutela la sicurezza degli studenti in alternanza scuola-lavoro?

Nella giornata dello scorso 14 giugno, si è verificato un infortunio ai danni di un studente durante un progetto di alternanza scuola-lavoro: un giovane di 17 anni, alle prese con un macchinario in un’officina, si è ferito alla mano sinistra, perdendo la falange dell’anulare.
Tale infortunio, accaduto a Montemurlo (Prato), lungi dall’essere un episodio isolato, si pone in scia con diversi (ormai troppi) altri casi di infortuni di giovani studenti in alternanza scuola-lavoro.
A maggio 2018, infatti, uno studente di 16 anni, impegnato in uno stage in un’azienda di Pavia di Udine (Udine) è rimasto gravemente ferito utilizzando una fresa, semi-amputandosi una mano.
Il 6 ottobre 2017, a La Spezia, presso una ditta che ripara motori nautici, un ragazzo di 17 anni si è rotto la tibia a seguito del ribaltamento del muletto che stava guidando (senza avere l’apposito patentino); due mesi dopo, il 21 dicembre, un incidente sul lavoro (con infortunio mortale) ha visto il ferimento anche di uno studente di 18 anni che si trovava sul cestello di una gru con un lavoratore di 45 anni di una ditta di manutenzione di impianti elettrici; i due, una volta giunti a una decina di metri d’altezza, sono precipitati: l’uomo non ha avuto scampo, mentre lo studente ha riportato gravi lesioni e fratture alle gambe.
Accompagnata, fin da subito, da scetticismi e critiche, più o meno argomentate, l’alternanza scuola-lavoro continua a rappresentare terreno di scontro e preoccupazione sociale e ciò in particolare per quanto riguarda la doverosa (ma spesso, a dir poco, trascurata) tutela della salute e della sicurezza degli studenti.
Risulta, pertanto, doveroso richiamare in breve le principali caratteristiche di tale istituto, così da delinearne, oggettivamente, gli aspetti positivi e/o negativi.
Introdotta (facoltativamente) con la L. n. 53/2003 (c.d. Riforma Moratti), per alternanza scuola-lavoro si intende una metodologia didattica, destinata agli studenti degli istituti di istruzione superiore che permette lo svolgimento di una parte del percorso formativo presso un’impresa o un ente, al fine di incrementare le capacità di orientamento, le conoscenze pratiche e, conseguentemente, le opportunità di lavoro durante, ma, soprattutto, dopo il ciclo di studi.
La L. n. 107/2015 (c.d. “Legge sulla buona scuola”) ha, poi, sancito, tra le altre, l’obbligatorietà di tale metodo nell’offerta formativa quale parte integrante e vincolante dei percorsi di istruzione.
I progetti vengono attuati, verificati e valutati, sotto la responsabilità dell’istituzione scolastica o formativa, sulla base di apposite convenzioni con le imprese o con le rispettive associazioni di rappresentanza o con le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura o, ancora, con enti pubblici e privati.
Tali convenzioni hanno per oggetto le finalità dell’alternanza e le modalità di realizzazione della stessa, con particolare attenzione alle attività da svolgersi durante l’esperienza di lavoro, alle norme e alle regole da osservare.
Oltre alla convenzione tra istituto scolastico e soggetto ospitante, viene sottoscritto dallo studente (o, se minore, dal genitore quale rappresentante legale ex art. 320 c.c.) e dal dirigente scolastico dell’istituto frequentato un “patto formativo”, che è il documento con cui il medesimo studente si impegna, tra l’altro, a rispettare determinati obblighi (i.e. rispetto di persone e cose, abbigliamento e linguaggio adeguati all’ambiente, osservanza delle norme aziendali), a conseguire competenze, a svolgere le attività secondo gli obiettivi, i tempi e le modalità previste, seguendo le indicazioni dei tutors e facendo ad essi riferimento per qualsiasi esigenza o evenienza.
La relazione “studente-organizzazione ospitante” non costituisce un rapporto di lavoro: il vincolo viene meno, di fatto, con l’esaurimento del progetto di alternanza, senza comportare alcun impegno di assunzione ma, soprattutto, impedisce che in capo allo studente possa sorgere un diritto nei confronti dell’organizzazione ospitante a qualunque compenso o indennizzo per l’attività lavorativa di orientamento e formazione di cui al progetto medesimo.
Nonostante tale impostazione, trovano, tuttavia, applicazione i tipici obblighi del rapporto “datore di lavoro-lavoratore” relativi alla tutela della salute e della sicurezza.
Gli studenti in alternanza scuola lavoro, infatti, rientrando, seppure con evidenti peculiarità, nella categoria degli stagisti, risultano equiparati ai lavoratori quali destinatari di tutte le misure preventive e protettive dell’integrità fisio-psichica contenute nel D.lgs. n. 81/2008 (si veda la definizione di cui alla lett. a) dell’art. 2).
La L. n. 107/2015 rimette, in particolare, la regolazione degli aspetti di salute e sicurezza alle convenzioni e alla Carta dei diritti e doveri degli studenti in alternanza (d.m. n. 195/2017), la quale prevede specifiche iniziative di formazione e di controllo medico nei confronti degli studenti.
Per quanto riguarda la formazione generale di cui al Testo Unico Sicurezza, la Carta prevede che sia erogata dagli istituti scolastici e certificata prima dell’inizio dell’alternanza; diversamente, quella relativa ai rischi specifici non affrontati a scuola, viene affidata alla struttura ospitante al momento dell’ingresso dello studente.
