Apparentemente l’idea dell’alternanza scuola-lavoro – far fare a studenti delle superiori stage nelle aziende come parte integrante del percorso scolastico, uno dei pilastri della “buona scuola” di Renzi – non è solo buona, ma fa tirare un sospiro di sollievo a tutti quelli che pensano che si vada scuola non solo per accrescere le conoscenze ma anche per acquisire competenze e opportunità spendibili nel mondo del lavoro.
Secondo Gianfelice Rocca, presidente di Techint e di Assolombarda, è addirittura «uno dei doveri morali dell’istruzione superiore», come ha dichiarato al Corriere della Sera. Tuttavia, come in Italia succede spesso, la legge pone più problemi di quanti ne risolva: se tutti possono convenire sull’opportunità di una maggiore e migliore connessione fra istruzione e occupazione, di dare un valore formativo a quelli che altrimenti sarebbero solo pseudo lavori non pagati, che spesso nella pratica finiscono per favorire l’abbandono scolastico piuttosto che il raggiungimento del diploma, nella pratica l’alternanza scuola-lavoro rischia di diventare l’ennesima occasione mancata, indipendentemente dai protocolli d’intesa – si veda, per esempio, quello firmato dal Miur e da Confindustria a job&orienta lo scorso 27 novembre – e dalle proroghe, prima al 30 ottobre poi al 16 novembre, concesse alle scuole secondarie per presentare i progetti di alternanza previsti dalla guida operativa inviata dal Ministro Giannini l’8 ottobre ai dirigenti scolastici.
In più mancano il regolamento previsto dalla Carta dei diritti e dei doveri degli studenti in alternanza, la definizione delle modalità di applicazione delle norme di sicurezza sul lavoro per gli studenti impegnati in attività di stage, tirocinio o didattica di laboratorio. C’è poi l’incognita del registro nazionale per l’alternanza scuola-lavoro, della cui utilità si può dubitare visto che non sembra obbligatorio per le scuole utilizzare le imprese che si sono registrate per i progetti formativi, che la legge 107/2015 ha istituito presso le Camere di Commercio a decorrere dall’anno scolastico corrente e che non è ancora stato attivato. Il registro impone oneri burocratici ed economici – la compilazione di un articolato modello di autocertificazione e il pagamento di una imposta di bollo e diritti di segreteria per un totale di 155 euro – non indifferenti anzi forse scoraggianti per le imprese che intendono iscriversi, ed è diviso in due parti: la prima è un’area aperta e consultabile gratuitamente, in cui sono visibili le imprese e gli enti pubblici e privati disponibili a svolgere i percorsi di alternanza, la seconda è una nuova sezione speciale del Registro delle Imprese di cui all’articolo 2188 c.c. a cui possono iscriversi le imprese per l’alternanza scuola-lavoro.
Ma la principale difficoltà, come ha sottolineato il Criet, Centro di Ricerca Interuniversitario in Economia del Territorio dell’Università di Milano-Bicocca – di cui chi scrive è referente accademico per l’area di attività “Welfare & Politiche del Lavoro” – sta nell’enorme numero di ore di alternanza che, in forza della legge, le scuole secondarie dovrebbero garantire ogni anno ai loro alunni: a regime, 150 milioni di ore. Di cui il 41% – oltre 60 milioni di ore – nelle regioni del Sud, oltre il 30% del totale nazionale nelle sole Puglia, Campania e Sicilia, più di 45 milioni di ore all’anno. Non basta, infatti, dire “si aprano le aziende al lavoro degli studenti”, ma serve la presenza di un tessuto industriale in grado di assorbire quest’offerta di alternanza scuola lavoro e, allo stato delle cose, semplicemente non c’è, soprattutto al Sud.
Un secondo problema, che riguarda anche il Nord, è quello delle dimensioni d’impresa. L’87% delle imprese italiane ha meno di 10 dipendenti: la “polverizzazione” del tessuto produttivo rende comunque molto problematico l’inserimento temporaneo di forza lavoro non formata; inserimento praticamente impossibile in imprese di produzione “nucleari”, nelle quali lo svolgimento di un’attività formativa su soggetti che poi non restano all’interno dell’azienda ha davvero ben poca ragion d’essere, giacché, per le sue dimensioni, queste imprese hanno esigenze di inserimento di personale molto limitate e diluite nel tempo e spesso temono che il proprio esclusivo know-how, che sovente ne consente la sopravvivenza, venga trasmesso all’esterno favorendo la potenziale creazione di concorrenti qualificati.
Criticità insuperabili? Non necessariamente: il Criet sta provando a suggerire soluzioni operative come la creazione della “Casa del lavoro”, in fase sperimentale presso il comparto aerospaziale campano. Si tratta di una struttura indipendente, esterna alle imprese, in grado di rappresentare la complessità dei processi aziendali. È un luogo dove gli studenti possono sperimentare il modello lavorativo e gestionale di un’azienda reale, con la possibilità di apprendere competenze tecnico professionali, sviluppare spirito d’iniziativa, creatività e la possibilità di assumersi responsabilità imprenditoriali.
In altre parole un “simulatore d’impresa” che possa funzionare come stanza di compensazione fra mondo della scuola e mondo del lavoro, mettendo insieme reti di scuole e piccole imprese del territorio, coinvolgendo nel processo di formazione anche le istituzioni locali – particolarmente interessate anche al recupero ed alla riqualificazione di aree industriali dismesse o in difficoltà – e le associazioni imprenditoriali, che senza dubbio sono uno dei principali soggetti con i quali collaborare per creare percorsi formativi che stimolino ed incentivino la disponibilità delle imprese a partecipare utilmente alternanza scuola lavoro. Le “Case del lavoro”, modello replicabile sul territorio, potrebbero, inoltre, diventare centri di sperimentazione per l’applicazione e lo sviluppo di nuove tecnologie ai mestieri tradizionali delle microimprese italiane, spesso troppo focalizzate sul raggiungimento di obiettivi pratici di breve periodo anche per pianificare lo sviluppo futuro del loro business.
Per ora gli stanziamenti governativi previsti – 100 milioni all’anno a partire dal 2016 per sostenere l’alternanza scuola-lavoro più 18,9 milioni previsti dal decreto 435/2015 – non permettono di pensare in grande: stiamo parlando di meno di 70 centesimi per ogni ora di formazione che dovrebbe essere erogata. Tuttavia l’importanza attribuita dal Governo e dal ministro dell’Istruzione sul progetto dell’alternanza, definito «una risposta concreta alla dispersione scolastica e alla disoccupazione giovanile», fanno pensare che su questa base sia possibile cominciare a costruire progetti di aggregazione di tutti i soggetti interessati alla creazione di una forza lavoro più preparata e motivata. Probabilmente una strada obbligata per consolidare e sostenere la ripresa proprio nell’economia dei territori.