La Carta fa, comunque, salva “la possibilità di regolare, nella convenzione il soggetto a carico del quale gravano gli eventuali oneri conseguenti”, aggiungendo, inoltre, che, al fine di ridurre i costi formativi a carico della struttura ospitante, vengano conclusi accordi a livello regionale con l’Inail e gli organismi paritetici per fornire tale formazione, anche facendo ricorso alla modalità e-learning mediante convenzioni con le piattaforme pubbliche esistenti e a ciò finalizzate.
La procedura, che sulla carta pare accettabile, risulta, tuttavia, in concreto, assai farraginosa, con il forte rischio che lo studente finisca per apprendere, a livello operativo, poco o nulla dei comportamenti sicuri che dovrebbe tenere mentre, lavorando, si orienta e si forma.
Ne consegue che l’unica “vera” tutela per gli studenti in alternanza finirà per essere rappresentata dall’addestramento e dal controllo che su di essi necessariamente eserciterà il tutor aziendale, una sorta di preposto dedicato e obbligato, mentre insegna, a vigilare e intervenire per garantire la loro incolumità.
Per quanto riguarda la visita medica, la Carta chiama in causa le aziende sanitarie locali, “fatta salva la possibilità di regolare, nella convenzione tra queste ultime e l’istituzione scolastica, il soggetto a carico del quale gravano gli eventuali oneri ad essa conseguenti”.
La norma, con l’evidente intento di evitare alle strutture ospitanti di affrontare le spese connesse alla sorveglianza sanitaria degli studenti, pare di assai difficile realizzazione operativa e ciò in quanto, da un lato, le aziende sanitarie non sono a conoscenza dei rischi specifici ai quali gli studenti saranno esposti durante l’alternanza presso le strutture ospitanti e, dall’altro, le stesse presumibilmente non dispongono delle risorse necessarie per adempiere a tale incombenza, quanto meno nei tempi richiesti dai percorsi di alternanza.
La previsione, pertanto, suona decisamente stonata, sicché è facile immaginare che i costi della sorveglianza sanitaria, a meno di non bloccare tutto il sistema dell’alternanza, finiranno per essere sostenuti dalle strutture ospitanti, le quali se vorranno “utilizzare” gli studenti, dovranno provvedere direttamente all’effettuazione dei controlli medici e, segnatamente, quelli relativi alla visita medica preventiva (e, mutatis mutandis, “preassuntiva”) “intesa a constatare l’assenza di controindicazioni al lavoro” per lo studente, realizzata “al fine di valutare la sua idoneità alla mansione specifica” (in questo caso all’attività di orientamento e formazione in contesto lavorativo), non derogandosi, comunque, ai divieti normativi in tema di lavoro dei minori, come ad esempio quello di impiegare gli stessi in “lavorazioni, processi o lavori pericolosi e dannosi per la salute umana” o di adibirli “al lavoro notturno”.
Fra le prescrizioni contenute nella Carta dei diritti e doveri degli studenti in alternanza merita di essere sottolineata quella che, “al fine di garantire la salute e la sicurezza” degli stessi, impone di determinarne il numero in funzione delle effettive capacità strutturali, tecnologiche ed organizzative della struttura ospitante, nonché in ragione della tipologia di rischio cui appartiene la medesima con riferimento all’Accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011, n. 221” (rischio basso, medio o alto).
La Carta sancisce, infatti, che il rapporto studenti/tutor della struttura ospitante dovrà rispettare la seguente proporzione numerica: “non superiore al rapporto di 5 a 1 per attività a rischio alto, non superiore al rapporto di 8 a 1 per attività a rischio medio, non superiore al rapporto di 12 a 1 per attività a rischio basso”.
La norma, che ha l’evidente finalità di imporre, come abbiamo visto, un controllo effettivo da parte del tutor sull’orientamento e sulla formazione on the job durante l’alternanza, tuttavia non specifica, malauguratamente, a chi competa la valutazione preliminare (presumibilmente al dirigente scolastico), né a chi spetti la verifica operativa del rapporto studenti/tutor (presumibilmente all’Ispettorato Territoriale del Lavoro o al servizio ispettivo delle ASL).
La Carta stabilisce, infine, l’obbligo di dotare gli studenti della copertura assicurativa Inail contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, nonché di stipulare una polizza per la responsabilità civile verso terzi, per tutta la durata del percorso di alternanza (anche in relazione alle “attività eventualmente svolte dagli studenti al di fuori della sede operativa della struttura ospitante, purché ricomprese nel progetto formativo dell’alternanza”).
I costi delle coperture assicurative dianzi richiamate non gravano sugli studenti e sulle loro famiglie, né sulle strutture ospitanti, ma sono sostenuti, genericamente, dall’istituzione scolastica.
Al di là degli aspetti positivi e negativi che possono emergere dall’analisi complessiva della normativa che ha disciplinato l’alternanza scuola-lavoro, risulta assolutamente necessario, per un accettabile bilanciamento degli stessi, che tutti gli operatori coinvolti adottino, senza inammissibili sottovalutazioni e negligenze, tutte, ma proprio tutte, le prescritte misure per la tutela della salute e sicurezza sul lavoro, stante la inaccettabile gravità degli episodi infortunistici sopra riportati.
Leggi il testo dell’articolo del Prof. Francesco Bacchini in formato PDF.

“Lavoro agile: esperienze a confronto”, il 25 maggio 2018 da Lexellent

Lexellent è lieta di invitarvi al prossimo evento: “Lavoro agile, esperienze a confronto”.
Interverranno il Dott. Antonio Traficante, Direttore Regionale Inail Lombardia, la Dott.ssa Maria Rosaria Spagnuolo, Responsabile Area Salute e Sicurezza sul Lavoro Assolombarda Milano e Monza Brianza e la Dott.ssa Raffaella Maderna, Direttore Risorse Umane di Lundbech Italia S.p.a.
Programma:
Ore 8:45 – Registrazione Ospiti
Ore 9:00 – Inizio lavori
Ore 10:30 – Chiusura lavori e colazione di metà mattina
Informazioni:
Quando: 25 maggio 2018 ore 9:00
Dove: Lexellent, via Borghetto 3 Milano (MM Palestro – Porta Venezia)
RSVP: lexellent@lexellent.it
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“Aspettando il Forum Sicurezza e Salute 2019”, il 9 maggio 2018 a Torino

Il Prof. Francesco Bacchini, responsabile del Dipartimento Sicurezza del lavoro di Lexellent, sarà tra i relatori del convegno dal titolo “Aspettando il Forum Sicurezza e Salute 2019 – Gli attori della sicurezza a confronto”, a Torino, il 9 maggio 2018.
Per informazioni ed iscrizioni: https://www.fondazioneperlarchitettura.it/corso/aspettando-il-forum-sicurezza/
20180509_AspettandoForumSicurezzaSalute2019_Locandina

Il futuro delle relazioni industriali: riflessioni sull’Accordo Interconfederale del 28 febbraio 2018 – i contenuti dell’incontro

Lo scorso 18 aprile 2018, si è tenuto l’incontro dal titolo “Il futuro delle relazioni industriali: riflessioni sull’Accordo Interconfederale del 28 febbraio 2018”, organizzato da Lexellent, con la partecipazione del Prof. Francesco Bacchini e dell’Avv. Hulla Bisonni.
Scarica le slide da questo link: il futuro delle relazioni industriali
 
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Lexellent apre il nuovo Dipartimento Sicurezza del Lavoro

Lexellent è lieta di annunciare la costituzione del nuovo Dipartimento Sicurezza del Lavoro che sarà guidato dal Prof. Francesco Bacchini, giurista e docente dell’Università Bicocca, già of counsel dello Studio.
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Il concetto di associazione sindacale “comparativamente più rappresentativa” sul piano nazionale e i c.d. “contratti pirata”

Secondo il CNEL i contratti collettivi nazionali sono oltre 800 (per la precisione 868): possibile che siano tutti stipulati da associazioni sindacali “comparativamente più rappresentative” sul piano nazionale? Ovviamente non è così: solo 300, infatti, sono considerati “regolari”, gli altri – ad affermarlo è Tiziano Treu (presidente CNEL) – sono “contratti pirata”,vale a dire contratti siglati da associazioni datoriali non rappresentative con sindacati dei lavoratori anch’essi privi di effettiva rappresentanza che presentano condizioni economiche e/o normative al di sotto degli standard contrattuali dei settori di riferimento, specie per risparmiare sul costo del lavoro, determinando così una potenziale “concorrenza sleale” a imprese e associazioni datoriali “corrette”. Ecco, allora, che a contrastare il dumpingcontrattuale, dettando nuove regole contro i “contratti pirata”, interviene l’accordo interconfederale del 28 febbraio 2018. Uno degli obbiettivi che si pone l’incontro del prossimo 18 aprile è provare a verificare se CONFINDUSTRIA, CGIL, CISL e UIL, firmatarie del c.d. “patto della fabbrica”, abbiano trovato una soluzione “operativa” oppure se trattasi solo di una dichiarazione d’intenti.
https://lexellent.it/appuntamenti/18-aprile-il-futuro-delle-relazioni-industriali-riflessioni-sullaccordo-confederale-del-28-febbraio-2018/

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Formazione vera. Non da computer

La sintesi.
Il docente esclude il fattore casualità alla base degli infortuni.
“Le ragioni sono altre”.
di Luca Balzarotti.
Milano
“Dentro un evento tragico come quello di Treviglio ci sono tanti ingredienti. L’ultimo è il caso”.
Francesco Bacchini è professore di Diritto del Lavoro alla Scuola di Economia dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Non si iscrive al partito dei fatalisti?
“Sono situazioni che non si riescono a governare per diverse ragioni e che determinano incidenti. Troppo spesso mortali. Ma non sono determinati dal caso”.
Che idea si è fatto dell’incidente di Treviglio?
“E’ un caso complicato, che necessita di ulteriori approfondimenti da parte degli inquirenti per capire cosa ha determinato il pericolo all’origine dell’esplosione. Posso ipotizzare che l’apertura dei boccaporti abbia fatto passare ossigeno in un’atmosfera satura di gas. La magistratura dovrà verificare se la procedura è stata effettuata correttamente. Se, e dove, c’è stato un errore umano e quali procedure erano indicate nel piano di emergenza dell’azienda”. Al di là di questo episodio, ritiene che i lavoratori siano più preparati ad affrontare le emergenze?
“Purtroppo devo constatare ancora una certa superficialità nella pianificazione delle emergenze”.
Colpa della legge?
“La legge è precisa e dettagliata. Nel 2011 un Decreto del presidente della repubblica ha disciplinato ulteriormente le norme di sicurezza per gli ambienti di lavoro confinati o sospetti di inquinamento come cunicoli, gallerie e silos. C’è poi la parte del Testo unico che prevede le regole per la protezione da atmosfere esplosive. Questo quadro normativo paradossalmente ha diffuso un’ansia da adempimenti formali, a discapito di una formazione e un addestramento sul campo adeguati alle mansioni e agli strumenti di lavoro realmente utilizzati”.
Il risultato è la formazione da brochure o online?
“Formazione da brochure è una sintesi che mi sembra appropriata. Per quanto riguarda l’e-learning, vi sono norme di carattere generale che possano essere apprese anche tramite percorsi online. Ma esistono regole da insegnare sul campo. Invece la formazione è confinata ai ritagli di tempo”.
La presenza di aziende nei centri abitati la preoccupa? Gli operai di Treviglio sono stati allertati dai cattivi odori avvertiti dagli abitanti…
“Nella Bergamasca e in Brianza, come in tante altre zone, troviamo anche grandi aziende all’interno dei centri abitati, soprattutto quelli piccoli. In alcuni casi, sono parte della storia di quei Comuni. Ci sono aziende a rischio di incidente rilevante che devono essere lontano dal resto della collettività per evitare che le conseguenze di eventuali emergenze non si riverberino sulla popolazione. Ma non è il caso di Treviglio.”
infortuni sul lavoro

18 aprile: “Il futuro delle relazioni industriali: riflessioni sull’accordo interconfederale del 28 febbraio 2018”

I partner di Lexellent sono lieti di invitarvi al nostro prossimo evento: “Il futuro delle relazioni industriali: riflessioni sull’accordo interconfederale del 28 febbraio 2018”. Ne parleremo insieme al Prof. Francesco Bacchini e all’Avv. Hulla Bisonni.
Programma:
Ore 17:15 – Registrazione Ospiti
Ore 17:30 – Inizio lavori
Ore 19:00 – Fine lavori e aperitivo a seguire
Informazioni:
Quando: 18 aprile 2018 ore 17:15
Dove: Lexellent, via Borghetto 3 Milano (MM Palestro – Porta Venezia)
RSVP: lexellent@lexellent.it

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“La sfida della Privacy per imprese e professionisti”, il 17 aprile a Milano l’evento di UHY Italy

Anche il nostro Renato D’Andrea, avvocato dello Studio Lexellent, tra i relatori del convegno “La sfida della Privacy per imprese e professionisti – Adeguarsi al nuovo Regolamento Europeo evitando rischi e sanzioni” che si terrà MARTEDI’ 17 APRILE 2018 presso il Grand Hotel et de Milan.
Programma ed iscrizioni: